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S. Alfonso Maria de Liguori
Risposta...a religioso su opinione egual.prob.

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Testo

 


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Molto rev. padre, sig. e padrone colendiss.

 

Ricevo la sua stimatissima ben lunga e mista di lodi, consigli, ammonizioni, rimproveri e spaventi. Dovrei anch'io a lungo rispondere ad ogni cosa, ma le cure del vescovado non me 'l permettono. Risponderò pertanto in breve come meglio potrò. In primo luogo V.P. mi dice maravigliarsi ch'io, dimostrando di far buona vita ed esemplare (meglio avrebbe detto che, ingannando il mondo), tenga poi una dottrina poco sana, col difendere l'uso dell'opinione egualmente probabile. Padre mio, io giudico e vedo tutto l'opposto: vedo che la mia vita non è né buonaesemplare, ma tutta piena di difetti: all'incontro tengo che il mio sistema circa del probabilismo, secondo quel che ho scritto nell'ultima mia dissertazione data alle stampe, sia sanissimo e certo. Ivi già mi sono spiegato non esser lecito il servirsi dell'opinione meno probabile e meno tuta quando l'altra che sta per la legge è notabilmente e certamente più probabile, perché in tal caso l'opinione più tuta non è dubbia,


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ma è moralmente certa o quasi moralmente certa. Ma è ben lecito all'incontro l'uso della probabile quando ella è egualmente o quasi egualmente probabile: perché allora la legge è dubbia con vero e stretto dubbio, e perciò non obbliga, poiché la legge incerta non può indurre un obbligo certo; principio che credo averlo provato così chiaramente colle dottrine de' santi Padri, e specialmente di S. Tomaso e degli stessi fautori della rigida sentenza, che non so come possa contrastarsi.

 

Mi dice che bisogna tener la dottrina pura, la morale cristiana, la regola del Vangelo e la teologia de' Padri. Oh che belle parole! Mi soggiunge poi che per lo regolamento de' costumi dobbiamo lasciare gli autori probabilisti e seguire le Scritture, i concilj, i canoni ed i santi Padri. Ecco la solita cantilena de' signori probabilioristi. Ma piano, padre mio: ad una ad una. In quanto alla dottrina pura, io rispondo che la dottrina pura insegna esser di maggior perfezione il seguir le opinioni più tute, ma non insegna la dottrina pura che sia tenuto ciascuno a seguirle sotto obbligo grave, dove non abbiam la legge che a ciò ne costringa. Il voler fare che tutte le opinioni probabili per la legge, ancorché dubbie, sieno tutte leggi è voler aggiungere molte ed innumerabili leggi a quelle


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che abbiamo. Egualmente vietato è l'aggiunger nuove leggi alle divine che il toglier quelle che vi sono. Non addetis ad verbum quod vobis loquor, nec auferetis ex eo. Deuter. 4, 2. Oh volesse Dio e potessimo ottenere che i fedeli osservassero le leggi certe, senza obbligarli ad osservare tutte le leggi dubbie! La ruina si è che essi non osservano neppure le certe, e perciò si perdono. Ma parlando de' direttori delle coscienze, forse la loro santità e perfezione consiste nel tenere ed insegnare per certi tutti gli obblighi che sono dubbj? Ciò non è santitàperfezione, ma presunzione ed indiscrezione. S. Tomaso, commentando quel passo di S. Matteo, 23, 4: Alligant enim onera gravia etc., dice che l'aggiunger precetti nuovi è una notabil presunzione: Adjiciunt præceptis Dei gravissima onera; et ideo notatur præsumptio eorum qui alligant onera super onera. E S. Bernardo, spiegando quel testo dell'Ecclesiaste, 7, 17, Noli esse justus multum, scrive: Noli nimium justus esse, non quod justitia bona non sit, sed quia, dum adhuc infirmi sumus, oportet ipsa bona gratia temperari ne forte indiscretionis vitium incurramus. Serm. 4 in ps. Qui habitat. Lo stesso scrisse prima S. Gregorio nazianzeno: Ne magnopere justus sis. Hanc enim (regulam) defectus et excessus æque labefactant, non


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secus ac additio aliqua aut subtractio. Nemo igitur sit sapientior quam conveniat, nec lege exactior. Orat. 26.

