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Sant'Alfonso Maria de Liguori
Rifless. sulla verità della Divina Rivelaz.

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Cap. III. La divina rivelazione non si oppone alla pubblica tranquillità.

 

Dicono di più gl'increduli che la rivelazione divina è contraria alla pace delle repubbliche, mentr'ella vieta alla chiesa di tollerare altra religione che non siegue la rivelazione; e con ciò è cagione di mille sedizioni e discordie tra' popoli. Quindi non possono soffrire il dogma evangelico, che fuori della chiesa cattolica non vi è salute. Ecco come scrive il Rousseau1: A Dio non piaccia ch'io predichi giammai agli uomini i dogmi crudeli dell'intolleranza, e che li porti a detestare il loro prossimo, dicendo agli altri; voi sarete dannati. Aggiunge nello stesso luogo: L'intolleranza è un dogma orribile, che arma gli uni contro gli altri, e li rende nemici del genere umano. Sicché vorrebbero i deisti che dalla nostra chiesa cattolica si permettesse una tolleranza ecclesiastica, con cui si facesse credere a' popoli, che ogni uomo dabbene, in qualunque religione che viva, possa salvarsi: così parla il nominato Rousseau nella lettera alla pag. 86.

 

Dicono che la religione dee riguardarsi come una legge nazionale, una legge di pura politica esteriore (siccome scrive lo stesso Rousseau nella citata lettera), la quale in conseguenza non obbliga, che sino a quando si dimora nel paese ove una tal legge è in vigore. Bella regola di credere e di operare! Da questa ne seguirebbe, che un cristiano, se dimora presso i cristiani, dee credere che Gesù Cristo sia figlio di Dio, e Salvatore del mondo: se presso i turchi, dee credere che Gesù Cristo non sia che un misero precursore di Maometto: se presso i giudei, un impostore e seduttore. Ma tutta questa credenza sarebbe esterna, poiché secondo i deisti internamente ognuno può credere quel che vuole; ed ecco col dogma della tolleranza aperta una pubblica scuola d'ipocrisia, abbominata dagli stessi gentili, i quali dopo aver costretti i cristiani per via di tormenti a rinunziare alla fede, li derideano poi e li disprezzavano, se quelli per debolezza la rinnegavano. Oltreché, fondandosi la tolleranza secondo i deisti sulla ragione dell'interesse dello stato e della polizia del governo, ne siegue che cangiandosi col tempo le ragioni dell'interesse e della polizia, si cangerà insieme il dogma della tolleranza; onde quei che pria doveano tollerarsi, col tempo poi non si potranno più tollerare. Sicché il dogma, dagl'increduli giudicato essenziale alla religione per lo bene comune della pace, sarà col tempo una legge variabile? dunque i dogmi essenziali della religione anche son variabili?

 

Ma non può negarsi, essi replicano, che molte guerre e sedizioni, avvenute specialmente in più regni di Europa, sono avvenute, perché la chiesa cattolica non ha voluto tollerar coloro che seguivano altra religione. Ma


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di queste sedizioni e guerre, si dimanda, chi n'è stata la cagione? Forse Gesù Cristo col riprovare la tolleranza, come espressamente egli la riprovò, quando ordinò a' suoi apostoli che predicassero il vangelo per tutta la terra, dichiarando che chi non l'avesse creduto sarebbe condannato: Praedicate evangelium omni creaturae. Qui crediderit, et baptizatus fuerit, salvus erit; qui non crediderit condemnabitur1. Ed ordinò che chi non si uniforma alla chiesa sia tenuto come infedele. Si ecclesiam non audierit, sit tibi tanquam ethnicus et publicanus2. No, che non è stato Gesù Cristo, né la chiesa la cagione delle guerre e sedizioni; ne sono stati i nemici della verità, che è insegnata dalla chiesa col volersi separare da quella e dalle sue dottrine. La religione che professa la nostra chiesa, col vietare i peccati e promuovere i buoni costumi, promuove insieme la pace comune. Questa è una verità che chiaramente si prova colla sperienza: in quei regni, ove più si osserva l'ubbidienza alla chiesa, ivi più si vede regnare la pace. Confessa lo stesso Rousseau3 e dice: I nostri governi sono debitori incontrastabilmente al cristianesimo della loro autorità più solida e delle rivoluzioni meno frequenti e dell'esser renduti meno sanguinarj. Ciò si prova col fatto, comparandoli agli antichi governi. La religione meglio conosciuta, togliendo via il fanatismo, ha dato più di dolcezza a' costumi cristiani. Questo cambiamento non è l'opera delle lettere, poiché ovunque hanno elleno fiorito, l'umanità non è stata più rispettata; le crudeltà degli ateniesi, degli egizi, degl'imperatori di Roma e della Cina ne fan piena fede. Quante opere di misericordia ha operate il vangelo! Quante restituzioni e riparazioni fa la confessione presso i cattolici! Si aggiunga alla confessione del Rousseau quella dell'autore dello spirito delle leggi4 che mi giova qui ripetere: Cosa ammirabile! la religion cristiana, che non sembra avere altro obbietto che la felicità dell'altra vita fa ancora qui la nostra felicità! Ed anche è ammirabile che quest'autore (il signor Montesquieu) confessi questa massima del vangelo, mentre scrive nella sua opera5, che gli stoici erano puri atei: e poi dice che la distruzione degli stoici è stata una delle disgrazie del genere umano: dunque la distruzione degli atei è stata una delle disgrazie del genere umano?

