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S. Alfonso Maria de Liguori
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309. AI SIGNORI MINISTRI DELLA REAL CAMERA DI S. CHIARA.1

Difende la sua dottrina morale dalle accuse generali e speciali, mossegli contro, innanzi la real Camera.

 

[NOCERA, FINE DI MARZO 1777.]

 

Sento che il Sig. avvocato fiscale de Leon in una Rappresentanza, umiliata alla Maestà del Re N. S. e mandata a questa real Camera per essere esaminata, sulle controversie fra


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il Sig. D. Nicola Sarnelli, barone di Ciorani, ed i sacerdoti missionari, de' quali l'augustissimo re Carlo III, monarca di Spagna, mentre regnava in questo regno, costituì me direttore con dispaccio particolare, il mentovato Sig. fiscale, dico, abbia attaccato il mio libro di Teologia morale, dicendo che io sono seguace de' Gesuiti e che ivi stabilisco il probabilismo, e secondo le mie massime scritte son più malvagio di Ario, che la mia dottrina rovescia tutta la morale. Aggiunge che la mia dottrina attacca la sovranità e la sicurezza della sagra persona del Monarca. Aggiunge che la mia è una dottrina perniciosa e ch'egli parla per difendere la morale di Gesù Cristo. Ed indi passa a rimproverare più dottrine particolari, da me scritte.

Onde io, per rispondere a tutto distintamente, nella Prima Parte parlerò de' punti generali, e nella seconda parlerò de' punti particolari.

 

PARTE PRIMA.

De' due punti generali, cioè della mia aderenza alla dottrina gesuitica, e del sistema del probabilismo da me insegnato.

 

In quanto all'essere io seguace delle dottrine de' Gesuiti, io nelle mie opere stampate mi son dichiarato contrario a


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quelle, così nella Morale, come apparisce dal mio Libro, come nella Scolastica; poiché nella mia Opera dommatica sul Concilio di Trento (alla Sessione 6, nel trattato ivi da me aggiunto: Del modo come opera la grazia, al 2. pag. 109, num. 110 e seg.) mi sono opposto alla dottrina de' Gesuiti.

In quanto poi al secondo punto generale del probabilismo da me insegnato, io, in più opere da me stampate, ho riprovato il probabilismo, dimostrando che in buona coscienza non può seguirsi l'opinione probabile, per ragione che sia probabile: poiché la sola probabilità delle opinioni a favor della libertà non bastante fondamento d'operar lecitamente; mentre, per lecitamente operare, vi bisogna la certezza morale dell'onestà dell'azione, la quale certezza non può aversi dalla sola probabilità dell'opinione.

È vero (confesso) che un tempo scrissi che, quando vi sono due opinioni egualmente probabili, la legge non obbliga; ma poi più volte, in tre opere da me stampate, e specialmente nel Monito1 aggiunto alla mia Teologia morale, nella settima edizione fatta della medesima in Venezia, mi son dichiarato che, siccome non può seguirsi l'opinione probabile, così neppure può seguirsi l'opinione equiprobabile per la libertà; perché l'equiprobabile, non avendo maggior forza che di probabile, neppure bastante fondamento di lecitamente operare.

Quel che solo ho scritto nelle mie ultime opere morali, e specialmente nella mia Teologia morale, riveduta ed approvata in Napoli da ambedue le Potestà, e ristampata cinque volte in Venezia, è che: quando vi sono due opinioni egualmente probabili, una per la legge e l'altra per la libertà, allora la legge non è promulgata; allora è promulgata l'opinione che sta per la legge, ma non è promulgata la legge, e quando la legge non è promulgata, ella non può obbligare.

Questa sentenza poi che la legge, per obbligare, dev'essere promulgata, non è sentenza mia: è sentenza comune di tutti i


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Dottori, non solo de' probabilisti, ma anche de' probabilioristi, e specialmente del Maestro S. Tommaso, dichiarato Dottore dalla S. Chiesa e chiamato Maestro di tutte le scuole cattoliche; e S. Tommaso insegna questa sentenza, non già in un solo luogo, ma in diversi luoghi che in questo scritto noterò.