 

Mi dice che dobbiamo lasciare i probabilisti e seguir le Scritture, i concilj, i canoni ed i santi Padri. Ottimo, supra caput. Ma, padre mio, volesse Dio che dalle sacre Scritture avessimo noi le decisioni di tutte le questioni morali! Chi può dubitare che quel che dicono le Scritture debba preferirsi alle sentenze di tutti gli autori? ma quando? quando le Scritture son chiare, non quando sono stiracchiate da taluni a volerle far dire ciò che non dicono. Lascio qui di notare molti passi delle Scritture che i contrarj ci oppongono per farci credere con quelle proibito l'uso delle opinioni probabili; ma tali testi dagl'interpreti, siccome ho notato in un altro mio libro, si spiegano tutti altrimenti da quel che essi vogliono intenderli. In quanto a' concilj, canoni e santi Padri, replico similmente, volesse Dio che trovassimo in essi risoluti tutti i dubbj che occorrono nella morale! I concilj ed i santi Padri ad altro hanno atteso che a decidere casi di coscienza. Eglino sono stati applicati a stabilire i dommi della fede; e quel poco che poi hanno insegnato circa i costumi, tutto ben si venera da noi e si osserva. Gli avversarj adducono molte autorità de' Padri


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per confutare l'uso lecito del probabilismo; ma a tutte quelle ben si risponde a dovere da' nostri autori, i quali anzi rapportano molte loro autorità in contrario; e Cristiano Lupo in un volume a parte della sua opera scrive che i santi Padri, come anche i sommi pontefici, hanno insegnato più opinioni probabili meno tute, ed in pratica si sono di esse avvaluti.

 

Del resto monsig. Abelly, parlando di coloro che esclamano per la morale doversi leggere solamente i santi Padri, dice ch'essi ben debbono leggersi, ma non soli, né leggersi per imparare solamente da loro tutta la scienza morale. Chi mai de' Padri (dice) ha scritti trattati di restituzione, di contratti di vendita, di censo, di mutuo, di società, di beneficj ecclesiastici, di simonia, di censure del digiuno e simili? Scrive un certo autore probabiliorista alla moda, il teologo di monsig. vescovo di Soissons, che nella morale dee seguirsi la regola delle divine Scritture, interpretate secondo l'unanime consenso de' Padri. Ma risponde monsig. di S. Ponts, anche vescovo della Francia, nella sua lettera ultimamente data alle stampe e diretta al nominato monsig. di Soissons, che ciò sarebbe ottimo, se potesse ottenersi; ma quanti, dice, saran coloro che avranno queste immense librerie, per ritrovare in


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ogni questione morale il consenso unanime de' Padri? Oltreché, quanto tempo si richiederebbe per appurare in ogni dubbio questo unanime consenso de' Padri sovra le Scritture!

 

In quanto a' sacri canoni, che altro mai da essi abbiamo, se non alcune determinazioni circa le censure, matrimonj, ordinazioni e cose simili? E tutti questi canoni ben da' probabilisti son riferiti e venerati. Ed in quanto alla controversia del probabile, io ho rapportati nella mia dissertazione più canoni che apertamente favoriscono la benigna sentenza. Ma dirà V.P. che i canoni assegnano già la regola generale a noi contraria, cioè che in dubiis tutior pars eligenda est. Ma circa questo punto prego la sua bontà a leggere quel che ho scritto nella dissertazione, e vedrà come si spiega da S. Antonino e da tanti altri autori la suddetta regola ed in qual caso ella corra. E quando mai non volesse in ciò altra risposta, io domando: che altro mai da tal regola può inferirsi, se non che, trovandoci ne' dubbj, dobbiam seguire l'opinione più tuta? E questo è certo, perché non è mai lecito operare senza la certezza morale in pratica dell'onestà dell'azione, secondo insegna l'Apostolo: Quod non est ex fide, peccatum est. Rom. 14, 23. Ma che osta poi la mentovata regola al


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nostro sistema, quando la coscienza per alcun principio certo riflesso è fuori di dubbio (come ho provato a lungo nella dissertazione, e come qui appresso in breve anche proverò), in modo che ella è moralmente certa del suo ben operare?

 

Mi scrive inoltre che la regola di attenersi alle opinioni più sicure rende più sicura la salute eterna. Ma prima di rispondere a quest'altro punto, vorrei da V.P. sapere se veramente crede che tutti coloro che vanno a confessarsi a' probabilioristi facciano vita più innocente e commettano meno peccati degli altri, con tanti obblighi di più che gli altri non hanno. Io per me non lo credo. Ora rispondo e dico che la rigida sentenza, quantunque (per sé parlando) sia più sicura, non è però la più sicura, (parlando comunemente) per la salvazione delle anime: poiché ella le espone a molto più gran pericolo di peccare e di dannarsi. Multa sunt (scrisse il p. Bancel domenicano) quæ tutius est facere, sed simul etiam tutius est non se credere obligatum ad ea facienda, nisi moraliter constet de tali obligatione. Tom. 5 brev. univ. theol. p. 11, tr. q. 5, a. 5. Lo stesso scrisse Silvestro: Licet sit tutius statim confiteri quam differre, non tamen est tutius tenere quod sic obligemur, secondo la sentenza che già tenea S. Bonaventura.


