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S. Alfonso Maria de Liguori
Nove discorsi...flagelli

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DISCORSO VII.

Dio ci castiga in questa vita, per usarci misericordia nell'altra.

Ego quos amo, arguo et castigo. (Apoc. 3. 19.)

 

Allorché il Signore mandò quella gran tempesta, onde stava in gran pericolo di sommergersi la nave dov'era Giona, in castigo del suo peccato di aver trasgredito il divino precetto di andare a predicare a Ninive, tutti stavano vigilanti e in gran timore

 


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e ciascuno pregava il suo Dio; ma Giona stava dentro la nave e dormiva: Dormiebat sopore gravi1. Ma conoscendosi poi che esso era la causa della tempesta, fu gittato in mare e fu ingoiato dalla balena. Quando Giona si vide dentro quel pesce in pericolo così vicino di morire, allora si pose a pregar Dio, e Dio lo liberò: Clamavi de tribulatione mea ad Dominum et exaudivit me2. Ecco dunque, dice s. Zenone, che Giona Vigilat in ceto, qui stertebat in mari. Egli nella nave se ne stava a dormire nel suo peccato, ma quando si vide poi castigato e vicino alla morte, allora aprì gli occhi, e si ricordò di Dio; indi ricorse alla sua misericordia, e Dio lo liberò facendo che il pesce lo vomitasse sano e salvo al lido. Molti quando non vedono i castighi divini dormono ne' peccati e vivono scordati da Dio; ma il Signore, perché non vuol vederli perduti, manda loro i flagelli, acciocché si sveglino da quel letargo di morte e ricorrano a lui, e così egli possa poi liberarli dalla morte eterna. Ecco dunque l'assunto del presente discorso: Dio ci castiga in questa vita per usarci misericordia nell'altra.

 

Noi non siamo creati per questa terra; siamo creati per il regno beato del paradiso. A questo fine, dice s. Agostino, ci fa provare il Signore tante amarezze anche in mezzo alle delizie del mondo, acciocché non ci scordiamo di lui e della vita eterna: Si cessaret Deus, et non misceret amaritudines felicitatibus saeculi, oblivisceremur eius. Se col vivere noi in mezzo a tante spine della presente vita pure ci stiamo così attaccati e poco desideriamo il paradiso; or quanto men conto ne facemmo se Dio non ci amareggiasse continuamente i piaceri di questa terra? E se abbiamo offeso Dio, abbiamo da essere castigati o in questa o nell'altra vita. Dice s. Ambrogio che Dio ci usa misericordia così quando ci castiga: Quam pius, quam clemens Deus in utroque, cum miseretur aut vindicat3! I castighi di Dio sono effetti del suo amore; son pene sì, ma pene che ci liberano dalle pene eterne e ci conducono alla eterna felicità. Dum iudicamur, scrisse l'apostolo, a Domino corripimur, ut non cum hoc mundo damnemur4. E questo ancora avvertiva Giuditta agli ebrei, allorché si vedeano afflitti dai flagelli del Signore: Flagella Domini quibus corripimur, ad emendationem, non ad perditionem nostram evenisse credamus5. Lo stesso diceva Tobia: Omnis qui te colit... si in correptione fuerit, ad misericordiam tuam venire licebit; non enim delectaris in perditionibus nostris6. Signore, dicea, voi castigate acciocché possiate usarci misericordia nell'altra vita, mentre voi non volete che ci perdiamo.

 

E Dio stesso ci fa sapere che egli in questa vita tutti coloro che ama li castiga per vederli emendati: Ego quos amo arguo et castigo7. Ubi amor est, dice s. Basilio di Seleucia, severitas solet esse pignus gratiarum. Chi usa rigore con una persona amata, segno che vuol giovarle. Miseri peccatori, che seguendo a vivere in peccato si vedono in questa terra prosperati! È segno che il Signore si riserva a castigarli nell'eternità: Exacerbavit Dominum peccator,

 


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secundum multitudinem irae suae non quaeret1. Ecco il maggior castigo, dice s. Agostino nel luogo citato: Non quaeret, multum irascitur dum non requirit; mentre non cerca conto de' peccati e non punisce, è segno che sta molto sdegnato. Io ti chiamo, e tu fai il sordo alle mie voci? Figlio, dice Dio, emendati, altrimenti farai che si confermi sopra di te il mio sdegno, sicché non avrò più zelo della tua salute e ti lascerò vivere ne' tuoi peccati senza punirti in questo mondo, ma per punirti poi nell'altro: Et requiescet indignatio mea in te; et auferetur zelus meus a te; et quiescam nec irascar amplius2 Non far dunque più il sordo alle voci di Dio, ti avverte l'apostolo, fratello mio; altrimenti in pena della tua ostinazione nel giorno del giudizio riceverai un gran castigo, e questo castigo sarà castigo eterno che non avrà più fine: Secundum autem duritiem tuam et impoenitens cor thesaurizas tibi iram in die irae et revelationis iusti iudicii Dei qui reddet unicuique secundum opera eius3.

