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S. Alfonso Maria de Liguori
Opera dogmatica...eretici pretesi riformati

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SESSIONE IV. Della scrittura e delle tradizioni.

§ 1. Dell'approvazione de' sacri libri e delle tradizioni.

Avverta il mio lettore che qui non si pongono le sessioni del concilio secondo il lor ordine consecutivo dalla prima sino alla vigesima quinta, come seguirono; perché in molte sessioni non si decise alcuna cosa particolare ed in altre non si parlò de' dogmi; ed all'incontro il mio intento, siccome ho detto nella prefazione, è di parlar solamente de' punti di fede che contra gli eretici si stabilirono nel concilio; e perciò cominciamo dalla sessione quarta sulle divine scritture, perché da questa si cominciarono ad esaminare gli articoli dogmatici contrastati da' novatori.

1. La chiesa non definisce alcun dogma di fede, se quello non è fondato o sovra la sacra scrittura o sovra la tradizione. Perciò il primo pensiero del concilio fu di stabilire quali fossero le vere scritture canoniche e quali le vere tradizioni apostoliche, spettanti così alla fede come ai costumi. Quindi si ordinò dal concilio che da' teologi si facesse un'esatta discussione così sopra le scritture come sopra le tradizioni, non già pubblica da mettersi negli atti, ma privata, a fine di poterne poi render ragione a' padri. Pertanto, nelle congregazioni precedenti al decreto che poi si formò, in quanto alle divine scritture furono proposti tre dubbi. Il primo, se doveano approvarsi tutti i sacri libri così del nuovo come del vecchio testamento. Il secondo, se i libri che abbiamo della bibbia si dovessero tutti mettere di nuovo ad esame per approvarli. Il terzo, se doveano dividersi le scritture in due classi, cioè in quelle che sono state già riconosciute per canoniche, ed in quelle le quali parea che la chiesa avesse già accettate per buone ma non ancora per canoniche, come sono i libri de' proverbi e della sapienza.

2. Circa il primo dubbio concordemente si disse che tutti i sacri libri si approvassero dal concilio. Circa il terzo dubbio fu da tutti all'incontro rifiutata la mentovata divisione proposta nel concilio dal Bertano e dal Seripando, e prima del concilio dal Gaetano, ma riprovata già fortemente da Melchior Cano1, come inetta ed insussistente. Il secondo dubbio però incontrò maggior difficoltà: se per l'approvazione de' sacri libri dovea farsi o no nuovo esame. Molti col cardinal del Monte e col cardinal Pacecco rifiutavano questo esame, dicendo che l'uso della chiesa era di non richiamare in lite le definizioni già fatte. All'incontro molti diceano doversi fare, affin di maggiormente confermare la verità per utile de' pastori e teologi, acciocché meglio potessero poi confutare gli errori dei falsi dottori; essendo obbligato il teologo, come insegna s. Tomaso, non solo a provare le verità di fede ma anche a difenderle da tutte le opposizioni: aggiungendo che, facendosi un tal esame, non avrebbero potuto dire gli eretici che i loro argomenti non fossero stati neppure esaminati.

3. Oppose però il vescovo di Chioggia che nell'approvare le scritture e le tradizioni non conveniva appoggiarsi al solo decreto che porta il nome del concilio fiorentino; poiché, dicea, un tal decreto non era del concilio, giacché la sua ultima sessione nell'anno 1439 già era terminata, e il decreto fu fatto nel 1441. Ma si rispose non esser vero che il concilio di Firenze terminò nel 1439, perché allora terminò solamente l'interpretazione latina di Bartolomeo Abramo candiotto, mentre sino a quel tempo della settima sessione solo dimorarono i greci, e se ne composero gli atti registrati dal nominato interprete. Ma il concilio durò per altri tre anni in Firenze e di fu trasportato in Roma: poiché Eugenio IV, vedendo che al partire de' greci persisteva ancora il concilio illegittimo di Basilea, pertanto mantenne quello di Firenze; dove poi (come riferisce il Baronio nell'anno 535) Eugenio col consenso de' padri ricevé gli eretici armeni ed i giacobiti, e nell'istruzione di fede che loro fu data si contiene l'approvazione delle tradizioni ed anche delle sacre scritture col loro catalogo. E che il concilio persistesse dopo il detto anno 1439 apparisce dalle due costituzioni riferite da Agostino Patrizio nel suo compendio del concilio di Basilea: l'una dell'anno 1440, dove si annullò l'elezione di Felice V. antipapa, e l'altra del 1442, dove si ordinò la traslazione del concilio basileense a Roma. Di più scrive il Pallavicino, che il decreto de' libri santi fosse del concilio, apparisce dagli atti del medesimo che si conservano nell'archivio di Castel s. Angelo, firmati dal papa e dai cardinali, come già da Roma ne venne in Trento la copia autentica. Di più, il p. Giustiniani dell'oratorio, poi cardinale e prefetto della libreria vaticana, fece che uscissero in luce alcuni atti del concilio fiorentino, da' quali si vede che il concilio durò sino all'anno 1445.