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E prima lo scrisse Gio. Gersone, dicendo: Doctores non debent esse faciles ad asserendum aliqua esse peccata mortalia ubi non sunt certissimi de re; nam per ejusmodi assertiones rigidas in rebus universis nequaquam eriguntur homines a luto peccatorum, sed in illud profundius, quia desperantius, demerguntur. De vita spirit., lect. 4.

 

Ma V.P., prevedendo già questa mia risposta su tal punto, soggiunge nella sua e dice che ancora i calvinisti dicono esser più sicuro il salvarsi nella loro setta, negando la necessità delle opere buone; e così voi altri dite esser più facile il salvarsi nel vostro sistema, negando la necessità di seguir le opinioni più tute. Obbligato all'onore che la P.S. mi fa di assimigliare la mia risposta ad una bestemmia di Calvino. Dimando: quest'opinione di Calvino è forse ella moralmente certa? Non solo non è certa, ma neppure è probabile, anzi è certamente falsa e contraria a quel ch'insegna la chiesa cattolica. E chi poi non sa che in materia di fede dobbiam sempre tenere le sentenze più tute? Che ha che fare dunque il tenere in materia di fede un'opinione certamente erronea col tenere in materia di costumi una sentenza moralmente certa?

 

Mi dice che oggidì il sistema de' probabilioristi si è ben chiarito e che questo al


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presente è comunemente abbracciato da' vescovi, confessori e letterati. Che un tal sistema sia oggidì ben chiarito, padre mio, vorrei credere a V.P., ma non posso, mentre apparisce tutto l'opposto; giacché, per quanto la sentenza rigida è stata dai moderni difesa e decantata, niente per lei si è provato di certo: anzi più presto si è fatta chiara la nostra contraria; poiché per quanto han faticato gli avversarj per confutarla, e specialmente per infermare il principio da me difeso, che la legge dubbia non può indurre un obbligo certo, si è veduto che niuna di tutte le loro opposizioni sussiste e persuade.

 

Ma perché (replica V.P.) vuol ella seguire questo suo sistema, quando oggi universalmente tutti i vescovi, letterati e confessori sieguono l'opposto? In quanto a' vescovi, con sua buona licenza, padre mio, non è vero che tutti universalmente seguitino la rigida sentenza: molti seguitano la benigna, e questo lo so per certa scienza. In quanto poi a' letterati, creda V.P. che molti si vantano probabilioristi, ma poi, se sono interrogati, non sanno neppure i termini né la sostanza del punto che si tratta; onde parlano a caso. E sappia V.P., e la prego in ciò a credermi perché lo so con certezza, che molti in leggere la mia dissertazione ed


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in intendere la forza del punto han mutato sentimento. Parlando poi de' confessori, tenga V.P. ancora per cosa certa che la maggior parte di essi, anzi la massima parte, non seguono la vostra sentenza. E sebbene alcuni dicono di tenerla, in pratica però usano il contrario e si spacciano probabilioristi solamente per non esser chiamati seguaci della morale lassa e rilassata, secondo la taccia che voi loro date.

 

Per altro dopo tanto vostro insultare ed esclamare contro il probabile, niente la Chiesa ha determinato contro la nostra sentenza. Vogliono alcuni che Benedetto XIV abbia favorito il probabiliorismo nella sua lettera enciclica fatta per istruzione del giubileo dell'anno santo per quelle parole che si leggono nella lettera italiana: Il buon confessore prenda quel partito che vedrà più assistito dalla ragione e dall'autorità; così ci spiegammo nella lettera circolare sopra le usure ec. Ma, padre mio, ed a quali pagliuzze si vanno afferrando i vostri consocj? Che mai posson ricavarne dalle riferite parole? Primieramente rispondo che la lettera latina che porta la data dello stesso giorno non dice così, ma dice: Libros consulant quorum doctrina solidior, ac deinde in eam descendant sententiam quam ratio suadet et firmat auctoritas; nec aliud sane docuimus


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in nostra encyclica super usuris etc. Sicché la lettera latina non dice che dee seguirsi il partito più assistito dalla ragione, ma che debbono consultarsi quei libri che sono di dottrina più solida, e poi s'abbracci quella sentenza che vien persuasa dalla ragione e fermata dall'autorità, viene a dire quella sentenza che dalla ragione e dall'autorità vien assistita, come sono e debbono essere tutte le opinioni che sono sodamente probabili. E dico che certamente dee più attendersi questa versione latina che l'italiana: primieramente perché l'italiana riguarda la sola Italia, ma la latina riguarda tutto il mondo cristiano. Inoltre, perché la latina più s'uniforma alla lettera fatta sovra le usure citata dal papa, dove si dicea: Plures scriptores examinent qui magis prædicantur; deinde eas partes suscipiant quas tum ratione, tum auctoritate confirmatas intelligent. Inoltre, ancorché dovesse attendersi l'italiana, ella non altro contiene che un semplice consiglio; e non si nega che il confessore (ordinariamente parlando) dee consigliare i suoi penitenti a seguire le opinioni più ragionevoli e più tute. Per ultimo, ancorché quello fosse precetto e non consiglio, altro non resterebbe riprovato che l'uso dell'opinione meno probabile, ma non già l'uso dell'egualmente probabile.


