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Sant'Alfonso Maria de Liguori
Rifless. sulla verità della Divina Rivelaz.

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Cap. II. La divina rivelazione non si oppone alla propria felicità.

 

I naturalisti o sieno deisti, trattando della propria felicità, intendono parlare della felicità temporale della presente vita, perché in quanto alla felicità eterna della vita futura, io non so se eglino si accordano tutti fra di loro nel dare per certa l'immortalità dell'anima. Il signor Voltaire, secondo scrive, non l'ammette; mentre dice, che l'anima è una sostanza non distinta da quella del corpo, la quale in morte si scioglie, quando il corpo si corrompe. Ed io penso che gli altri naturalisti non facciano molto scrupolo a seguire il medesimo sentimento, posto ch'essi tengono, che tutte le cose che si appartengono all'uomo, sono secondo la di lui natura. Del resto qualunque sia la loro credenza, io intendo qui parlare di coloro che negano o pongono in dubbio l'immortalità dell'anima, e dicono che la rivelazione è contraria alla propria felicità, giacché più cose che in questa vita dalla religion rivelata ci vengono palesate, come sono i legami de' precetti, la proibizione di soddisfar le passioni secondo la nostra inclinazione, il timore del giudizio divino, le minacce delle pene eterne, tutte queste rendono la vita infelice. Noi all'incontro diciamo che l'incredulo non può mai vivere felice nella sua incredulità ma che solo chi siegue i lumi della rivelazione, ed osserva la divina legge, può godere in questa terra la propria felicità; ma quella felicità che solo può aversi nella presente vita, poiché la felicità piena e libera da ogni travaglio, non si può godere quaggiù, ma ci sta preparata nell'eternità della vita futura. In


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questo mondo poi, ch'è luogo di meriti e perciò luogo di patimenti, co' quali si merita la vita eterna, solo chi li tollera con pazienza vive contento, come vivono i santi, i quali quanto meno godono di questi beni terreni, e con quanta maggior pazienza soffrono le tribulazioni della vita presente, tanto più godono di pace e tranquillità d'animo.

 

Ma affinché possa l'uomo esser felice in questa vita bisogna che sappia dove consiste la sua felicità. È certo che la nostra felicità naturale non consiste ne' piaceri del corpo, ma nella tranquillità dell'animo, che viva sciolto da' vizj e dagli attacchi sregolati. Questa tranquillità poi nasce dal concerto de' nostri buoni desiderj e buoni portamenti. Quando gli umori del nostro corpo sono in buon concerto, allora il corpo sta sano e vigoroso; ma quando gli umori sono sconcertati, allora essi cagionano infermità e dolori. Lo stesso accade nell'anima; se trovasi ella in disordine per qualche vizio o passione sregolata, da cui si fa dominare, non trovatroverà mai vera pace. Sicché per ottenere la vera pace bisogna tener l'anima in concerto con Dio, cogli uomini e con noi stessi, per mezzo delle sante virtù: esercitando con Dio l'amore e l'ubbidienza a tutti i suoi precetti e consigli: cogli uomini la carità e la mansuetudine: e con noi stessi la mortificazione delle passioni ed annegazione dell'amor proprio. E perciò dobbiamo spogliarci delle massime del mondo, che corrompono la mente e la volontà; ed imbeverci delle massime sante che ci conducono per la via retta a Dio; e così a misura della pratica di tutte queste virtù saremo più o meno felici in questa vita. Persuadiamoci, che senza le virtù non vi è né vi può esser vera contentezza. Oh quanto è più felice un povero ch'è virtuoso, che tanti ricchi e grandi della terra, che nelle loro grandezze son continuamente agitati da mille desiderj che non possono eseguire, e da mille avversità che non possono evitare! La sperienza ben la dimostra, che ogni uomo che virtuosamente vive, di qualunque condizione egli è, vive felice nel proprio stato, ed ogni altro che vive nel vizio non trova felicità in tutte le ricchezze ed onori in cui passa la vita.

