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S. Alfonso Maria de Liguori
Lettere

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262. AD UN SACERDOTE, SUO AMICO.

Risponde ad alcune obbiezioni fattegli contro certi passi del suo libro: Storia delle Eresie.

 

Viva Gesù, Maria e Giuseppe!

[ARIENZO, MESE DI AGOSTO 1772].

 

Illmo Sig. Sig. e Pne colmo. Prima di tutto, le mando l'opera mia dell'Eresie, acciò mi possa difendere quando occorre.

In quanto poi a quel che mi scrive da parte del P. D. Gennaro Fatigati, primieramente le dico che quel passo che sta al tomo alla pagina 8151 dove par che si dica che nell'antica legge non eran proibiti i mali desideri, io già prima, avendo ciò avvertito, ho veduto che le parole fanno mal senso: onde ho fatto già stampare un cartesino apposta, per metterlo in fine del libro come un avvertimento.

Del resto, questo che i precetti morali erano gli stessi quelli della legge antica che della nuova, lo sanno anche gli scolari; ed io poco appresso, alla pag. 837 al 7, questo appunto l'ho spiegato. Nel cartesino si è posto così: Nell'antica Legge era imposta la pena ai soli delitti attuali esterni; onde alcuni ebrei ecc.

Io non so come si sono imbrogliate queste parole; giacché la proposizione questo voleva intendere, e perciò si nomina la pena imposta. Basta; non so come ciò sia accaduto, se per abbaglio dello stampatore. Del resto, si è corretto col cartesino.

Parlando poi delle altre cose che il Sig. Fatigati mi ha avvertite, io lo ringrazio, come ne ringrazio anche V. S. Illma; ma


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avendole attentemente considerate, non han bisogno di cartesini né di spieghe. Se avessi voluto spiegare a lungo tutte le migliaia di cose che ho poste nelle Confutazioni, avrei avuto da fare quattro o cinque altri tomi di più, per levare (dico) tutte le oscurità ed equivoci che possono entrare in mente degli altri.

Dico, per primo, che quasi in tutta la Teologia non vi è proposizione, sanissima che sia, che dai maligni non possa storcersi a mal senso.

Dico, per secondo, che molte cose si hanno da intendere dal contesto di quelle altre che si trovano scritte nel libro.

Dico, per terzo, che le parole si hanno da intendere secondo il punto principale che si tratta, e secondo l'opposizione che si obbietta dal contrario.

Posto ciò, rispondo in breve alle cose notate nelle pagine 814 e 815.

Si oppone, per primo, che nel libro si dice: I moti che prevengono il consenso, al più sono peccati veniali, quando noi trascuriamo di scacciarli dalla nostra mente dopo che l'abbiamo avvertiti. Il solo consenso poi del desiderio di un male grave è peccato mortale. Si oppone pertanto che, posto che tali moti sono avvertiti, bisogna vedere se vi è la compiacenza o il desiderio. Queste cose (cioè la compiacenza o il desiderio) non prevengono il consenso, ma lo tengono imbibito.

Così ancora (mi si scrive) non il solo consenso del desiderio è peccato grave, ma ancora la compiacenza. - Ma questa opposizione qui non ha luogo; perché si confonde la compiacenza col desiderio. Io non ho parlato in quel primo luogo della compiacenza, ma solo del mal desiderio; Cioè del precetto Non concupisces, e parlo contra Calvino (questo è il punto del discorso) il quale dicea che era impossibile osservare questo precetto di non aver mali desideri.

Non ha dubbio che la compiacenza dell'oggetto malo tiene imbibito il consenso; ma non va ciò per lo desiderio, quando vi manca il consenso; altrimenti, anche il desiderio discacciato sarebbe peccato mortale: desiderio, cioè il pensiero discacciato.


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Leggo nella vostra lettera che, così il desiderio, come la compiacenza dell'oggetto malo tengono imbibito il consenso.

In quanto alla compiacenza, rispondo qui appresso.

In quanto poi al desiderio, bisogna distinguere il desiderio della carne dal desiderio della volontà. Quando il desiderio è della volontà, certamente imbeve il consenso; ma non quando il desiderio è solo della carne, cioè dell'appetito malvagio, e la volontà lo ributta.

Passiamo ora alla compiacenza; perché sinora ho parlato del desiderio, non già della compiacenza.

Si oppone, per secondo, quel che si dice alla pag. 815, dove sta così: Se l'uomo, avvertendo il mal desiderio, vi consente o si diletta morosamente in pensarvi, giustamente si fa reo di colpa grave o leggiera.

Qui mi viene opposto che, supposto che sia avvertito, il mal desiderio, o acconsentito o dilettato, è sempre peccato grave. E che a ciò non osta la distinzione della compiacenza dell'oggetto malo, e del pensiero dell'oggetto malo; perché tanto è peccato grave la compiacenza dell'oggetto malo, quanto la compiacenza del pensiero dell'oggetto malo, poiché il pensiero sumit malitiam ab objecto cogitato, et imbibit naturam objecti.