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Del resto prima, cioè dall'anno 1557, in cui il p. Medina spiegò più chiaramente il probabilismo e lo difese per molti anni appresso (alcuni mettono 100 in circa, altri 80: basta, almeno per 60, 70 anni) la sentenza benigna è stata comune tra tutti i teologi, come confessa lo stesso p. Concina; e se allora questa sentenza era comune, questa ancora era certamente la dottrina insegnata da' predicatori e da' confessori. Se dunque la Chiesa per tanti anni non condannò una tal sentenza (detestabile, a parer vostro, e perniciosa), dovrem dire che la Chiesa per tutto quel tempo, non resistendo a questo errore, l'approvò e così tenne ingannati i fedeli, secondo la regola d'Innocenzo papa: Error cui non resistitur, approbatur. In can. Error 3, dist. 83. vale a dire che la Chiesa non sempre condanna tutte le opinioni improbabili, ma molte le tollera; perché ciò corre per le opinioni particolari, ma non per quelle che importano, come questa, il regolamento universale delle coscienze per tutti i casi particolari. Ecclesia Dei (dice S. Agostino) multa tolerat, et tamen quæ sunt contra fidem sanctam vel bonam vitam nec approbat nec tacet. Epist. 119. Anzi, insegna l'Angelico che quando la Chiesa tollera qualche opinione la quale, se non fosse ragionevole, potrebbe esser di danno comune,


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allora presumesi che non solo la tollera ma anche l'approva; così parla appunto nel quodlib. 9, art. 15, dove, trattando della questione se sia lecito l'aver più prebende, risponde: Quod vergit in commune periculum non est ab Ecclesia sustinendum; sed Ecclesia sustinet ut aliqui habeant plures præbendas; ergo in hoc non est periculum peccati mortalis.

 

Inoltre V.P. mi scrive che dovrebbero i vescovi proibire gli autori probabilisti perché questi sono troppo lassi. Ma questa incumbenza, io dico, di proibire tai libri più presto che a' vescovi tocca a' sommi pontefici, i quali hanno il governo universale della Chiesa e son tenuti a rimuovere i fedeli da' pascoli velenosi. Mentre dunque vediamo che li lasciano correre per mano di tutti, dobbiam supporre che non sono vietabili e perniciosi, come da voi son tacciati. Ma giacché, padre mio, voi dite doversi proibire perché sono troppo lassi, perché non dite ancora che dovrebbero proibirsi insieme tutti gli autori che sono troppo rigidi? Mentre così quelli come questi possono apportare gran danno; anzi questi possono causare maggior ruina d'anime. Di ciò appunto si lamenta il mentovato di sovra monsig. di S. Ponts nella sua lettera, dicendo che oggidì tanto si esclama contro la morale rilassata e non si


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esclama più presto contro il rigorismo eccessivo: «La Chiesa (scrive nella pag. 61) ha avuta la consolazione di veder finire il regno del rilassamento della morale, ma ella ha avuto poi il rammarico di veder sottentrare in sua vece un rigorismo smoderato. Questo secondo errore è quello che in oggi è di moda». Ed in verità nel secolo passato molti probabilisti per desiderio (ma desiderio indiscreto ed ingiusto) di liberare le anime dalle colpe formali si sono troppo avanzati a chiamar probabili molte opinioni lasse, errando, non già nell'opinare, ma nel male opinare; voglio dire non già nell'approvare le opinioni probabili ma nel chiamar probabili quelle le quali erano lasse, ch'è appunto quel modo chiamato da Alessandro VII modus alienus ab evangelica simplicitate et summa luxuriantium ingeniorum licentia. E perciò la Chiesa ha proscritte più opinioni non perché erano stimate tuziori o probabiliori, ma perché eran chiamate falsamente probabili quando erano improbabili, come sono le proposizioni 27 e 40 dannate da Alessandro VII, e I, 3, 6, 35, 44 e 57 dannate da Innocenzo XI. Tutte queste furono dannate perché ivi diceasi: Probabile est etc. Con ragione dunque molte opinioni de' casisti sono state condannate, e molte, a mio parere, resterebbero a condannarsi; ma oggidì,


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come ben dice il suddetto prelato francese, è cessata questa rilassatezza di opinare; onde il medesimo soggiunge così: «Son cessati i maestri della morale rilassata, ma ad essi sono succeduti nuovi maestri, le massime de' quali sono molto più insoffribili, ponendo gli uomini nella disperazione. Altro esse far non potrebbero che introdurre la corruzione dei costumi. Il numero di coloro che scusano il lor cattivo costume con questo rigorismo che oggi regna e addosso alla morale, il numero (dico) di questi tali è molto maggiore del numero di coloro che han preteso di scusarsi coll'autorità della morale rilassata».