Per , il Dottore insegna così: Lex quaedam regula est et mensura actuum, secundum quam inducitur aliquis ad agendum, vel ab agendo retrahitur. Dicitur enim lex a ligando, quia obligat ad agendum1. Quindi siegue a dire S. Tommaso che questa regola o sia misura, qual'è la legge, acciocché gli uomini sian tenuti ad osservarla, dee loro applicarsi con manifestarsi ad essi per mezzo della promulgazione. Ecco le parole del Santo, dove sta tutta la forza della sentenza: Lex imponitur per modum regulae et mensurae; regula autem et mensura imponitur per hoc quod applicatur his, quae regulantur et mensurantur. Unde ad hoc quod lex virtutem obligandi obtineat, quod est proprium legis, oportet quod applicetur hominibus, qui secundum eam regulari debent. Talis autem applicatio fit per hoc, quod in notitiam eorum deducitur ex ipsa promulgatione. Unde promulgatio ipsa necessaria est ad hoc quod lex habeat suam virtutem2.

Questa sentenza poi, come ho detto, non è solo di S. Tommaso, ma è comune di tutti i Dottori; specialmente ella è insegnata da Giovanni Gersone, il dottore più stimato dalla Francia, il quale dice che la legge, per obbligare, necessariamente dev'esser manifestata all'uomo; altrimenti dice che Dio non può obbligare l'uomo ad osservarla. Ecco le sue parole: Necesse est, dari manifestationem ordinationis ac voluntatis Dei; nam per solam ordinationem, aut per solam voluntatem non potest Deus absolute creaturae imponere obligationem; sed ad hoc opus est, ut ei communicet notitiam unius aeque ac alterius3.


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Lo stesso insegnano il Cardinal Gotti: Ad hoc ut lex in actu secundo obliget, requiritur quidem indispensabiliter ut subditis promulgatione proponatur1; il P. Gonet: Homo non tenetur conformari voluntati divinae, nisi quando voluntas divina nobis praecepto manifestatur2; Ludovico Habert: Ad rationem legis pertinet promulgatio, et vis obligandi: con che vuol dire che la legge non ha forza di obbligare, se non è promulgata; Domenico Soto: Nulla lex ullum habet vigorem legis ante promulgationem, sed tunc instituuntur cum promulgantur. Itaque nullam exceptionem conclusio haec permittit3.

 Vi sono mille altri autori che dicono lo stesso; ma quel che fa più peso è quel che scrisse il P. Patuzzi, mio special oppositore; ma su questo punto, della promulgazione della legge, non ripugnò di scrivere: Consentiunt quidem omnes, promulgationem esse omnino necessariam, ut lex virtutem obligandi obtineat4.

Quando poi s'intenda promulgata la legge, lo spiega Silvio dicendo che allora propriamente si promulga la legge a ciascuno, quando egli riceve il dettame nella coscienza di quel che dee fare o dee fuggire5: Actualiter tunc unicuique (lex) promulgatur, quando cognitionem a Deo accipit, dictantem quid juxta rectam rationem sit amplectendum, quid fugiendum.

E lo stesso dice Gersone nel luogo citato, scrivendo: Lex ista est quaedam declaratio creaturae facta, per quam illa cognoscit quid Deus de certis rebus judicet, ad quas vel praestandas, vel omittendas, ipse creaturam obligare vult. Pertanto insegna poi S. Tommaso che questa legge, per obbligare, dev'essere certa6. E la ragione perché la legge dev'essere certa, è appunto perché, essendo la legge una misura o sia regola, con cui dobbiamo misurare e regolare le nostre azioni, non possiamo regolarle, se la legge.


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non è certa, come scrive Pietro Collet: Lex enim, ut obliget, debet dari ut regula ac proinde innotescere; atqui lex non innotescit nisi per promulgationem cum per eam solam eo intimetur modo qui obediendi necessitatem inducit1.