 

Ora gl'increduli, che son privi della luce della fede, e per conseguenza neppure conoscono la vera virtù, qual pace mai, vivendo nelle loro tenebre, posson godere? dove essi la troveranno? forse nei beni e piaceri di questa terra? Ma è troppo vero quel che scrive l'Ecclesiaste: Ecce universa vanitas, et afflictio spiritus1. Tali sono tutte le ricchezze, gli onori e le delizie di questo mondo vanità e bugie; ma non solo bugie, sono di più afflizioni di animo. Alle fortune succedono le disgrazie, a' piaceri i disgusti, alle consolazioni le mestizie; e secondo la presente costituzione del genere umano, ordinariamente più affliggono le cose avverse, che non rallegrano gli eventi prosperi. Dunque dirà alcuno, l'uomo è nato per essere infelice? No. Dio ha creati tutti gli uomini per farli felici, ma nella vita futura, non già in questa presente, perché al presente in questa terra ognuno vi sta posto da Dio a patire, affin di purgare i suoi peccati e di meritarsi colla pazienza il paradiso. Come è possibile, dice s. Agostino, trovare una vita pienamente felice in questa terra, che presto morendo abbiamo da lasciare? Beatam vitam quaeritis in regione mortis2? Nella vita futura il Signore ci apparecchia il riposo e la gloria eterna, se nella presente siamo fedeli alla sua grazia; ma sempre che viviamo su questa terra, ciascuno ha da portar la sua croce; e chi la porta con pazienza poco la sentirà, né si contristerà quando gli sarà data a portarla: Non contristabit iustum, quidquid ei acciderit3. Ma l'incredulo come può portare con pazienza la croce che gli Gesù Cristo , se non crede a Gesù Cristo?

 

Non solo l'incredulo, ma tutti quei che vivono in disgrazia di Dio patiscono


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in questa vita un inferno anticipato; poiché i gusti del peccato son gusti avvelenati, che sempre lasciano la bocca amara; ed inoltre essi durano momenti, ma le pene e i rammarichi sono continui. È un inganno il volere trovar pace col secondare le passioni; quanto più cercheremo di soddisfarle, tanto più si accresceranno i tormenti. Quali rancori non patisce un ambizioso che desidera onori, posti o dignità, se non può conseguirli? e quantunque gli conseguisca, sempre ambirà di passare più innanzi, e se non passa vivrà sconsolato. Quanta pena poi non prova, se vede preferito alcun altro ch'esso giudica men degno di lui? giacché la nostra innata superbia sempre ci fa apparire che noi siamo più degni degli altri. Il buon cristiano all'incontro, riputandosi inferiore agli altri, non s'inquieta, se si vede posposto; e se talvolta vede chiaramente che gli è fatta ingiustizia ben si acquieta colla divina volontà che così ha disposto e si mette in pace.

 

Quali pene non assaggia un avaro, anche in mezzo alle sue ricchezze? ora per timore di perdere quel che ha, ora per le perdite che fa, ora per i crediti che non può esigere, ora perché gli vien meno qualche guadagno che sperava? Ma l'uomo dabbene si contenta di quel poco che ha e vive contento. Quali pene non patisce un vendicativo che vorrebbe vendicarsi e non può? E se per sua maggior disgrazia egli giunge a vendicarsi, gli si accrescono le angustie, non già mancano; il timore del magistrato, il risentimento de' parenti, i travagli della fuga lo faranno stare in una continua tempesta. Quali tormenti poi non soffre un impudico ne' suoi sozzi amori? quanti sospetti, quante gelosie, quante amarezze nel vedersi mal corrisposto, o nel vedersi chiusa la porta a' suoi intenti? E quantunque gli resti aperta la porta, come potrà evitare che i rimorsi di coscienza ed i timori della divina vendetta non gli tormentino il cuore?