 

Sicché non vi può esser maggior castigo, dice s. Girolamo, per un peccatore che il non esser castigato in questa vita, mentre pecca: Magna ira, quando peccantibus non irascitur Deus. E s. Isidoro Pelusiota dice che non debbono compatirsi i peccatori puniti, ma quelli che muoiono senza essere stati puniti in questa terra: Delinquentes, et in hac vita castigati deplorandi non sunt, sed qui impuniti abeunt4. Non è tanto il male, siegue a dire il santo, di stare infermo, quanto nell'infermità non avere medicina che lo guarisca: Non tam molestum aegrotare, quam morbo medelam non afferri. Quando Dio non castiga in questa vita il peccatore, dice s. Agostino in altro luogo, allora castiga con più rigore; onde conclude che non vi è maggior infelicità, che vedere un peccatore felice senza castigo: Si impunita dimittit (Deus), tunc punit infestius; quoniam nihil est infelicius felicitate peccantium5. L'Inghilterra quando si ribellò dalla chiesa non ricevette flagelli temporali, ma da quel tempo forse abbondò nelle ricchezze: e questo fu il maggior castigo, l'essere lasciata perire nella sua felicità. Nihil infelicius felicitate peccantium. Nulla poena, magna poena, dice lo stesso santo dottore6. Il non ricevere castigo per i peccati in questa vita è un gran castigo. E maggior castigo è poi l'essere prosperato nella mala vita.

 

Dimanda Giobbe: Quare ergo impii vivunt, sublevati sunt confortatique divitiis7? Signore, come va che i peccatori, in vece di essere tolti dal mondo, umiliati e tribolati, godono sanità, onori, ricchezze? Risponde il santo Giobbe: Ducunt in bonis dies suos, et in puncto ad inferna descendunt8. Miseri, godono per pochi giorni quei loro beni, e poi quando giunge il punto del loro castigo, e quando meno sel pensano, sono mandati ad ardere in eterno in quel luogo di tormenti. La stessa domanda fa Geremia: Quare via impiorum prosperatur? E poi soggiunge: Congrega eos quasi gregem ad victimam9. Gli animali destinati a' sacrificj si levano dalla fatica, e metteansi ad ingrassare per poi sacrificarli. Così fa Dio cogli ostinati, gli abbandona, lascia

 


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che s'ingrassino nei piaceri di questa terra, per essere poi sacrificati nell'altra vita alla divina giustizia. Hi enim ut victimae ad supplicium saginantur, dice Minuzio Felice1. Non saranno i miseri, disse Davide, flagellati in questa vita, si goderanno i brevi loro diletti, ma presto finirà il loro sogno: Cum hominibus non flagellabuntur2. Verumtamen quomodo subito defecerunt velut somnium surgentium3. Qual pena sente un misero infermo che si sogna d'essere ricco o d'essere fatto grande, e poi si sveglia e si ritrova misero ed infermo qual era? Quemadmodum fumus deficient4. La felicità de' peccatori svanisce presto, come svanisce il fumo ad ogni poco di vento. Fumus, commenta s. Gregorio il detto passo, ascendendo deficit. Siccome il fumo col salire in alto sparisce, così avviene al peccatore: Vidi impium superexaltatum, et transivi et ecce non erat5. Disse Minuzio Felice6 che i peccatori Miseri altius tolluntur, ut decidant profundius. Il Signore permette talvolta che qualche peccatore sia più sollevato per suo maggior castigo, acciocché sia più grave poi la sua caduta, secondo quel che dice Davide: Deiecisti eos, dum allevarentur7.