Mi scrive di più V.P. ch'io seguito questa mia sentenza, perché sono troppo appassionato per li padri gesuiti. È assai che non mi ha chiamato anche terziario de' gesuiti, secondo la frase che corre. Io porto in verità tutta la venerazione a questi padri, ma dico di non aver avuto mai la sorte di andare alle loro scuole o di stare in alcuno de' loro seminarj, sì ch'io dalla mia gioventù stessi pregiudicato per ritrovarmi imbevuto delle loro dottrine e specialmente di questa del probabilismo. Sappia V.P. ch'io nel fare gli studj ecclessiastici ebbi per miei direttori a principio maestri tutti seguaci della rigida sentenza; ed il primo libro di morale che


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mi posero in mano fu il Genetti, capo de' probabilioristi; e per molto tempo io fui acerrimo difensore del probabilismo. Ma poi, considerando le ragioni della sentenza contraria, e specialmente quella sulla quale ho fondata la mia dissertazione, cioè che la legge incerta non può indurre un'obbligazione certa, mutai sentimento. Ma non sarebbe una pazzia, s'io, dopo aver lasciato il mondo per salvarmi, volessi difendere una sentenza con iscrupolo di mia coscienza, perché? per far cosa grata a' gesuiti? V.P. mi chiama, per dir le sue parole, uomo dotto e pio, e poi vuol credere ciò, o almeno sospettarlo, secondo vedo da quel che mi scrive? Ella può osservare nella mia opera di morale in quante opinioni, dove la ragione non mi persuade, io mi allontano dalle sentenze tenute dagli autori gesuiti; e non solo da' gesuiti, ma ancora negli stessi termini tenute dagli autori d'altre religioni, teatini, domenicani, carmelitani, francescani e simili. Io venero i gesuiti e tutti i religiosi; ma in quanto alla morale seguito quel che mi detta la coscienza; e dove la ragione mi fa forza, poca specie mi fanno le autorità dei moralisti.

 

Finalmente V.P. mi vuole atterrire coll'ammonirmi a considerare se in punto di morte io non abbia da render conto a Dio


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di questo mio sistema del probabile. Ma prima di rispondere ella mi dica se tiene forse che tutti i probabilisti si sono dannati, ancorché abbiano scritto in buona coscienza? Ed ancorché fra essi vi sieno stati uomini di pietà singolare, di cui si sono scritte le vite? Ma perché V.P. li crede dannati? Perché forse tiene che ne' predetti naturali, anche per le conclusioni mediate e rimote da' primi principj, non diasi buona fedeignoranza invincibile? Ma quest'opinione, padre mio, è contraria a quel che insegna espressamente S. Tomaso con S. Agostino in più luoghi: Ignorantia quæ est omnino involuntaria non est peccatum. Et hoc est quod Augustinus dicit: Non tibi imputatur ad culpam, si invitus ignoras, sed si scire neglexeris. I, 2, q. 9, a. 8. Ed in altro luogo: Si vero ignorantia sit involuntaria; sive quia est invincibilis, sive quia est ejus quod quis scire non tenetur talis ignorantia omnino excusat a peccato. I, 2, q. 76, a. 3. Di più tale opinione certamente è stata condannata (benché indirettamente) dalla Chiesa nella propos. 2 di Bajo, che diceva: Tametsi detur ignorantia juris naturæ, hæc in statu naturæ lapsæ non excusat a peccato. Di più ella è riprovata comunemente da tutti, anche da' probabilioristi, e specialmente dal p. Gonet è chiamata improbabile. Aggiungo,


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se mai ella fosse vera, anche molti probabilioristi, da' quali (per essere uomini) sono scappate opinioni lasse, sarebbero dannati. Anche dal p. Concina io trovo approvate certe opinioni (e le tengo notate) che, secondo il suo sistema, erano per lui moralmente certe, ma in verità sono certamente lasse. Cosa che fa vedere che l'approvare opinioni lasse, non nasce dal sistema del probabile, ma dalla debolezza ed oscurità delle menti umane.