 

Ma dicono i deisti, che per mantenere la pubblica tranquillità non è necessaria la religion rivelata, ma basta lo stabilire ciascuno ne' suoi doveri. Or io dimando, per quali mezzi si stabilisce ognuno ne' suoi doveri? la religion naturale co' soli suoi lumi naturali non basta, come già provammo da principio nel §. I., mentr'ella neppure è sufficiente a far conoscere all'uomo i proprj doveri per cagion del peccato che talmente ha oscurata la nostra mente, che senza la luce della rivelazione spesso ci fa travedere i nostri obblighi; ed anche quando li vediamo, le tentazioni e le passioni spesso ci fan preferire il male al bene. E pertanto ci bisogna la divina grazia, acciocché prima conosciamo i nostri doveri, e poi coll'aiuto della grazia possiamo adempirli. Se la religione rivelata non recasse altro bene, che di metter l'uomo in sistema di vivere ordinatamente, solamente per questo solo buono effetto della pace comune dovrebbe da tutti abbracciarsi. La infelicità delle repubbliche da che nasce, se non dal disordine de' particolari? perché ciascuno non attende che al proprio interesse e piacere, perciò non vi è chi procuri il ben comune; e da ciò ne avviene poi la comune inquiete. La religion rivelata all'incontro, perché mette ordine a tutti gli stati delle persone, perciò apporta la comune quiete.

 

Replicano i deisti, che a tale effetto vi sono i mezzi naturali, come sono le leggi, i supplicj e 'l buon governo, i quali bastano a frenare l'audacia de' libertini. Ma no, che senza il


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freno della religione niuno di questi mezzi è bastante a correggere i viziosi e specialmente gl'increduli: essi non ascoltano altro che i loro appetiti, e nell'occasione di poterli soddisfare disprezzano tutto, leggi, supplizj e sovrani. Le leggi giovanobene a conservare i buoni costumi negli uomini morigerati, ma non li formano ne' cattivi; la sola religione rivelata forma i buoni costumi, e fa che poi le leggi siano tutte osservate. Dice il clero protestante che se non vi fosse la religione, la quale insegna esservi un giudice sovrano che vendica le infedeltà, rare volte gli uomini osserverebbero le promesse, onde senza questo timore gli empj crescerebbero in eccesso.

 

Neppure bastano i supplicj minacciati dalle leggi a moderar le insolenze de' discoli che disturbano la pubblica pace; essendoché spesso i delitti restano impuniti, o per essere occulti, o perché mancano le prove sufficienti a poterli punire; e non rare volte benché sian provati i delitti, i delinquenti colla fuga si liberano dalla pena. Il medesimo clero scrive così: La massima parte degli uomini non è capace di ben operare per la sola mira del pubblico bene; l'interesse particolare si trova quasi sempre opposto all'interesse comune: il solo timore dei gastighi divini mette freno a' disordini. E quindi avveniva (dice il Barbeyracco) che i sadducei, perché negavano l'immortalità dell'anima, eran nemici della società.