 

basterà all'incredulo per non sentire questi rimorsi e timori nella sua incredulità il non credere alla pene eterne; perché udirà dirsi dalla coscienza: Ma se queste pene son vere, che ne sarà di te per tutta l'eternità? Neppure basterà a quietarlo il dire: Ma io non voglio credere a nulla; perché sentirà internamente replicarsi: Ma se è vero l'inferno, che importa che tu non voglia crederlo? o lo credi o non lo credi, sempre sarai dannato. Sicché almeno questo timore ed incertezza inevitabile lo farà sempre vivere agitato.

 

Diranno gl'increduli: ma anche i fedeli vivono inquieti per tale timore, mentre niuno di loro è certo della sua eterna salute. Rispondo: È vero che niuno può avere certezza infallibile della sua perseveranza, e per conseguenza della salute eterna vivendo quaggiù senza una special rivelazione divina, come insegna il concilio di Trento: ma la speranza che ha un buon cristiano nella bontà di Dio e nei meriti di Gesù Cristo di acquistar la beatitudine eterna, raddolcisce la pena di questa incertezza. Cosa ammirabile! (dice l'autore dello spirito delle leggi) la religion cristiana, che non sembra aver altro obbietto che la felicità dell'altra vita, fa ancora qui la nostra felicità! Anche il peccatore che si ha meritato l'inferno, ma che ha fede, trova sollievo nella promessa del perdono fatta da Dio ai penitenti; crede ben egli che questo Dio ha dato il proprio Figlio alla morte per salvare i peccatori, come scrive l'apostolo: Qui proprio Filio suo non pepercit, sed pro nobis omnibus tradidit illum1. E quindi san Paolo ci coraggio a non temere che Dio ci nieghi il perdono e 'l paradiso, dopo che ci ha donato tutto con donarci il Figlio: Quomodo non etiam cum illo omnia nobis donavit2? E così il fedele mette calma ai suoi rimorsi; ma l'incredulo con qual mezzo potrà quietarli? Ah che l'infelice, durando nella sua miscredenza, i rimorsi ed i timori lo faran vivere sempre agitato, e finalmente l'indurranno ad abbandonarsi alla disperazione ed anche a togliersi


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volontariamente la vita; com'è succeduto a più d'uno di costoro, che si vantano di non credere a niente.

 

Poveri increduli! essi nelle loro avversità e disgrazie non trovano chi possa consolarli. Figuriamoci un incredulo, che ingiustamente dai giudici sia stato spogliato dei suoi beni, o un infermo che già è stato disperato dai medici, o un reo che già è stato condannato a morte; dimando, qual pensiero di consolazione potrà sollevare ciascun di costoro? lo solleverà forse la sua incredulità? ah che l'incredulità ai suoi seguaci non toglie la pena, ma l'accresce nelle grandi tribulazioni; mentre loro a credere non esservi altra vita fuori della presente. I tribolati in questo mondo solamente dal pensiero dell'eternità possono esser consolati, sperando colla morte di andare a godere nella vita futura un'eterna felicità. La felicità eterna della vita futura forma la felicità della vita presente, e consola noi pellegrini in questa valle di lagrime; ma l'incredulo non può consolarsi colla vita futura, poiché anzi la teme e l'abborrisce; e trovandosi frattanto infelice nella vita presente, e vedendo all'incontro che questa vita non gli serve che per patire, giudicherà meglio il privarsene volontariamente da disperato, come ho detto. E perciò i deisti, secondo le loro massime, dan per lecito il suicidio, e chiamano vili quegli uomini che non rimediano ai loro travagli con darsi la morte. Ma non vedono i miseri, che ciò non è coraggiofortezza di animo, ma viltà e debolezza, per cui dimostrano, che non hanno pazienza e valore di soffrir con costanza i loro mali.