 

Ma torniamo al punto. Padre mio carissimo, in quanto al terrore che vuol mettermi, confesso ch'io non sono un santo, ma un povero peccatore, che veramente tremo del conto che ho da rendere a Dio per la mala corrispondenza fatta a tante sue misericordie; ma non già tremo per la sentenza che ho difesa. Sto sicuro e certo che per questa sentenza non mi danno né posso dannarmi, mentre la tengo per certa ed incontrastabile; e per tale la terrò fin tanto che V.P. o altri non mi facciate conoscere il contrario. Iddio condanna solo chi pecca formalmente per malizia o per ignoranza colpevole, ma non già chi opera con buona fede e certezza morale del suo ben operare. Insegna l'Angelico che le azioni umane, come si apprendono dalla coscienza per buone o male, così vengono giudicate da Dio. Actus humanus judicatur


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virtuosus vel vitiosus, secundum bonum apprehensum, et non secundum materiale objectum actus. Quodlib. lib. 3, art. 27. E lo conferma in altro luogo: Id quod est bonum, potest accipere rationem mali, vel id quod est malum, rationem boni propter apprehensionem. I, 2, q. 19, a. 5.

 

Posto ciò sappia V.P. ch'io, vedendo a giorni miei così contrastata da altri questa sentenza del probabile, che prima era comune, ho cercato più volte di esaminar la mia coscienza per vedere se forse m'ingannasse l'impegno di volerla sostenere, o pure la ripugnanza di ritrattarmi; ma ho riflettuto che no, mentre da una parte io non ho ripugnato di rivocarmi pubblicamente colle stampe in molte altre opinioni prima da me tenute; onde tanto meno ripugnerei di ritrattarmi ora circa la sentenza del probabile, ch'è un punto di molto maggior conseguenza che non erano quelle altre opinioni particolari da me ritrattate. Tanto più che la mia superbia, nel caso ch'io mi rivocassi dalla mia sentenza, vi troverebbe certamente più pascolo, mentre acquisterei con ciò facilmente il nome di santo da tutti i signori probabilioristi, e potrei anche sperare d'essere annoverato nel numero de' letterati alla moda. Dall'altra parte non ho mancato di diligenza per accertarmi della verità su questa controversia; giacché in più


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anni ho procurato di leggere tutti gli autori moderni della sentenza rigida, subito che mi sono capitati alle mani, esaminando tutte le loro ragioni ed opposizioni. Inoltre credo non aver mancato di raccomandarmi al Signore ed alla divina Madre su questo punto, con pregarli istantemente ad illuminarmi, se mai errassi. Ma, per quanto ho letto nei libri de' contrarj, niente mi ha convinto; anzi quelli mi han confermato nella mia sentenza, vedendo che, per quanto eglino si sono studiati a rispondere, niuna delle loro risposte regge e stringe. Io credo e penso che ognun altro creda esser egualmente male l'approvare le dottrine lasse che l'imporre a' fedeli obblighi da Dio non imposti, come fanno i moderni probabilioristi col condannare di colpa grave chi seguita le opinioni probabili meno tute e che non sono moralmente certe; rigore non mai conosciutopraticato nella Chiesa, come scrive il dottissimo Cristiano Lupo nel riferito suo volume del probabile.

 

Sicché, padre mio, io non temo né posso temere di dannarmi per questo capo di seguir la sentenza del probabile, mentre la tengo per certa. Temerei più giustamente di dannarmi, se contro il dettame di mia conscienza seguissi il rigido sistema de' moderni probabilioristi, che a' penitenti i quali vogliono seguire qualche opinione egualmente probabile


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e non appigliarsi alla più sicura, insegnano doversi negar l'assoluzione, anche dopo che quelli vi hanno acquistato certo dritto colla confessione già fatta de' loro peccati; che condannano alla restituzione coloro che hanno per sé un'opinione abbastanza probabile ed hanno all'incontro il certo jus del possesso sovra i loro beni; che a coloro che stanno in buona fede ed a cui l'ammonizione non è profutura non fan difficoltà di lor palesare la malizia dell'azione, facendo che le loro colpe, che prima erano solamente materiali, d'indi in poi diventino tutte formali. Ma così quelli non si dannano? E che importa? Lasciateli dannare: peggio per essi; (ma non dicea così il dottissimo cardinal Lambertini, e poi nostro pontefice, nelle sue notificazioni, Notif. 87, num. 24, dove riprende un parroco che, avendo saputo un occulto impedimento di alcuni conjugi, l'ammonì senza prima scriverne a Roma per la dispensa): che, per finirla, condannano di peccato mortale certo l'uso d'ogni opinione probabile che non è moralmente certa; cosa riprovata da tutti gli antichi teologi, i quali dicono che non dee condannarsi di colpa grave niun'azione, se quella non è certamente colpevole in pratica di peccato mortale. S. Raimondo dice: Non sis pronus judicare mortalia peccata ubi tibi non constat