 

Se l'infermo, dice il Grisostomo, per ordine del medico patisce fame o sete, è segno che vi è speranza per lui di salute; ma se il medico gli lascia mangiare quel che vuole e bere quanto vuole, che segno è questo? È segno che il medico l'ha abbandonato. E così parimente, dice s. Gregorio: Manifestum perditionis indicium, quando nulla contrarietas impedit quod mens perversa concepit. Quando Dio permette al peccatore che arrivi a' suoi malvagi disegni, è segno evidente della sua dannazione: Prosperitas stultorum perdet illos8. Siccome il lampo è segno del fulmine, dice s. Bernardo, così la prosperità è indizio della dannazione eterna: Sicut fulgur tonitrum portat, ita prosperitas supplicia sempiterna9. Il maggior castigo di Dio è quando egli permette che il peccatore segua a dormire in peccato, senza avvedersi di quel sonno di morte in cui sta immerso: Inebriabo, ut sopiantur et dormiant somnum sempiternum, non consurgant; dicit Dominus10. Caino temea dopo il suo delitto della morte data ad Abele, di essere ucciso da ciascuno che lo trovasse: Omnis qui invenerit me occidet me11. Ma il Signore l'assicurò che sarebbe vivuto e niuno gli avrebbe tolta la vita; ma dice s. Ambrogio che questo fu il maggior castigo di Caino, l'essergli concessa una lunga vita: Longaeva vita vindicta est; favor enim impiorum est, si subito moriantur12. Dice il santo che Dio usa pietà al peccatore ostinato, quando lo fa morire subito, perché lo libera da tanti inferni, quanti poi si meriterebbe col seguire a peccare e col dannarsi alla fine.

 

Vivano dunque i peccatori come vogliono, si godano in pace i loro piaceri, verrà finalmente la loro morte, in cui resteranno presi dal peccato come il pesce dall'amo: Sicut pisces capiuntur hamo, sic homines in tempore malo13. Onde dice s. Agostino: Noli gaudere ad piscem qui adhuc in esca exultat, nondum traxit hamum piscator. Se vedessi, cristiano mio, un reo che si deliziasse in un

 


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banchetto, ma egli fosse già condannato a morte e stesse già col capestro alla gola, in punto di uscire da ora in ora l'ordine che si eseguisca la giustizia: che dici? l'invidieresti tu, oppure lo compatiresti? E così, dice il santo, non invidiare quel misero che gode nei suoi vizj: Nondum traxit hamum piscator. È preso già dall'amo, è già nella rete dell'inferno quel peccatore; quando giungerà il tempo destinato al castigo, allora il misero conoscerà e piangerà la sua ruina, ma senza rimedio.

 

All'incontro è buon segno quando un peccatore si vede tribolato e castigato in questa vita; è segno che Dio ancora gli vuol bene e gli vuol cambiare il castigo eterno con qualche castigo temporale. Castigandoci il Signore in questa terra, dice s. Gio. Grisostomo, non lo fa per consumarci, ma per tirarci a sé: Cum irascitur non odio hoc facit, sed ut ad se attrahat quos non vult perire. Ti castiga per poco tempo, per tenerti con sé in eterno: Adversatur ad tempus, ut te secum habeat in aeternum.1 Quando il medico ferisce l'infermo, parla s. Agostino, sembra crudele; ma il medico ferisce per sanare: Medici percutiunt et sanant. Lo stesso fa Dio con noi, dice il santo: Saevire videtur Deus; ne metuas, pater est, nunquam enim saevit ut perdat. Ma ciò dice lo stesso Dio: Ego quos amo arguo et castigo; aemulare ergo, et poenitentiam age2. Figlio, dice Dio, io ti amo e perciò ti castigo; aemulare, vedi come io sono buono con te, procura tu ancora di cominciare ad essere buono con me, fa penitenza dei tuoi peccati, se vuoi che ti perdoni la pena che meriti; almeno accetta con pazienza e con tuo profitto la tribolazione che ti mando. Ecce sto ad ostium et pulso. Vedi che questa croce che ora ti affligge è la mia voce con cui ti chiamo, acciocché torni a me, e sfuggi l'inferno che ti tocca. Sto ad ostium et pulso, io sto battendo alla porta del tuo cuore, aprimi dunque, e sappi che quando il peccatore che da sé mi ha discacciato mi aprirà la porta del suo cuore con cercarmi, io subito vi entrerò, e mi resterò a fargli per sempre compagnia: Si quis aperuerit mihi ianuam, intrabo ad illum, et coenabo cum illo, et ipse mecum3. Starò dunque sempre seco unito in questa terra, e poi se mi sarà fedele io lo farò sedere meco in trono nel mio regno eterno: Qui vicerit, dabo ei sedere mecum in throno meo4.