 

Or posto tutto ciò che si è detto, come possono gl'increduli asserire che la divina revelazione sia contraria alla felicità dell'uomo, quandoché la rivelazione è tutta ordinata a render felice l'uomo nel tempo e nell'eternità? Esaminiamo il punto più in particolare. La rivelazione divina è contenuta nel vecchio e nuovo testamento; si osservi il testamento vecchio e nuovo, e si vedrà che tutto l'intento di Dio fu ivi d'illuminare il suo popolo eletto, e d'istruirlo a servire ed amare il vero Dio, che fu il primo e principal precetto dato all'uomo, che se l'uomo non l'adempisce, non può esser mai felice. A tal fine ancora erano diretti tutti i precetti della legge mosaica, così morali, come ceremoniali e giudiziali, ne' quali stavan determinate le pene a' trasgressori, non per renderli infelici, ma felici, contenerli a freno e lontani dall'idolatria e dai vizj. Quindi per lo stesso intento il Signore sottrasse gli ebrei dalla servitù di Faraone, estraendoli da Egitto e dando loro Mosè per capitano, acciocché li conducesse alla terra promessa; terra abbondante e deliziosa, dove potessero viver contenti e di passare all'eterna felicità del paradiso, se fossero stati fedeli a custodire le leggi prescritte. Ma perché poi il popolo fu infedele e disubbidiente a Mosè ed a Dio, perciò ebbero il castigo di non entrare ad abitar quella terra di delizie; giacché di seicento mila uomini (oltre i fanciulli ed i giovani minori di venti anni e le donne che uscirono da Egitto), appena due sole persone, Giosuè e Caleb, entrarono nella terra promessa, e tutte le altre erano già morte nel viaggio in pena della loro infedeltà. Sicché non fu la rivelazione che li tradì, ma la loro malvagità che li rendé infelici per non aver voluto ubbidire alla rivelazione.

 

Parlando poi del testamento nuovo, cioè del vangelo, prima di passare innanzi voglio qui notare una curiosa contraddizione che fa a se stesso nei suoi scritti il rinomato sig. Rousseau. Egli nel suo Emilio1. parlando del vangelo scrive così: Io confesso che la santità del vangelo parla al mio cuore; vedo i libri dei filosofi con tutta la lor pompa, che sono più piccioli a fronte di esso. In un altro luogo poi, cioè nel discorso ch'egli fa in un trattato a parte, che chiama La Lettera2, dove parla dei sacri autori che scrissero il vangelo, dice: Chi sa sin dove le meditazioni sulla


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divinità han potuto turbare l'ordine dottrinale? in una troppo grande elevazione la testa gira, e non si vedono le cose com'elle sono. Sicché nel primo luogo molto esalta il libro del vangelo, e lo fa vedere libro santo e più eccellente di tutti i libri dei filosofi; nel secondo luogo poi parlando dei vangelisti, dice che la troppo grande elevazione nel meditar la divinità li fe' diventare stolidi e pazzi, mentre scrive che questa elevazione fece loro girar la testa in modo che non vedeano le cose com'elle sono. Di più lo stesso signor Rousseau nel nominato Emilio1. dice: Confesso che la santità del vangelo parla al mio cuore. Il vangelo ha carattere di veritàgrande, impossibile ad imitarsi ecc. Ma (poi soggiunge) questo stesso vangelo è pieno di cose incredibili, che ripugnano alla ragione, e ch'è impossibile ad ogni uomo di senno di concepirle e di ammetterle. Ho voluto qui far questa digressione, affinché si faccia il degno concetto di questo mal teologo moderno, del quale alcuni amici di nuove dottrine circa la fede fan tanta stima.

 

Torniamo al punto. Nel Testamento nuovo, cioè nel vangelo sta scritta la legge di grazia, legge di amore e di libertà di figli, a differenza della legge antica ch'era legge di timore e di servitù. Ora si osservi questo vangelo, e si vedrà che tutte le divine rivelazioni ivi fatte sono dirette a render l'uomo felice in questa e nell'altra vita, mentr'elle non gl'ispirano che amore verso Dio, carità verso il prossimo ed annegazione delle passioni malvagie, virtù che sono i fonti ed i custodi della vera pace che può aversi in questa valle di lagrime, e della felicità eterna che speriamo godere nella patria del cielo. In oltre queste rivelazioni del vangelo ci additano i mezzi che abbiam da tenere per ottener questa felicità: e questi mezzi sono la pratica delle virtù, l'uso dei sacramenti e la frequente preghiera. Elle ci scoprono ancora la vanità dei beni terreni e la preziosità dei celesti; ci scoprono gli ostacoli che si oppongono alla nostra felicità, ed i pericoli di perderla, affinché attendiamo ad evitarli. Ci palesano finalmente i precetti che dobbiamo osservare, ed i consigli che ci conducono alla santità, in cui si trova la vera felicità.