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per certam Scripturam. Lib. 3 de pœnit. § 21. S. Antonino dice: Quæstio in qua agitur utrum sit peccatum mortale, nisi ad hoc habeatur auctoritas Scripturæ aut canonis Ecclesiæ vel evidens ratio, periculosissime determinatur. Part. 2, tit. I, cap. 11, § 28. E ne apporta la ragione: perché tal determinazione ædificaret ad gehennam, cioè metterebbe in pericolo di dannazione chi facesse quell'azione poi che non è certamente mala. Gabriele Biel, che scrisse nell'anno 1480, dice: Nihil debet damnari tamquam mortale peccatum de quo non habetur evidens ratio vel manifesta auctoritas Scripturæ. In 4, d. 16, q. 4, concl. 5. Gio. Gersone, come abbiam già veduto di sovra, dice: Theologi non debent esse faciles ad asserendum aliqua esse peccata mortalia, ubi non sunt certissimi de re. E lo stesso dicono Giovanni Nyder, il glossatore di S. Raimondo, Melchior Cano ed altri; ed anche S. Tomaso, come spiega S. Antonino ed io ho notato a lungo nella riferita mia dissertazione. Perciò similmente Benedetto XIV nella sua celebre opera de synodo, accresciuta da esso e cacciata fuori nel tempo del suo pontificato, ammonisce i vescovi a non condannare alcun'opinione difesa per probabile dagli autori.

 

Or come va poi che i moderni maestri


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della moral cristiana illaqueano le coscienze, condannando di certa colpa grave l'uso di tutte le opinioni probabili che non sono moralmente certe? Io per me non so capire come possa dirsi che tal sistema sia più sicuro per la salute eterna da chi l'insegna come necessario universalmente per tutti. Al certo che vi bisogna un bello spirito ed un animo ben grande ad usar senza scrupolo tal rigore co' poveri penitenti, come se dovessimo solo dar conto a Dio della troppa indulgenza e non anche della troppa rigidezza. E dove non giunge la stravagante rigidezza de' moderni probabilioristi! È comune la sentenza che al peccato mortale vi bisogna l'avvertenza attuale quando si opera, o almeno quando si mette la causa della malizia dell'azione, o pure del dubbio o sia sospetto di tal malizia, o almeno del pericolo di errare: altrimenti l'ignoranza è invincibile e scusa dal peccato. Ma taluni oggidì giungono a negare che si richieda quest'avvertenza; e dicono che basta a peccar mortalmente l'avvertenza interpretativa, cioè che la persona abbia potuto avvertire la malizia, benché affatto non ne abbia avuta né cognizionesospetto. Ma come poteva avvertirla, se neppure il sospetto glien'è venuto? Non importa; basta che avea la potenza naturale di avvertirla o dubitarne. Ma quale potenza? Potenza interpretativa


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o sia condizionata? Cioè se avesse pensato alla malizia dell'azione o ne avesse almeno dubitato? Ma quando niuna cognizione o dubbio gli è sorto nella mente, come poteva avvertire o dubitare? Dunque, secondo questi moderni maestri, taluno potrà ritrovarsi dannato con molti peccati mortali sopra, senza che n'abbia avuta mai né cognizionedubbioscrupolo. Bella dottrina! Ma i vescovi della Francia resistono a tal dottrina e la riprovano.

 

Io credo all'incontro aver dimostrato nella mia dissertazione con ragioni ben chiare esser lecito l'uso dell'opinione egualmente probabile. V.P. si avanza a dire che le mie ragioni saranno tutte sottigliezze, sofismi ed inezie. Viva mille anni: mi rallegro che ancor ella ha preso già lo stile de' probabilioristi alla moda, che ordinariamente, dove non possono ajutarsi colle ragioni, si ajutano a forza di esclamazioni e d'ingiurie, chiamandoci lassisti, deturpatori della moral cristiana e del Vangelo, prurientes auribus, hominibus placentes, consuentes pulvillos ad capiendas animas, linientes parietem absque temperatura. Ecco le solite frasi e canzoni degli odierni riformatori della morale. Ma con ciò niente avanzano, perché le ingiurie non han forza di persuadere; anzi fan credere che chi le dice parla per passione; e


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chi parla per passione difficilmente persuade gli altri a credere quel ch'esso dice. V.P. scrive che le mie ragioni saranno tutte sottigliezze, sofismi ed inezie. Ma mentre dice saranno è segno ch'ella non ha lettaveduta la mia dissertazione: onde, s'io sapeva che V.P. volea scrivermi su questo punto del probabile, l'avrei pregata a legger prima quel che ivi ho scritto, e poi a scrivermi; perché o non mi avrebbe scritto o forse mi avrebbe scritto in altro modo.