4. Del resto già in Trento si fece una nuova ed esatta discussione de' libri sacri


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e delle tradizioni, non già pubblica per registrarsi negli atti, ma privata, a fine di poterne render ragione a' padri. Finalmente fu dato fuori il decreto, dove considerando il concilio, come ivi si legge, che tutte le verità appartenenti ai dogmi si conteneano nei sacri libri e nelle tradizioni, che, essendo state ricevute dagli apostoli dalla stessa bocca di Gesù Cristo o pure ordinate da essi per dettame dello Spirito santo, erano pervenute sino ai nostri tempi, dichiarò che ammetteva e venerava con egual pietà e riverenza tutti i libri del nuovo e vecchio testamento e tutte le tradizioni dettate da Gesù Cristo o dallo Spirito santo e conservate nella chiesa cattolica per una continua successione: Omnes libros tam veteris quam novi testamenti, cum utriusque unus Deus sit auctor; nec non traditiones ipsas, tum ad fidem, tum ad mores pertinentes, tanquam vel oretenus a Christo vel a Spiritu sancto dictatas et continua successione in ecclesia catholica conservatas, pari pietatis affectu ac reverentia suscipit et veneratur.

5. Alcuni avean fatta difficoltà sovra il dirsi che le scritture e le tradizioni si accettavano colla stessa pietà e riverenza, opponendo che sebbene le une e le altre venivano da Dio, nondimeno le tradizioni non aveano come le scritture tanta stabilità, mentre alcune di esse vedeansi cessate. Ma tale opposizione fu comunemente ributtata, rispondendosi che così le une come le altre sono vere parole di Dio e fondamenti della fede; colla sola varietà di esser le une scritte, le altre non iscritte, del resto le une e le altre son verità immutabili: a differenza poi delle leggi positive e de' riti che si hanno nelle tradizioni ed anche nelle scritture, le quali leggi sono mutabili. E perciò nel decreto il concilio espresse di ricever solamente le tradizioni circa la fede ed i costumi: poiché già prima del decreto erasi convenuto che quelle sole dovessero accettarsi senza eccezione, ma le altre appartenenti a' riti si accettassero secondo la consuetudine de' tempi presenti. Pietro Soave dice che il decreto delle tradizioni, secondo osservarono molti, non importava obbligo stretto, poiché da una parte non si stabiliva dal concilio quali tradizioni dovessero riceversi: e dall'altra l'anatema fulminavasi contra quel solo qui traditiones praedictas sciens et prudens contempserit: onde concludea non contravvenire chi reverentemente tutte le ributtasse. Ma risponde Natale Alessandro nella sua Historia ecclesiastica1, che tal proposizione è temeraria; mentre il concilio disse le scritture e le tradizioni pari pietatis affectu ac reverentia suscipiendas. Ond'è che siccome non posson ributtarsi le scritture senza temerità, così neppure le tradizioni. Circa le tradizioni osservinsi le dottrine che si noteranno qui appresso nel § VIII.

6. Dopo la riferita dichiarazione fu nel decreto soggiunto l'indice di tutti i libri che dal concilio si riceveano per canonici. Oppone il Soave temerariamente che dal concilio si erano approvati libri apocrifi o almeno incerti. Ma si risponde che non furono già approvati se non con nuovo e diligente scrutinio. Oltreché, essi libri erano tutti stati già approvati dal fiorentino, come di sovra si disse. Oppone specialmente il Soave che il libro di Baruch fu approvato per canonico non con altra ragione se non perché di esso eransi fatte le lezioni nella chiesa; del resto non era stato mai annoverato tra i libri sacri dagli altri concilj. Ma si risponde che quantunque dai concilj antichi tal libro non fosse stato posto nel catalogo de' libri canonici, nondimeno i concilj antichi non intesero di escluderlo, ma di comprenderlo nel libro di Geremia, del quale Baruch fu scrivano, come si legge nello stesso libro di Geremia al capo 36 e come attestano s. Basilio, s. Ambrogio, Clemente alessandrino, s. Gio. Grisostomo, s. Agostino e più sommi pontefici, Sisto I., Felice IV. e Pelagio I. presso il Bellarmino2. Oltreché, s. Cipriano3, e s. Cirillo4 allegano tal libro col nome dello stesso Geremia, ed altri padri lo chiamano semplicemente scrittura divina.