Per , conferma S. Tommaso la stessa sentenza che la legge dev'esser promulgata e certa per obbligare, in altro luogo. Egli dice, come notammo di sovra: Lex dicitur a ligando, quia obligat ad agendum; onde poi scrive, in quest'ultimo luogo citato, che la legge è come un vincolo, o sia fune, la quale non istringe se non giunge attualmente a ligare l'oggetto che deve esser ligato. Ecco le parole del S. Dottore: Ita se habet imperium alicujus gubernantis ad ligandum in rebus voluntariis illo modo ligationis qui voluntati accidere potest sicut se habet actio corporalis ad ligandum res corporales. Actio autem corporalis agentis nunquam inducit necessitatem in rem aliam nisi per contactum coactionis ipsius ad rem in quam agit. Unde nec ex imperio alicujus domini ligatur aliquis nisi imperium attingat ipsum cui imperatur. Attingit autem ipsum per scientiam2. Sicché dice S. Tommaso che la scienza del precetto è come il vincolo, o sia fune, che liga la volontà dell'uomo; ed indi conclude che niuno è obbligato ad osservare qualche precetto, se non ha la scienza, o sia la cognizione certa, del precetto: Unde nullus ligatur per praeceptum aliquod nisi mediante scientia illius praecepti: così nel luogo citato. Onde, siccome chi si trova sciolto da' ligami, è libero ad andare ove gli piace, così chi non si trova ligato da alcun precetto certo che gli proibisce qualche azione, resta libero da ogni obbligo.

Per , vien confermata la stessa sentenza da S. Tommaso in uno altro luogo, ove propone il dubbio se noi siamo obbligati a conformarci in tutte le cose alla divina volontà; e dice che, in quanto alle disposizioni particolari di Dio circa di noi, che a noi non sono note, non siamo tenuti di conformarci a


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quelle: Sed in particulari nescimus quid Deus velit; et quantum ad hoc, non tenemur conformare voluntatem nostram divinae voluntati1. Ciò poi il P. Gonet lo spiega più distintamente: Homo non tenetur conformari voluntati divinae, nisi quando voluntas divina nobis praecepto manifestatur2: sicché non siam tenuti d'eseguire alcun precetto, se non ci è manifesto.

Per ed ultimo, S. Tommaso conferma la stessa dottrina in altro luogo con più forza. Io ho voluto qui notare i luoghi più speciali, dove il S. Dottore insegna la sentenza che la legge non obbliga, se non è promulgata a noi e manifestata con precetto divino; perché sopra questa dottrina (abbracciata poi universalmente da tutti i Teologi, come di sovra abbiam veduto) sta fondato il mio sistema, cioè che la legge, o sia precetto, deve essere certa e manifestata per obbligare.

Il Dottore Angelico conferma questa dottrina in altro luogo3. Ivi propone il dubbio: Utrum in omnibus Deo sit obediendum? Dice che sì; ma poi, nell'opposizione ad tertium, insegna che l'uomo non è sempre tenuto a volere tutto quel che vuole Iddio, ma solo è tenuto a volerlo quando la divina volontà gli vien manifestata col precetto divino.

Ecco le sue parole: Ad tertium dicendum quod, etsi non semper teneatur homo velle guod Deus vult, semper tamen tenetur velle quod Deus vult eum velle: et hoc homini praecipue innotescit per praeceptum divinum: sicché dice il S. Dottore che l'uomo non sempre è tenuto a volere quel che vuole Dio, ma sempre è tenuto a volere quel che vuole Dio ch'egli voglia. Ma come sapremo noi che Dio voglia quello ch'esso Dio vuole? Lo sapremo, dice S. Tommaso, quando Dio ci manifesta col suo precetto quel che dobbiamo volere: et homini praecipue innotescit per praeceptum divinum.

Dunque, allorché il divino precetto non è manifestato a noi, non siamo tenuti ad eseguire tutto quel che vuole Dio. Insomma,


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tutte queste dottrine di S. Tommaso, e di tutti gli altri Autori addotti di sopra, concludono che, quando la legge non è manifestata, non siamo tenuti ad eseguirla.

 

PARTE SECONDA.

Delle opposizioni particolari che di poi mi fa il Sig. avvocato fiscale sovra la mia Morale, nella sua Rappresentanza

 

In primo luogo mi fa questa opposizione (io adduco le sue stesse parole): Propone (Mgr de' Liguori) la questione se sia lecito di usare di astuzia, così nel parlare come nell'agire, in modo che colui che ascolta e vede sia ingannato. Distingue la questione in due parti: nella prima propone se, per giusta causa, sia permesso nel parlare usare di dolo per ingannare altrui, ed un parlare così doloso confirmare anche con giuramento. E cotesta questione risolve secondo i sentimenti de' Gesuiti all'affirmativa. E volendo definire qual sia la giusta causa che giustifichi la menzogna e lo spergiuro, dice esser qualunque fine onesto per conservar l'utilità del corpo o dello spirito. - E nota il luogo della mia Morale: lib 3, tract. 2, de Praecept. Decal., cap. XI de.iuramento, dub. 4.