 

Parlando poi del buon governo, non si niega che il buon governo dei principi molto conferisce alla felicità dei popoli; ma la sola religione è quella che stabilisce la felicità comune; mentr'ella sola mette il giusto ordine tra i sovrani ed i sudditi; e quest'ordine poi è quello che produce la pubblica pace. La religione fa intendere a' sudditi, che ogni podestà è da Dio: Non est enim potestas nisi a Deo1. Sicché i principi son ministri dello stesso Dio: Ministri enim Dei sunt, in hoc ipsum servientes2. E perciò i sudditi son tenuti ad ubbidirli, non solo per timore delle pene, ma anche per obbligo della coscienza: Ideo necessitate subditi estote non solum propter iram, sed etiam propter conscientiam3. Ed aggiunge s. Pietro, che debbono ubbidire non solo ai sovrani pii, ma anche ai discoli ed infedeli: Servi, subditi estote in omni timore dominis, non tantum bonis et modestis, sed etiam dyscolis4. All'incontro la religione fa sapere a' sovrani, che se eglino si abusano della loro autorità nel governo de' popoli, han da renderne strettissimo conto a Dio: Quoniam data est a Domino potestas vobis... qui interrogabit opera vestra, et cogitationes scrutabitur5. Onde il loro giudizio sarà rigorosissimo: Quoniam iudicium durissimum his, qui praesunt, fiet6. Sicché la religione conserva l'ubbidienza e la fedeltà de' sudditi, e raffrena la cupidigia e la tirannia de' sovrani. Gl'increduli poi colle loro perniciose massime si oppongono così alla moderazione de' principi nel comandare, come alla sommessione de' sudditi nell'ubbidire; giacché essi, non avendo stima di Dio, neppure l'hanno de' sovrani. Ecco come scrive l'empio Giovanni Rousseau dalla sua montagna nello stesso suo libro dell'Emilio, parlando della soggezione ai sovrani: «Quando tutti i re fossero tolti, le cose non andrebbero peggio; perocché sempre la moltitudine sarà sagrificata ad un piccolo numero (intende dei principi), e l'interesse pubblico all'interesse particolare; e sempre questi speciosi nomi di giustizia e di subordinazione serviranno di strumento alla violenza e di armi all'iniquità. Onde ne siegue che gli ordini distinti, i quali si pretendono utili agli altri, non sono effettivamente utili che a loro stessi a spese degli altri.» Soggiunge: «La suprema potestà è da Dio, come da Dio ogni morbo pestilenziale proviene: così gli uomini son tenuti ad iscansare quella, come fanno tutto per preservarsi da questo.» Dice inoltre: «Il principato non serve ad altro che


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a spogliar crudelmente l'uomo del meglio che ha ricevuto dalla natura; mentre da libero che nasce è posto miseramente fra' ceppi. Il principe giova al popolo, come il lupo agli armenti, buono solo per divorarli» Termina dicendo: «Il cattolicismo è vizioso, per esser troppo favorevole alla tirannia.» Questo infame libro fu condannato dall'arcivescovo di Parigi nel suo editto dell'anno 1762. Ma si noti qui il temerario spirito di libertà e seduzione, che promuovono i deisti ne' popoli contra la soggezione che debbono a' loro sovrani. Pretendono essi insomma stabilire la pubblica tranquillità con indurre i sudditi a sottrarsi dall'obbedienza dei principi e delle loro leggi.

 

Dicono inoltre gl'increduli, che per istabilire la comune felicità ne' popoli sarebbe necessario metter fra tutti l'uguaglianza de' beni. Dunque, domando, col rendere tutti gli uomini eguali nel possesso de' beni, ne avverrebbe la comune felicità? io dico che da ciò ne avverrebbe la comune infelicità, e lo provo. Se tutti fossero eguali nelle ricchezze e negli onori, tutti sarebbero infelici; perché il ricco non avrebbe chi lo servisse ne' bisogni della vita umana: come potrebb'egli venir provveduto di vesti, di cibi, di mobili e di tante altre cose necessarie alla vita? Ciascuno, per esserne provveduto, dovrebbe saper fare tutte le arti. E se ognuno poi dovesse faticare manualmente per cibarsi, per vestirsi e per ogni altra cosa che gli bisognasse, chi potrebbe attendere a studiare i libri, a scrivere delle scienze necessarie a ben vivere ed a ben intendere le scritture sagre? chi potrebbe occuparsi ad esaminare e giudicar le cause ne' tribunali? Qual uomo poi vorrebbe soggettarsi a servire un altro, se fosse egualmente provveduto di beni e di onori? E così l'ignorante non troverebbe chi lo ammaestrasse, l'infermo non troverebbe chi lo medicasse, e chi per qualche disgrazia avesse perdute le sue robe, non avrebbe a chi ricorrere che lo soccorresse: dovrebbe ricorrere al principe, procurar mezzi per ottenere il di lui favore; e frattanto come farebbe? La religione è quella, che ponendo ordine a tutti i bisogni umani, fa che il ricco sovvenga il povero, il povero serva al ricco, il dotto istruisca l'ignorante. Ed ecco in tal modo ciascuno è sovvenuto nelle proprie necessità, ed è dato sesto a tutte le ineguaglianze, poiché questi scambievoli soccorsi bastantemente compensano l'ineguale distribuzione de' beni, e formano la pubblica tranquillità. Ciò sia detto di passaggio, ma torniamo al punto dell'intolleranza.