A questa opposizione lascio rispondere S. Tommaso, il quale in I. 2. quaest. 74 a. 8 in corp. dice così: (Nella Morale, questo passo di S. Tommaso sta abbreviato, ma qui bisogna portarlo intiero) " Sic igitur aliquis, de fornicatione cogitans, de duobus potest delectari: uno modo de ipsa cogitatione, alio modo de ipsa fornicatione cogitata. Delectatio de cogitatione sequitur inclinationem affectus in cogitationem ipsam; cogitatio autem ipsa, secundum se, non est peccatum mortale; imo quandoque est veniale tantum, puta cum aliquis inutiliter cogitat de ea; quandoque autem sine peccato omnino, puta cum aliquis utiliter de ea cogitat, sicut cum vult de ea praedicare vel disputare, et ideo delectatio, quae sic est de cogitatione fornicationis, non est de genere peccati mortalis, sed quandoque est peccatum veniale, quandoque nullum. Unde nec consensus in talem delectationem est peccatum mortale."


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Questo che dice S. Tommaso non ha bisogno di chiosa. Solo prego a notare quelle parole ultime: nec consensus in talem delectationem est peccatum mortale. Dunque il consenso nel dilettarsi del pensiero dell'oggetto, ma non dell'oggetto, secondo S. Tommaso, non sumit malitiam objecti mali.

Questa dottrina poi è insegnata anche da' Probabilioristi, come da Cuniliati (de Pecc. cap. I. 7. n. 7.), da Antoine (de Pecc. c. 6. 2), da Stampò nella Morale ultima, fatta per li chierici (de Pecc. c. 7. 2). Lascio altri autori.

V. S. aggiunge ch'io, nella mia Morale, non vi ho posto di più: cum abominatione objecti. Ma questa aggiunta non ve la mette S. Tommaso, né affatto era necessario che ve la mettess'io. Io tengo per certa la dottrina di S. Tommaso, che la delettazione del solo pensiero dell'oggetto non è mortale.

Quell'altra eccezione poi: nisi absit periculum proximum consensus, questa eccezione cammina nel libro della Morale; ma non in questo, dove l'intento è di confutare Calvino, che negava esser possibile osservarsi il precetto Non concupisces.

Leggo inoltre accennati certi altri dubbi i quali, secondo me, affatto non reggono. Per rispondere adequatamente, mi bisognerebbe scrivere a lungo; ma penso di ben potermi esimere di questa fatica.

Del resto, ringrazio V. S. degli avvertimenti, e ringrazio il mio stimatissimo D. Gennaro Fatigati il quale ha fatto scrivere ciò, non per genio di criticarmi, ma per liberarmi dalla critica degli altri.

Ma prego V. S. a dirgli, da parte mia, che lo scrittore dee sfuggire le critiche chiare e certe; perché è impossibile poi di sfuggire tutte le critiche e tutti gli equivoci che possono venire in capo di ognuno. Basta che ogni proposizione possa giustamente spiegarsi in buon senso. È impossibile impedire tutte le vie di spiegar le proposizioni in mal senso e contentare il genio di tutti. Chi vorrebbe posta una limitazione, chi un'altra; chi vorrebbe spiegata una parola, chi un'altra.

A quello che mi scrivete che alle parole: L'uomo è composto di carne e spirito che naturalmente pugnano, [aggiunto] ci voleva:


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dopo il peccato; perché potrebbe alcuno conchiudere che all'uomo sia connaturale il sentire la lotta contra la ragione:

A ciò rispondo, per , ch'io già parlo dello stato della natura corrotta; per , nella sentenza che si dia la natura pura, all'opposizione di quei che la negano e dicono che non può ammettersi la natura pura, perché si dovrebbe ammettere che Dio ha fatta connaturale all'uomo la lotta della carne contro lo spirito, si risponde che ciò non sarebbe stato vizio o difetto, ma condizione della natura umana; e la sentenza che potea darsi la natura pura è quasi comune con Bellarmino, Estio, Silvio, Gaetano e mille altri; e S. Agostino chiaramente l'insegna, e S. Bernardo dice queste parole: Quid sunt duo pedes? Motus sentire, et motibus consentire: illud est naturale, istud est criminale. (Serm. in illud Sap.: Sapientia vincit malitiam.) Leggasi quel che di ciò ho scritto nella pagina 902, num. 13. [Confut. XII.]

Del resto, il P. Fatigati ha scritto tutto per affetto, ed io lo ringrazio.

Non altro. Me lo riverisca, e V. S. mi raccomandi a Gesù Cristo, e resto pieno di stima protestandomi.

Di V. S. Illma Divmo ed obblmo servitore vero

ALFONSO MARIA, vescovo di Sant'Agata

Conforme ad un'antica copia.

 




1 Confutazione XI, 2, n. 5.




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