Indi, seguitando a parlare dell'equivoco, dice: Nella seconda parte, propone l'altra questione (ma in verità è la stessa) se colui il quale con ambiguo parlare altri inganna, anche sulla fede del giuramento, pecchi mortalmente, e comeché anche tra' Gesuiti avessero sostenuta l'affirmativa, egli francamente si dichiara per la negativa, dicendo non doversi attribuire a colpa mortale l'ingannare il prossimo con falso ed ambiguo parlare (l'equivoco è parlare ambiguo, ma non falso, che prima di sovra avea chiamato usare di astuzia, ed appresso chiama apertamente menzogna) anche senza giusta causa, purché ciò non sia o ne' giudizi, o ne' contratti, imperciocché in questi casi è necessario (dice egli) per esentare da colpa mortale la giusta causa, la quale qual sia, di sovra ne abbiamo veduta la definizione.

Rispondo che quantunque alcuni Gesuiti, come sono Viva, Toledo, Busembaum ed altri, dicano essere peccato mortale


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giurar coll'equivoco e senza giusta causa, nondimeno altri autori, come sono il Cardinal Gaetano1, il Cardinal de Lugo2, e specialmente i Salmaticesi3 con Castropalao, Soto, Valenzia, Prado, Candido ecc., più comunemente dicono che in tal caso non vi è colpa grave; e questa sentenza è paruta a me più verisimile; perché in tal giuramento, fatto non già colla menzogna, ma col senso equivoco che si tiene da chi giura, vi è la verità e la giustizia; vi manca solo il giudizio o sia discrezione; ma questa mancanza (come comunemente dicono gli autori) non costituisce più che peccato veniale; tanto più che allora non s'inganna il prossimo, ma si permette ch'egli s'inganni, per sua incuria in non avvertire l'equivoco che ben potea avvertire.

Ma questa sentenza non corre, quando si tratta di giudizi o di contratti; perché allora è certo colpa grave il giurare coll'equivoco nei giudizi o nei contratti per qualche propria utilità, senza giusta causa; la quale dovrebbe esser gravissima in tali casi.

In secondo luogo, il Signore fiscale passa a parlare della restrizione mentale, e seguendo a parlare di me dice: In sua sentenza, è lecito il rispondere alle interrogazioni del giudice con mentali riserve ed anche usando del giuramento, in modo che colla bocca si dimostri di affermare quello che nel cuore si nega. Così interrogato alcuno se tal cosa abbia fatta, può, quantunque fatta l'abbia, negarlo; purché in mente sua dica non averla fatta in tali circostanze o in tal tempo.

Parlandosi poi, non dell'equivoco, ma della restrizione mentale, io ho scritto [n. 152] che in ciò bisogna distinguere la restrizione pura mentale dalla non pura mentale. La pura mentale è quando il prossimo in niun modo può avvertire l'equivoco, come sarebbe quando alcuno negasse di aver fatta una cosa che veramente ha fatta, intendendo internamente di non


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aver fatta un'altra cosa che non ha fatta. Questa è la restrizione pura mentale, la quale non è mai lecita, né col giuramento né senza giuramento, come fu dichiarato da Innocenzo XI, colla proposizione 26 da lui dannata. La restrizione poi non pura mentale è quando, dalle circostanze, ben può arguire il prossimo che tu parli, intendendo in tua mente un'altra cosa di quel che significa il tuo detto; come sarebbe, se tu sai una cosa sotto stretto sigillo, lecitamente puoi dire che non la sai, intendendo che non la sai per poterla manifestare. Ciò è lecito, ancorché vi giurassi, siccome dicono comunemente i dottori, Domenico Soto1, Adriano2, Gaetano3, Silvestro4, Navarro5 col Card. Gotti.