 

E che? Forse Dio è qualche tiranno, di genio crudele che si diletti del nostro patire? Egli se ne compiace sì, ma se ne compiace appunto come fa in padre nel castigare il figlio, dilettandosi non già della pena del figlio, ma della correzione che spera del castigo: Disciplinam Domini, fili mi, ne abiicias; nec deficias, cum ab eo corriperis5. Figlio mio, dice il profeta, non rifiutare la correzione né ti perdere d'animo vedendoti castigato dal Signore: Quem enim diligit Dominus corripit, et quasi pater in filio complacet sibi6. Sappi che egli ti corregge e ti castiga perché ti ama. Non è che voglia vederti afflitto, ma emendato; e si compiace della tua pena per tuo bene, appunto come un padre che castigando il figlio, non già si compiace della di lui afflizione, ma della

 


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di lui emenda per vederlo libero dalla sua ruina: Poenae nos ad Dominum perducunt, dice il Grisostomo. I flagelli temporali ci fanno ritornare a Dio, ed a questo fine Dio ce li manda, per non vederci più da esso separati.

 

Perché dunque, fratello mio, quando ti vedi tribolato ti lamenti di Dio? Tu dovresti ringraziarlo colla faccia per terra. Dimmi, se un reo di morte fosse stato già condannato alla forca, e il principe gli mutasse la pena della morte in dovere stare per un'ora solamente carcerato, se questi poi si lagnasse di quell'ora di carcere, avrebbe ragione di lagnarsi? O più presto non avrebbe ragione il principe di mutare di nuovo la sentenza, e mandarlo alla forca che meritava? Tu hai meritato da tanto tempo e tante volte l'inferno per i tuoi peccati. Inferno! E sai che viene a dire inferno? Sappi che è maggior pena il patir un momento nell'inferno, che il patire per cento e mille anni tutti i tormenti più terribili che hanno sofferti i martiri su questa terra; ed in questo inferno avresti avuto da penare per tutta l'eternità. E tu poi ti lamenti che Dio ti manda quella tribolazione, quell'infermità, quella persecuzione, quella perdita? Ringrazia Iddio, e di': Signore, è poco per i peccati miei, io dovrei stare nell'inferno ed ardere disperato ed abbandonato da tutti; vi ringrazio che mi chiamate a voi con questa tribolazione che mi avete mandata. Iddio, dice l'Oleastro, spesso chiama i peccatori a ravvedersi colle pene temporali: Poena est modus loquendi Dei, quo culpam ostendit. Colle pene di questa terra ci fa vedere il Signore la pena immensa che meritano i nostri peccati, e perciò ne affligge con queste pene temporali, affinché ci emendiamo e così fuggiamo le pene eterne.

 

Povero dunque, come abbiamo considerato, quel peccatore che non si vede in questa vita castigato! Ma più povero, se vedendosi castigato, neppure si emenda: Non est grave, diceva s. Basilio, plaga affici, sed plaga non meliorem effici. Non è disgrazia l'essere tribolato da Dio in questa terra dopo i peccati commessi; ma la disgrazia è di non emendarsi dopo il castigo, col rendersi simili a coloro di cui parla Davide, che anche vedendosi castigati seguitano a dormire nel peccato: Ab increpatione tua dormitaverunt1. Come se lo strepito de' flagelli e de' fulmini mandati da Dio più presto che svegliarli da quel letargo di morte in cui vivono perduti servisse loro per riconciliare il sonno: Percussi vos, et non redistis ad me2. Io vi ho mandato il flagello, dice Dio, acciocché ritorniate a me, e voi ingrati fate i sordi alle mie chiamate? Misero quel peccatore che si fa simile a colui del quale parla Giobbe: Mittet contra eum fulmina... cor eius indurabitur tamquam lapis et stringetur quasi malleatoris incus3. Dio lo visita coi flagelli, ed egli in vece di ammollirsi e ricorrere a lui pentito, stringetur quasi malleatoris incus, maggiormente s'indurisce, come più s'indurisce l'incudine ai colpi dei martelli; e si rende simile all'empio Acaz, del quale dice la scrittura: Tempore angustiae suae auxit contemptum in Dominum4. Invece l'infelice di umiliarsi accrebbe la superbia e il disprezzo di Dio.