 

Ecco quel che scrive l'apostolo s. Giovanni2: Annuntiamus vobis vitam aeternam, ut gaudeatis, et gaudium vestrum sit plenum. Vuole che noi godiamo pace e viviamo contenti, pensando alla vita eterna che speriamo, giacché la sola speranza della vita eterna può render felice la nostra vita temporale. Ognuno sa che due vite ci toccano, una temporale, l'altra eterna: l'eterna è vita di riposo, libera da ogni male e colma di ogni bene: la temporale è vita di miserie, di fatica e di pugna coi nemici della nostra felicità esterni, i quali sono il mondo e i demonj; interni, quali sono i nostri malvagi appetiti. La speranza dunque dei beni eterni e la vittoria di questi nemici della nostra salute ci rendono felici in questa e nell'altra vita.

 

Restringiamo ora in uno l'argomento. Se la vittoria delle passioni e l'esercizio delle virtù formano la nostra felicità tanto temporale che eterna, come può dirsi che la divina rivelazione, la quale è tutta intesa a vincer le passioni e promuovere le virtù, sia contraria alla felicità?

 

Ma udiamo le loro obbiezioni. Dicono: ma tanti precetti insopportabili che c'impone la rivelazione e 'l timore dei castighi minacciati rendono l'uomo infelice. Rispondiamo a queste due opposizioni dei precetti e del timore; e parliamo prima dei precetti. L'osservanza dei precetti è il mezzo principale per acquistare la felicità eterna e temporale, come abbiam detto. Vorremmo poi sapere dai deisti, quali sono questi precetti insopportabili che ci prescrive il vangelo? I precetti rivelati altri son naturali, altri positivi. I naturali dalla stessa ragion naturale son prescritti all'uomo per farlo vivere


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da uomo, e non posson rifiutarsi senza rinunziare alla stessa ragione. I positivi poi son prescritti all'uomo per lo stato soprannaturale della vita eterna, alla quale è stato egli (essendo immortale) preordinato da Dio, il quale ha mandato il suo Figliuolo in terra per liberarci dall'eterna morte, e farci acquistare un'eterna felicità. E perciò questo nostro Salvatore non solo ci ha rivelati nel vangelo i mezzi opportuni a conseguire la vita eterna, ma egli stesso si è fatto nostra via per giungere al cielo: Ego sum via, veritas et vita1. Via, che conduce al possesso dell'ultimo nostro fine: Verità, che ci ammaestra senza pericolo di errare: Vita, che ci fa vivere contenti in questa terra e beati in paradiso. Il paradiso è un gran premio: Sed (dice s. Gregorio) ad magna praemia perveniri non potest, nisi per magnos labores2. Bisogna dunque faticare per meritare il paradiso: per faticare con perseveranza bisogna conoscerne il pregio. Colla fede si conosce il pregio, colla speranza si desidera, e colla fatica, cioè coll'esercizio delle virtù si merita.

 

I mezzi poi debbon esser proporzionati al fine; onde non è possibile coi soli lumi naturali giungere a conoscere, e per conseguenza a desiderare ed a conseguire i beni celesti, che superano la nostra capacità; se il fine è soprannaturale, anche soprannaturali debbon essere i lumi ed i mezzi. Pertanto è venuto un Dio dal cielo per sollevare l'uomo coi lumi della fede e coi mezzi della grazia e dei sacramenti a renderlo atto ad acquistare il cielo. Chi dunque potrà rifiutar questi precetti, questi lumi e questi mezzi che insegna la rivelazione, senza i quali niuno può ottenere la felicità eterna?