Di tale dottrina ne abbiamo poi l'esempio in Gesù Cristo, il quale, parlando del giorno del giudizio, disse: De die autem illo vel hora nemo scit, neque Angeli in coelo, neque Filius nisi Pater6. Qui dimandano i teologi come potea dire Gesù Cristo che non sapeva il giorno del giudizio, dicendo S. Paolo che in Gesù vi sono tutti i tesori della sapienza e scienza di Dio: in quo, sunt omnes thesauri sapientiae et scientiae absconditi7. Ciò lo spiegano i S. Padri, che allora Gesù Cristo parlò con un equivoco, cioè che non lo sapeva per manifestarlo a' suoi discepoli, come spiega S. Tommaso, scrivendo: Dicitur nescire diem, quia non facit scire8, cioè disse di non saperlo per manifestarlo agli altri, e come lo spiega più chiaramente S. Agostino, dicendo: Hoc enim nescit, quod nescire facit, idest quod non ita sciebat, ut tunc discipulis indicaret9. E cosi lo spiegano ancora


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S. Girolamo, S. Crisostomo, S. Atanasio, S. Ilario e S. Basilio presso il P. Francesco Suarez1.

Parimente Gesù Cristo disse a' discepoli: Vos ascendite ad diem festum, ego autem non ascendo2. Ma poi scrisse lo stesso S. Giovanni che il Signore ascese al giorno festivo: ut autem ascenderunt fratres ejus, ipse ascendit ad diem festum3.

Spiegano gli espositori l'equivoco, cioè che dicendo non ascendo intendea dire: non ascendo manifeste, poiché quando poi andò al Tempio, vi andò occultamente, siccome dalle circostanze dové interpretarsi Ed ecco due restrizioni non pure mentali, fatte da Gesù Cristo, che secondo il senso proprio delle parole, dette in quel tempo, sembravano menzogne, ma erano detti equivoci. Sicché, quando vi è giusta causa, è lecito rispondere ed anche giurare coll'equivoco, o sia colla restrizione non pura mentale, come scrivono comunemente i dottori, notati di sovra; perché allora non si offende la verità.

In terzo luogo, il Signor fiscale, parlando di quel che io scrivo nella mia Morale alla pag. 119, num. 154, dice di me: Ora parla del testimonio e dice la sentenza che: testis, a judice non legitime interrogatus, potest jurare se nescire crimen quod revera scit, subintelligendo nescire crimen, de quo non legitime possit inquiri, vel nescire ad deponendum. E volendo definire il caso, quando non legittimamente interroghi il giudice, dice esser, quando si vuole inquirere di delitto non manifesto.

Ma qui soggiungo io che bisognava distinguere il delitto non manifesto dal delitto occulto; perché, quando è occulto (come vedremo appresso), il testimonio non è tenuto a deponere quel che sa; ma quando il delitto non è manifesto, allora in più casi può essere obbligato a deponere quel che sa. - In questo luogo poi il Signor fiscale entra ad un'altra questione diversa, se il testimonio pecca, palesando al giudice il delitto occulto di un altro.


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Ma per andare con distinzione, mi bisogna prima rispondere alla prima questione, e poi all'altra.

In quanto al dubbio: quali sieno i casi ne' quali il giudice non interroga legittimamente, onde il testimonio non sia tenuto allora a deporre quel che sa, in ciò a me basta dire quel che insegna S. Tommaso, il quale scrive così: Non est dubium, quin teneatur testimonium ferre in his, in quibus, secundum ordinem juris, testimonium ab eo exigitur, puta in manifestis, et in his de quibus infamia praecessit. Si autem exigitur ab eo testimonium in aliis, puta in occultis et de quibus infamia non praecessit, non tenetur ad testificandum1.

Sicché dice il Santo Dottore che il testimonio non è tenuto palesare al giudice quel che sa, quando non è dal giudice interrogato secondo l'ordine della legge, come avviene quando è interrogato di delitti occulti, o pure di quelli de' quali non vi è preceduta infamia. Ed in ciò il S. Dottore è seguitato comunemente da tutti gli altri, come dal Cardinal Gaetano2, da Sporer3, da Azorio4, da Roncaglia5, da Sanchez6, dai Salmaticesi7.

Parlando poi il Signor fiscale della seconda questione, se il testimonio pecca, palesando al giudice un delitto altrui occulto, egli riprova quel che da me sta scritto in questi termini: Si crimen fuerit occultum, tunc enim potest, imo tenetur testis dicere reum non commisisse, quia tunc judex non legitime interrogat.