Si oppose di più da alcuno che i salmi non doveano chiamarsi generalmente salmi di Davide, non essendo egli l'autore di tutti, come molti vogliono: ma perciò dal concilio furon chiamati Salterio davidico.

7. In fine del decreto si disse: Si quis autem libros ipsos integros cum omnibus suis partibus, prout in ecclesia catholica legi consueverunt et in veteri vulgata latina editione habentur, pro sacris et canonicis non susceperit, et traditiones praedictas sciens et prudens contempserit: anathema sit.

8. Il Soave oppone il discorso di alcuni protervi, i quali circa le parole suddette a rispetto delle tradizioni diceano due cose: la prima, che il concilio avea ordinato che si ricevessero le tradizioni,


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ma senza dar modo di conoscerle. La seconda, che il concilio nel riferito passo non aveva dato precetto di riceverle, ma solo proibiva di disprezzarle; onde non contravveniva chi con parole riverenti le rigettasse. Alla prima opposizione si risponde che in ciò il concilio imitò il sesto sinodo generale, dove neppure furon dichiarate quali fossero le vere tradizioni. Tanto più che per giusti fini non conveniva in quel decreto dichiarar le tradizioni da tenersi di fede, dovendo elle esaminarsi e dichiararsi appresso nelle future sessioni, secondo occorrea la materia. Alla seconda opposizione poi del non esservi precetto di riceverle si risponde altro essere il parlare del precetto, altro dell'anatema. In quanto al precetto, quello apparisce chiaramente già apposto, mentre dicesi antecedentemente nel decreto che il concilio riceveva pari pietatis affectu ac reverentia così le scritture come le tradizioni. In quanto poi all'anatema, dicesi che i precetti possono trasgredirsi e non riceversi in due maniere, o per debolezza o per disprezzo. Ciò supposto, il concilio non volle imporre l'anatema contro ogni trasgressore del precetto dato di ricevere egualmente le scritture e le tradizioni, ma solamente contro coloro che scientemente disprezzassero le tradizioni, come fanno gli eretici.

9. Inoltre il Soave si lamenta che il concilio, ricevendo le tradizioni, doveva ricevere ancora le ordinazioni delle diaconesse e le elezioni dei ministri del popolo, ch'erano già istituzioni apostoliche di più secoli, e, quel che più importava, l'uso del calice a' laici, praticato per quattordici secoli da tutte le nazioni, fuorché dalla latina. Ma si risponde che il concilio parlò e ricevé le sole tradizioni continuate sino al suo tempo, come esprime già nel decreto: quae quasi per manus traditae ad nos usque pervenerunt. Le due prime tradizioni mentovate erano state già dismesse ottocento anni avanti, e la terza del calice dugento. Del resto, parlando dell'elezione dei ministri della chiesa, sappiamo che nel concilio I. di Laodicea, celebrato nel quarto secolo, nel can. 3, si disse che non si debba permettere alle turbe fare elezione di coloro che s'hanno da promuovere al sacerdozio. E prima s. Paolo scrisse a Tito, cap. I.: Perciò ti ho lasciato in Creta, affinché costituisca i preti per le città, siccome ti divisai. In quanto poi all'uso del calice, non è vero che sino avanti a dugento anni era stato quello universalmente usato. S. Tommaso1 che visse trecento anni prima del concilio, disapprova il costume di tutte quelle chiese che l'usavano. Di più il concilio di Costanza nella sessione decimaterza asserisce che da lungo tempo prima si era tolto l'uso del calice. Il cardinal Bellarmino dimostra che ottocento anni prima era stato già abolito l'uso del calice e che tal uso è stato sempre riputato arbitrario ma non già di precetto nella chiesa. Ma ciò meglio si esaminerà appresso nel luogo più proprio.




1 - De loc. theol. l. 2. c. 10.



1 - T. 20. sect. 16 et 17 a. 2.



2 - L. 1. de verb. Dei, c. 8.



3 -L. 2 contr. Iud. c. 5.



4 -L. 10. contr. Iul.



1 -3. p. q. 80. a. 12.






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