 

Come dunque i precetti evangelici possono renderci infelici, se tutti essi ci spianano la via all'eterna felicità? Gesù Cristo, per vederci felici in questa e nell'altra vita, ha voluto istruirci colla sua propria bocca e col suo esempio; e per nostra maggior sicurezza ha voluto che tutte le sue dottrine ci fossero lasciate scritte dai suoi discepoli nel nuovo testamento. Or l'incredulo, che ignora i mezzi di acquistar la felicità eterna, come può riprovare questi mezzi a noi rivelati, e chiamarli gravosi e inutili, dicendo che basta a conseguir la salute la sola religion naturale? La sapienza afferma la necessità dei mezzi; l'incredulo, cioè la stessa ignoranza, che non sa che cosa sia salute eterna, nega: a chi dobbiamo credere? Dice che sono inutili i precetti positivi. Ma in ogni regno per ben governarlo non bastano le leggi comuni, vi bisognano le particolari e municipali; e non solamente in ogni regno, ma in ogni città ed in ogni famiglia, anche nelle botteghe dei lavoranti, nelle masserie di campagna son necessarie le particolari ordinazioni del capo che le governa. E poi per lo governo della chiesa sparso per tutto il mondo non saran necessarj i precetti particolari per dirigere i fedeli alla salute comune? I precetti rivelati rendon l'uomo bene ordinato, e perciò lo rendon anche felice; tanto più che dove i precetti umani comandano, ma non illuminanodan forza di ubbidire, quelli di Dio nello stesso tempo che comandano danno luce alla mente dei sudditi, e per mezzo della grazia, che gli accompagna danno anche forza alla volontà di eseguirli; e così si avvera quel che disse il nostro Salvatore: Iugum enim meum suave est, et onus meum leve3. Poiché la grazia rende la legge soave e leggiera. Gl'increduli esclamano, libertà, libertà, e così aggregano seguaci. Di qual libertà essi parlano? libertà di peccare, libertà falsa, libertà che conduce all'eterna ruina ognun che l'abbraccia. Il vangelo all'incontro procura ai fedeli la vera libertà, libertà di figli di Dio, che li libera dalle malvagie passioni e dalla schiavitù del demonio.

 

Che poi il vangelo proibisca il vivere a seconda degli appetiti carnali, questo è un divieto della stessa ragion


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naturale, che ci vuole uomini e non bruti. Bisogna persuaderci, se vogliamo trovar quaggiù la vera pace, che il cuore dell'uomo è creato per godere Dio, bene infinito; e perciò tutti i beni della terra non possono contentarlo. Questa è una verità che da tutti gli uomini si sperimenta, credenti e miscredenti. È certo che fra tutti i miscredenti, quantunque ricchi e sollevati in posti a dignità, non si trova neppure uno che si chiami contento di sua fortuna, ma tra i buoni cristiani, benché poveri e disprezzati dal mondo, ritrovansi molti, i quali perché stanno uniti con Dio, vivono contenti del loro stato: solamente quei miserabili che stanno lontani da Dio fanno vita infelice; ma non n'è causa la divina legge che li rende infelici, n'è causa la loro mala volontà.

 

Ma replicano gl'increduli: non può negarsi che il timore dei castighi minacciati dalla rivelazione a' trasgressori dei suoi precetti non renda l'uomo inquieto ed infelice. Rispondo: non è vero che le minacce dei castighi inquietino l'uomo, l'inquieta la sua mala coscienza e 'l rimorso che gli rode il cuore. Il castigo suppone la colpa; dove non vi è colpa, non vi è rimorsotimore che inquieta. Chi vive esente dalle colpe, vive tranquillo, né lo turbano le minacce delle pene, anzi queste, confortandolo a fuggire le colpe, lo rendono più tranquillo. E questo appunto fa la divina rivelazione; colle minacce dei castighi lo tien lontano dalle colpe, ed all'incontro colle promesse del premio l'incoraggia a viver bene. Se poi l'uomo vuol conculcare le leggi, non sono le leggi, ma il suo mal vivere (come abbiam detto) che lo tiene inquieto.