 

Abbiamo provato già, che non è l'intolleranza la cagione delle guerre e sedizioni; ma dato per vero, com'è affatto falso, che l'intolleranza delle religioni separate dalla cattolica cagionasse discordie, perciò la chiesa deve ammetter l'errore ed aver comunicazione con coloro che rifiutano la religione vera? Se vi è Dio, vi ha da essere la religione vera, che insegni la vera fede, colla quale Iddio ci faccia conoscere le verità che dobbiamo credere ed i precetti che dobbiamo osservare. E se vi è Dio (cosa che già non si nega da' deisti, perché la stessa ragion naturale celo dimostra), essendo questo Dio l'ente supremo e perfettissimo, non può essere altro che uno, e per conseguenza la fede non può essere altra che una, come scrive s. Paolo: Unus Dominus, una fides, unum baptisma1, Le religioni dunque diverse, che tengono diversi dogmi di fede affatto opposti tra di loro, non possono esser tutte vere, ma una sola ha da esser la vera, mentre la verità non può esser che una. Or se la rivelazione divina, che solamente nella religion cristiana si conserva, è assolutamente necessaria (siccome si è provato) alla nostra eterna salute, come possiamo noi tollerare altre religioni, la gentile, la maomettana, la giudaica o altre simili, che negano la divina rivelazione?

 

E se noi cattolici, i quali crediamo che fra le religioni cristiane la sola cattolica è la vera, per la ragione


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incontrastabile ed evidente che l'assiste, cioè perché (secondo io ho scritto nell'opera della Verità della fede part. III. cap. 6. n. 5. e nella dogmatica contro i riformati tratt. XIII. per tutto) la cattolica è stata la prima chiesa fondata da Gesù Cristo (cosa che non si nega dagli stessi novatori), e 'l medesimo Salvatore le ha promessa la sua assistenza sino alla fine del mondo: Et ecce ego vobiscum sum omnibus diebus usque ad consummationem saeculi1. Ed ha dichiarato che ella non sarà mai abbattuta dalle porte dell'inferno, che sono l'eresia: Portae inferi non praevalebunt adversus eam2. Posto ciò, come la nostra religione cattolica può tollerare le altre che insegnano dottrine tutte contrarie a quelle che essa tiene? Che un ateo tolleri tutte le religioni, ben s'intende, perché l'ateo nulla credendo, nulla riprova; ma chi crede alla religione rivelata da Dio, non può giammai tollerare alcuno errore da quella riprovato.

 

Per evitare la forza di questa verità, i riformati colla scorta del signor Iurieu hanno inventata la distinzione degli articoli fondamentali e non fondamentali. Non neghiamo, che i punti teologici circa le verità sopranaturali non tutti son fondamentali, molti di loro sinora son anche controversi tra' dottori, e finché non son decisi dalla chiesa per fondamentali, non siamo tenuti a seguire alcuna delle parti. I fondamentali dunque son quelli che già sono stati determinati dalla chiesa, la quale secondo l'apostolo è la colonna ferma della verità: Scias quomodo oporteat te in domo Dei conversari, quae est ecclesia Dei vivi, columna et firmamentum veritatis3. E questi punti fondamentali già decisi, siamo tutti obbligati a tenere per certi. Nell'antica alleanza poteva alcuno salvarsi fuori della legge ebraica, osservando i precetti naturali, come salvossi Giobbe con più altri, secondo si giudica, colla credenza di un Dio rimuneratore e colla fede almeno implicita del Redentore futuro: ma Gesù Cristo nella nuova alleanza ha stabilita per tutti la fede, che dee tenersi per conseguire la salute eterna; poiché solo in Gesù Cristo si trova la salute: Non est in aliquo alio salus4. Sicché questa chiesa di Gesù Cristo è l'unica vera, fuori di cui non vi è salute.