Il Signor fiscale ributta la mia risposta che "testis tunc tenetur (si crimen fuerit omnino occultum) dicere reum non commisisse, come dicono Cardenas, Tamburino e Potestà, colle quali parole vogliono, in somma, concludere che allora il testimonio è tenuto a nascondere il delitto del reo; e questa dottrina a me


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pare che sia vera e sana; poiché quando il delitto è affatto occulto, siccome pecca ognuno che, senza necessità, fa pubblico un delitto occulto del prossimo, tanto più pecca chi lo propala in giudizio, per causa del danno che apporta al prossimo col suo testimonio, stante che allora (come si è chiarito di sovra) il giudice illegittimamente interroga, e non essendo il testimonio tenuto in tal caso a palesare la verità, fa peccato se, potendo tacerla, la manifesta.

Di più mi oppone il Signor fiscale e dice: Ma ciò non basta. (Monsignor de' Liguori) passa alla seconda questione, se il testimonio che, col suo giuramento inganni il giudice, possa assolversi dal peccato mortale; ed ecco come lo risolve: Tali juramento, quod perjurium nequit dici; testis non peccavit contra justitiam commutativam, sed contra legalem et obedientiam judici debitam, cujus praeceptum transiens est, duratque solum dum judex interrogat."

Per rispondere a proposito, bisogna ch'io metta in chiaro quale sia la questione, acciocché meglio poi s'intenda la risposta. La questione si è, se il testimonio, o sia anche il reo, che ha nascosta la verità parlando equivocamente, sia obbligato indi a palesarla sotto colpa grave? - Alcuni autori dicono essere obbligato; ma io dico con Filiarco1, con Sanchez2 e specialmente co' Salmaticesi3, che fortemente tengono per assolutamente più vera questa sentenza, che in tal caso né il testimonio, né il reo è tenuto a manifestar la verità. E la ragione pare ben forte, perché tal giuramento non può dirsi vero e stretto spergiuro, essendo fatto non sovra la bugia, ma sovra l'equivoco, col quale, sebbene quando quegli ha giurato abbia peccato gravemente, nondimeno non ha peccato contra la giustizia commutativa, ma solo contra la legale, per l'ubbidienza dovuta al giudice; e perché il precetto del giudice non è permanente, ma dura ed ha vigore solo per quel tempo in cui il giudice interroga, perciò, essendo passato quel tempo,


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praeceptum judicis non amplius urget. Si avverta non però che, se il testimonio o reo, con tale equivoco colpevole, ha fatto danno alla parte, è tenuto a rifare il danno; poiché in tal caso, a rispetto del giudice pecca solo contra la giustizia legale, ma a rispetto della parte pecca contra la commutativa, per lo danno che le reca colla sua equivocazione. Onde sempre è tenuto in coscienza a rifare il danno.

Riprova in ultimo luogo due altre mie opinioni, che chiama corollari de' principi da me stabiliti, e dice: Così s'insegna, esser lecito col giuramento qualunque falsità asseverare, purché chi giura con voce sommessa, da non essere però inteso, proferisca il vero. Così si definisce che possa mentirsi avanti a' giudici, quando da costoro l'ordine de' giudizi non si serba.

Rispondo: quello ch'io scrivo, lib. 3, de praecepto, n. I 68, è questo: Quaeritur 80, an liceat jurare aliquid falsum, addendo tamen, submissa voce, circumstantiam veram? Affirmat Hurtado et Prado cum aliis, quia dicunt quod, ut locutio sit vera, sufficit ut exterius concordet conceptui mentis, sive nutibus, sive voce submissa explicetur, et per accidens est ut alter non audiat. Ma dopo queste parole, io soggiungo: At melius Salmanticenses (cap. 2, n. 138) id admittunt, si tamen aliquo modo possit ab altero percipi illa submissa prolatio, licet ejus sensus non percipiatur; secus, si omnino alterum lateat.

Dunque non si approva la sentenza, quando si proferisce il vero da chi giura con voce sommessa da non essere però inteso, sicché si proferisce la verità in modo che omnino alterum lateat; ma si ammette co' Salmaticesi nel solo caso, come sta scritto: si tamen aliquo modo possit ab altero percipi illa submissa prolatio, licet ejus sensus non percipiatur.