 

In ogni tribunal della terra sono stabiliti i castighi a' malfattori; ma chi mai ha detto che la giustizia terrena rende gli uomini infelici? e poi si dirà che li rende infelici la giustizia di Dio, il quale non ad altro fine minaccia le pene, se non per rimuovere gli uomini da' vizj, e così renderli felici? Iddio è giusto, anzi è la stessa giustizia; se non fosse giusto, non sarebbe Dio; ma essendo Dio dee punire i malvagi. È una somma ingiustizia dunque il dire che la rivelazione divina rende infelici gli uomini colle pene che minaccia, mentr'ella appunto minaccia ai malvagi le pene per tenere gli uomini lontani dalle colpe, e così ritrovandoli poi fedeli a' suoi precetti, renderli eternamente felici colla mercede promessa del paradiso.

 

Dicono: La rivelazione si oppone alla propria felicità! E che forse Iddio ci ha posti in questo mondo a fare una vita molle e guadagnarci ricchezze, piaceri e glorie terrene? No, ci ha posti a patire miserie, disprezzi, infermità, pene interne; e così purgandoci dai peccati, e rassegnandoci in tutto a quel che Dio dispone di noi, ci guadagnassimo la vita eterna. Questo è il fine, per cui Dio ci ha creati, come scrive l'apostolo: Finem vero vitam aeternam1. Oh se tutti gli uomini intendessero il loro ultimo fine, ed attendessero a conseguirlo! tutti sarebbero santi e salvi. E perché la massima parte degli uomini si danna? perché perdono essi di mira questo unico fine, per cui Dio li ha creati e li mantiene su questa terra. I santi hanno acquistata l'eterna gloria, non col godere ricchezze ed onori, ma col patire povertà, disprezzi e dolori; imitando Gesù Cristo, che non venne in terra che per patire dolori ed ignominie. E così egli morendo finalmente su d'una croce ha voluto salvarci e tirarsi tutto il nostro amore; sicché non vivessimo a noi, ma solamente ad esso, che per noi è morto: Christus pro omnibus mortuus est, ut qui vivunt non sibi vivant, sed ei, qui pro ipsis mortuus est.2. E perciò vuole che noi discacciamo dal nostro cuore ogni amore che non è per lui; mentr'egli lo vuole tutto per sé: In hoc Christus mortuus est, et resurrexit ut mortuorum et vivorum dominetur3.

 

Già so che queste parole di amor


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divino non entrano neppure nelle orecchie di coloro che tengono il cuore pieno di terra: barbara lingua amoris, dice s. Bernardo che per chi ama il mondo è lingua barbara il parlare del divino amore. Vada almeno ciò detto per le anime amanti di Dio, affinché preghino con più calore per la salute di questi poveri increduli, che nel giorno de' conti non saranno scusati presso il divino giudice per cagion della loro ignoranza; mentre la luce del vangelo è troppo chiara per tutti, fuorché per coloro che chiudono gli occhi per non vederla. Essi ributtano il vangelo per ritrovar felicità; ma miseri che sono! non si accorgono che vivendo nella loro miscredenza non provano mai un giorno di pace, e fanno una vita infelice in questo mondo per andar poi a fare una vita più infelice nell'altro, abbandonati da Dio e privi d'ogni bene, di ogni sollievo e d'ogni speranza di uscir mai da quella fossa di tormenti! Attacchiamoci intanto noi alla nostra santa religione, stringiamoci sempre più con Dio, stacchiamoci dal fango di questa terra, fango per cui tanti si dannano; e così viveremo contenti in questo mondo ed appieno poi felici nell'eternità.

 




1 Eccl. 1. 14.



2 S. Aug. conf. l. 4. c. 12.



3 Prov. 12. 21.



1 Rom. 8. 32.



2 Ibid.



1 T. 3. p. 165.



2 Pag. 48.



1 T. 3. p. 176.



2 Ep. 1. c. 1.



1 Io. 14. 6.



2 S. Greg. hom. 27. in Ev.



3 Matth. 11. 30.



1 Rom. 6. 22.



2 2. Cor. 5. 15.



3 Rom. 14. 9.






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