 

I deisti all'incontro, e parimente i protestanti, tollerano tutte le religioni, fuorché la cattolica, e così in sostanza non ne ammettono veruna, e si dichiaran nemici di Gesù Cristo, il quale disse: Qui non est mecum, contra me est; et qui non colligit mecum, dispergit5. Quindi l'apostolo ammoniva i suoi discepoli a rifiutar ogni dottrina diversa da quella ch'egli avea loro insegnata, ancorché fosse venuto un angelo dal cielo ad annunziarla: Sed licet vos, aut angelus de coelo evangelizet vobis, praeterquam quod evangelizavimus vobis, anathema sit6. Adducendone la ragione, perché tal dottrina l'aveva appresa per rivelazione di Gesù Cristo: Neque enim ego ab homine accepi illud neque didici, sed per revelationem Iesu Christi7. E lo stesso scrisse s. Giovanni: Si quis venit ad vos, et hanc doctrinam non affert, nolite recipere eum in domum, nec ave ei dixeritis8. Come dunque può stimarsi irragionevole l'intolleranza della chiesa cattolica romana, allorché separa da sé coloro che sieguono altra dottrina? ma perché poi, dicono, la chiesa romana condanna chi non è della sua comunione? La chiesa non lo condanna, ma giustamente colla scomunica lo divide dal suo corpo, per ubbidire a Gesù Cristo che ordina: Si autem ecclesiam non audierit, sit tibi sicut ethnicus et publicanus9.

 

Ma dicono: Iddio vuole la pace comune. E chi lo nega? ma non la vuole con discapito della sua fede; egli ch'è il principe della pace, la vuole, e ci comanda di conservarla con noi e cogli altri: Inquire pacem, et persequere eam10. Ma di qual pace intende parlare il Signore? Parla della pace vera, che si acquista e si mantiene coll'


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esercizio delle virtù: Fiat pax in virtute tua1. Parla di quella pace che si ottiene collo stare unito con Dio e col prossimo; e questa ci conduce poi alla felicità eterna. Non parla già della pace falsa, che si suppone ottenersi col tollerare coloro che voglion credere ed operare a lor piacere contra quel che Dio ha rivelato; questa è la pace degli empi che dormono nella lor perdizione; questa pace di morte non la vuole il nostro Salvatore, ma egli è venuto a discacciarla dalla terra: Nolite arbitrari (disse), quia pacem venerim mittere in terram: non veni pacem mittere, sed gladium2. S. Luca3 in vece di gladium scrisse separationem; sicché Gesù Cristo è venuto a separare gl'infedeli da' fedeli, acciocché i fedeli non si perdano col comunicare cogl'infedeli, come spiega4 lo stesso s. Luca, dicendo: Cum autem vadis cum adversario tuo ad principem, in via da operam liberari ab illo, ne forte trahat te ad iudicem, et iudex tradat te exactori, et exactor mittat te in carcerem. Ecco il precipizio, al quale conduce la tolleranza col comunicare coi nemici della fede.

 

Gian Leonardo Froereisen in una orazione detta e stampata in Argentina nell'anno 1743. essendo rettore di quella università, piange lo stato di molte chiese della comunione augustana, e dice: La nostra comunione pare un'armata, ove ciascuno vuol far da capo; ella è un serpe tagliato in più parti, le quali vivono, ma presto perderanno la vita. Ecco la bella tranquillità che nasce dalla tolleranza! In oltre dalla tolleranza che i riformati si son posti a predicare ne' loro libri, che n'è avvenuto? che si è posto in dimenticanza il dogma, e così poi si è introdotto il deismo e l'ateismo, poich'è facilissimo il passare dal deismo all'ateismo, contra cui poi han cercato di scrivere con molto calore essi riformati; ma debbono confessare che a tal precipizio essi han data la spinta, con promuovere la libertà di pensare in materia di religione, in modo che ora per quanto si affaticano, non possono più rimediarvi.

 




1 Emil. t. 3. p. 172.



1 Marc. 16. 16.



2 Matth. 18. 17.



3 Emil. t. 3. p. 182.



4 L. 24. c. 3.



5 L. 24. parte 10.



1 Rom. 13. 1.



2 Ib. vers. 6.



3 Vers. 5.



4 1. Petr. 1. 18.



5 Sap. 6. 4.



6 Ib. v. 6.



1 Ephes. 4. 5.

1 Matth. 38. 20.



2 Matth. 16. 18.



3 1. Timoth. 3. 15.



4 Act. 12.



5 Luc. 11. 23.



6 Gal. 1. 8.



7 Vers. 12.



8 2. Ep. n. 10.



9 Matth. 18. 17.



10 Ps. 33. 15.

1 Oseae 6. 7.



2 Matth. 10. 34.



3 12. 51.



4 Verso 58.




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