Si oppone di più dal Sig. fiscale in questo medesimo luogo: "Cosi si definisce che possa mentirsi avanti a' giudici, quando da costoro l'ordine de' giudizi non si serba." - Ma a questo punto già di sovra con S. Tommaso sta risposto che, quando non si serba l'ordine de' giudizi, in modo che il giudice non interroga legittimamente, o perché il delitto è occulto, o per


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ché non vi è preceduta l'infamia, o sieno indici evidenti, come giustamente dicono altri, allora dice l'Angelico, con tutti i dottori, che il testimonio non è tenuto a rispondere. Onde in tal caso non è tenuto a palesar la verità con voce intelligibile, ma può nasconderla lecitamente; ma si debbono eccettuare i casi, se si tratta di danno comune o di eresia.

L'ultima opposizione che fa il Signor fiscale contra di me è questa proposizione, la quale non è mia, ma fu del P. Busembaum, inserita nel mio libro al num. 170, vers. 5. La proposizione dice così: Qui exterius tantum juravit sine animo jurandi, non obligatur, nisi forte ratione scandali; cum non juraverit, non obligatur, nisi forte ratione scandali; cum non juraverit, sed luserit. In foro tamen externo potest cogi ut servet, e cita altri autori.

Qui io dico che, sebbene chi giura senza animo di giurare, senza dubbio pecca, come dichiarò Innocenzo XI nella proposizione 25 da lui dannata, nondimeno rifletto che chi giura senz'animo di giurare, con ragione dice però Busembaum non esser tenuto ad osservar la promessa; perché il giuramento, fatto senz'animo di giurare, come dicono più probabilmente i Salmaticesi con altri autori più comunemente1 non è vero giuramento, perché vi manca la condizione necessaria alla natura della promessa, cioè l'animo di promettere; e perciò, essendo nulla la promessa, è nullo ancora il giuramento, che siegue la natura della promessa. Una cosa in verità mancò di notare Busembaum, nella sua proposizione, cioè che, quantunque chi giura senz'animo di giurare non è tenuto ad osservare la promessa, nondimeno sempre è tenuto, ne' contratti, a rifare il danno alla parte; ma questa obbligazione io già espressamente l'ho notata appresso al num. 172, in fine della mia aggiunta ivi fatta:Quaeritur, dove con altri autori ho scritto così: Recte vero excipiunt, si juramentum fiat in contractibus vel coram judice; quia tunc, licet non sit perjurium, est tamen gravis deceptio contra justitiam.


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In somma a me pare, per quanta diligenza vi ho fatta, io non trovo nella mia Morale di avere approvata alcuna dottrina malvagia, né contra la Morale di Gesù Cristo, né contra il bene pubblico, né contra la salute del Principe, come parla il Sig. fiscale; e su questo punto io ho difeso fortemente nelle mie opere Morali (Homo Apostol., Tract. 8 de V praecept., cap. 2, n. 12. et seq.) non esser mai lecito offendere le persone de' regnanti, non solo quando pacificamente possedono i regni, ma anche quando tirannicamente li governano (contro il sentimento di altri); poiché dice S. Pietro1 che debbono rispettarsi i principi, ancorché fossero discoli, né mai può spettare a' sudditi il giudicare se il re possiede giustamente o ingiustamente il suo stato.

In quanto poi al probabilismo e dottrine larghe de' Gesuiti, come dice il Sig. fiscale, io di sovra ben ho fatto vedere il contrario. Chi osserva la mia Morale ben vede che mi sono attenuto alle opinioni più probabili, e perciò da alcuni io sono stato passato per rigorista, come nelle sentenze da me tenute del clerico abituato in qualche peccato grave, che non può essere assoluto, se non dimostra un abito speciale di virtù.(Manca il resto.)

Conforme all'originale che si conserva nel nostro archivio generalizio di Roma.