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A questi miserabili temerarj sapete che avviene? Avviene che cominciano a patire l'inferno sino da questa vita: Pluet super peccatores laqueos; ignis et sulphur et spiritus procellarum pars calicis eorum1. Il Signore farà piovere sopra di loro i castighi, le infermità, le miserie, le amarezze; ma queste non saranno il tutto, saranno una parte del loro calice, cioè del castigo che meritano: Partem calicis dixit, commenta s. Gregorio, quia eorum passio hic incipit, sed aeterna ultione consummatur. Dice il santo che quel castigo si chiama porzione del calice, perché la loro pena comincia in questa vita e poi si compirà colla vendetta eterna. Così merita chi flagellato da Dio affinché si emendi, seguita a fare opere degne di flagelli, e da eccitare maggiormente a sdegno il Signore: In flagellis positum, s. Agostino, flagellis digna committere, est saevientem acrius ad iracundiam concitare. Che più ho da fare io, dirà allora il Signore, per vedervi emendati, o peccatori? Io vi ho chiamati con prediche e con ispirazioni interne, e voi le avete disprezzate. Vi ho chiamati coi benefizj, e voi vi siete fatti più insolenti. Vi ho chiamati poi coi flagelli, e voi seguite ad offendermi: Super quo percutiam vos ultra, addentes praevaricationem? Et derelinquetur filia Sion, sicut civitas quae vastatur2. Neppure co' miei castighi volete emendarvi? Volete che proprio io vi abbandoni? Ma sarò finalmente obbligato ad abbandonarvi.

 

Uditori miei, non ci abusiamo più della misericordia che ci usa Iddio. Non facciamo come i rospi che più si stizzano e s'imperversano contro chi li percuote. Dio ci tribola perché ci ama e vuol vederci ravveduti: Optima consideratio, dice l'Oleastro, cum senseris poenam, culpae meminisse3. Quando ci vediamo flagellati bisogna ricordarci de' nostri peccati e dire come diceano i fratelli di Giuseppe: Merito haec patimur, quia peccavimus in fratrem nostrum4. Signore, con ragione ci castigate, perché abbiamo offeso voi nostro Padre e Dio: Iustus es, Domine, et rectum iudicium tuum5. Omnia ergo quae fecisti nobis, in vero iudicio fecisti6. Signore, voi siete giusto, e giustamente ci punite. Noi accettiamo questa tribolazione che ci mandate; dateci voi la forza di soffrirla con pazienza. E qui bisogna avvertire ciò che una volta il Signore disse ad una religiosa: Tu hai peccato, tu hai da fare la penitenza, tu hai da pregare7. Alcuni peccatori si quietano col raccomandarsi ai servi di Dio: bisogna ancora ch'essi preghino e facciano penitenza. Facciamo così, perché quando poi vedrà il Signore la nostra rassegnazione non solo ci perdonerà i peccati, ma anche il castigo. E se Dio seguirà ad affliggerci, ricorriamo allora a quella Signora che si chiama la consolatrice degli afflitti. Ci compatiscono i santi, ma non si trova fra tutti i santi, dice s. Antonino, chi più ci compatisca nelle nostre miserie, quanto questa divina madre Maria: Non reperitur aliquis sanctorum ita compati in infirmitatibus, sicut mulier haec b. Virgo Maria. E Riccardo di san Lorenzo aggiunge che questa madre di misericordia non può veder miserabili che patiscono e non

 


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soccorrerli: Non potest miserias scire et non subvenire (Atto di dolore).

 




1 Ion. 1. 5.

 



2 Iona 2. 3.

 



3 L. 6. in Luc.

 



4 1. Cor. 11. 32.

 



5 Iudith. 8. 27.

 



6 Tob. 3. 21.

 



7 Apoc. 3. 19.

1 Psal. 10. 4.

 



2 Ez. 16. 42.

 



3 Rom. 2. 5. 6.

 



4 L. 5. epist. 269.

 



5 Epist. 5. ad Marcell.

 



6 Serm. 37. de Verb. Dom.

 



7 Iob. 21. 7.

 



8 Ibid. 13.

 



9 Ierem. 12. 3.

1 In suo Octavio.

 



2 Ps. 72. 5.

 



3 Ib. 18. 19.

 



4 Psal. 36. 20.

 



5 Ps. 36. 35.

 



6 Loc. cit.

 



7 Ps. 72. 18.

 



8 Prov. 1. 32.

 



9 Ser. in Fer. 5. Dom. 2. Quadrag.

 



10 Ierem. 51. 39.

 



11 Gen. 4. 14.

 



12 L. 2. de Abel. c. 9.

 



13 Eccl. 9. 12.

1 In Matth. c. 4. Hom. 14.

 



2 Apoc. 3. 19.

 



3 Apoc. 3. 20.

 



4 Ib. 21.

 



5 Prov. 3. 11.

 



6 Ibid. 3. 12.

1 Psal. 75. 7.

 



2 Amos 4. 9.

 



3 Iob. 41. 14.

 



4 2. Paral. 28. 22.

1 Psal. 10. 7.

 



2 Isa. 1. 5. et 8.

 



3 In Gen. 42.

 



4 Gen. 42. 21.

 



5 Psal. 118. 137.

 



6 Dan. 3. 31.

 



7 Disingan. de Teres. Parola 3. §. 6.




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