 




1 Questa difesa, o risposta che sia, da principio fu compresa dal Santo in un'altra più ampia e generale, diretta a sfatare tutte le false imputazioni, mosse ad oltranza dal barone Niccolò Sarnelli contro la Congregazione nella tanto famosa causa di cui più volte si tratta nella prima Parte di questa Corrispondenza. Ma accortosi poscia il Santo che delle accuse contro la sua Morale, quale gesuitica, si faceva l'arma più forte e sicura bastando a que' tristissimi giorni il solo nome dei Gesuiti, benché soppressi, a provocare ogni più ingiusta e grave condanna, stimò meglio di separare dalle altre la questione della dottrina, trattarla con impegno maggiore e porla così distintamente che venisse tosto riconosciuta e più facilmente compresa: il che fece appunto nella difesa o risposta presente.

Trattò quindi in altra, pur separata, tutte le altre accuse estranee alla dottrina; di modo che (giova l'osservi il lettore) il Santo, a un'età così grave di oltre ottant'anni, compieva tre lavori dello studio e del valore, che si ammirano nella Difesa che qui sola presentiamo; non essendo il luogo degli altri due, che pur gelosamente conserviamo. Se costassero fatica al Santo, così invecchiato, è facile giudicarne! Egli stesso così ne scrive allora al P. de Paola, lett. 856, vol. II pag 428: "Io ancora ho avuto da fare uno scritto per la causa, di più fogli. Miracolo come non venuta una goccia!"



1 Di cui nella nota alla lett. 263, p. 430, e nella lett. 308, p. 490.



1 I. 2., qu. 90, art. I.



2 Ibid. art. IV.



3 Gerson, De vita spirit. etc., lect. 2.

1 Gotti Theol., to. 2, tract. 5, de leg, qu. I, dub. 3, 3, n. 18.



2 Gonet Clyp., to. 3, tract 3.



3 Soto De just. et jure, lib. I, qu. I, a. 4.



4 Patutius Theol. mor., de legib., cap. I, n. 7.



5 Silv. I. 2., qu. 90, a. 4, in fine.



6 S. Thom., I. 2., qu. 19, a. 4, ad 3.

1 Collet, Theol. mor., to. I. de legib., cap. I, a. 2., concl 2



2 S. Thom., Opusc. de verit., qu. 17, a. 3.

1 S. Thom., I. 2., qu. 19, a. 10, ad Ium.



2 Gonet, Clyp., to. 3, tract. 3, disp. 6, a. 2, n. 37 in fine.



3 S. Thom., 2. 2, qu. 104, a. 4, ad 3.

1 Cajet, in 2. 2., qu. 89, a. 7, ad 4, dub. 2.



2 De Lugo, De Fide, V. 4, n. 64



3 Salm., Tract. 17, De Iuram., cap. 2., n. 108.

1 Soto, De Iustit. et Iure, lib 5, qu. 6, a. 2.



2 Adrian., 4 sent., qu. de sig confess.



3 Cajet., Opusc. 16, Resp. qu. 5.



4 Silv., verb. Mendac. "qu. 6, 4, et verb. Iuram., qu. 2, Licet.



5 Navar., Man., cap. 12, ex n. 8, et cap. 18, n. 61, et cap. 25, n. 94



6 Marc 13, 32.



7 Ad Col,., cap. 2.,3.



8 Thom., 3. P., qu. 10, a. 2, ad Ium



9 S. Aug, lib. I, de Trinit., cap. 12, n. 23.

1 Suarez, in 3 Part. S. Thom., qu. 10, ad 2um in fine.



2 Joan. 7. 8.



3 Ibid. v. 10.

1 S. Thom., 2. 2., qu. 70, a. I.



2 Cajet., Opusc. to I, tract. 31, Resp. 5.



3 Sporer, De 2 praecept., cap. I, n. 120 et 121.



4 Azor., To I, lib. II, cap. 4.



5 Ronc., de eodem tit., c. 4, qu. 2, Resp. 3.



6 Sanchez, Decal., lib. 3, cap. 6, n. 23 et 26, cum Navarro, Toledo et aliis.



7 Salm., Tract. 29 de offic., cap. 3. de testib., n. 56 et seq.

1 Philiarc. De Offic. sacerd., to. I, P. 2, lib. 4, cap. 25.



2 Sanchez, De Decal., lib. 3, cap. 7, num. 8.



3 Salm., Tract. 17 de Iuram., to. III, cap. 2, punct. 8, 6. num. 147.



1 Salmant., Tract. 17 de 2 praec., cap. I, num. 19.

1 I Petr. 2. 18.




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