 

Io non nego, come ho detto di sovra, che molti probabilisti sono scappati in molte opinioni lasse. Non nego ancora ch'essi (per non essersi prima le cose abbastanza discusse), onde provare l'uso lecito dell'opinione probabile, si sono serviti di certi principj infermi. Per esempio, si valeano del principio: Qui probabiliter agit, prudenter agit. Ma questo principio è mal fondato, perché l'uomo non può operare appoggiandosi alla sola probabilità dell'opinione, poiché allora manca la certezza dell'onestà, ch'è necessaria per ben operare; onde chi opera così, non opera prudentemente, ma imprudentissimamente, perché opera col dubbio pratico dell'onestà dell'azione. L'altro principio era questo, cioè che, quando le opinioni sono ambedue probabili, l'uomo può allora sospendere il giudizio circa la


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opinione che sta per la legge e valersi della probabilità dell'opinione che sta per la libertà. Ma tal principio neppure è valido, perché similmente si oprerebbe col dubbio dell'onestà dell'azione, essendo quella sospensione mera volontaria. E perciò dico che appunto la tanta rilassatezza delle opinioni, nella quale sono incorsi alcuni probabilisti del secolo passato e l'insussistenza ancora di questi falsi principj da essi adottati han fatto che i probabilioristi inveissero con tanto calore e furore contro l'uso del probabile e trovassero tanti seguaci.

 

Ma altrimenti dee poi dirsi che quando la probabilità dell'opinione va accompagnata con una ragione certa o certo principio riflesso, rende in pratica l'azione certamente onesta, come noi diciamo e dee dire ognuno che ama la verità e parla senza passione; poiché allora la certezza del giudizio pratico non si fonda già sovra la sola probabilità dell'opinione, ma sul principio certo riflesso che lo concomita. E ciò non lo negano più autori anche della rigida sentenza, come il p. Gonet, il p. Wigandt e il p. Lorenzo Berti, cioè che col principio riflesso certo rendesi certamente lecita quell'azione che in sé sarebbe solo probabilmente lecita. Ciò si prova chiaramente dal cap. Dominus, de secund. nupt., ove dicesi esser lecito al conjuge


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che sta in dubbio dell'impedimento rendere il debito al conjuge che sta in buona fede: e perché? Perché l'altro conjuge possiede il jus di petere. Ecco il principio riflesso certo che rende certamente onesta la azione di rendere al conjuge che prima ne dubitava. Così anche S. Agostino nel can. Quid culpatur 4, 23, qu. I, dice che il soldato ben può militare nella guerra, benché dubbiamente giusta, quando il principe glielo comanda: e ciò per lo principio riflesso che il suddito dee ubbidire al suo principe, sempre che la guerra non è certamente ingiusta: Recte potest illo jubente bellare, si non esse contra Dei præceptum certum est, vel, utrum sit, certum non est. Così anche dice lo stesso Santo, in c. Si virgo 34, qu. I, che il possessore di buona fede può ritenersi la roba posseduta, ancorché stia in dubbio se quella è sua, col principio riflesso che il possesso gli il certo jus di ritenerla finché non gli consta che quella non è sua. Quindi scrive il p. Berti: Procul dubio potest ex reflexione mentis antea perplexæ fieri judicium practicum moraliter certum. Theol. to. 2, lib. 21, c. 13, prop. 3, vers. Patroni.

 

Ora il principio che la legge dubbia non obbliga (replico), io credo di averlo provato nella mia dissertazione, non con sofismi


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ed inezie, ma con ragioni evidenti e dottrine insegnate dagli stessi probabilioristi, e principalmente da S. Tomaso: il quale da una parte insegna che la legge fin tanto che non è promulgata non ha virtù d'obbligare. Promulgatio (accenno qui in breve la sostanza di quel che scrive l'Angelico) necessaria est ad hoc quod lex habeat virtutem obligandi. I, 2, q. 90, a. 4. Ma come la legge di natura si promulga all'uomo? Risponde lo stesso santo Dottore: si promulga quando attualmente vien manifestata alla mente umana col lume naturale: Promulgatio legis naturæ est ex hoc ipso quod Deus eam mentibus hominum inseruit naturaliter cognoscendam. I, 2, q. 9, a. 4 ad I. Il testo è chiaro, ma lo spiega in termini più espressi il dottissimo Silvio: Actualiter tunc (lex) unicuique promulgatur quando cognitionem a Deo accipit dictantem quid juxta rectam rationem sit amplectendum, quid fugiendum. In I, 2, q. 90, a. 4 in fin. Dall'altra parte insegna S. Tomaso che la legge, per obbligare, dee esser certa e manifestata per certa scienza: Mensura (sive lex) debet esse certissima. I, 2, q. 19, a. 4, object. 3. Ed altrove dice: Nullus ligatur per præceptum aliquod, nisi mediante scientia illius præcepti. Opusc. de verit., q. 17, a. 3. E la ragione è chiara: perché altrimenti quando


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all'uomo vien notificata una legge non certa ma dubbia, allora non gli viene sufficientemente intimata la legge, ma solo gli viene sufficientemente intimata la questione o sia il dubbio se vi è o no la legge. E come può dirsi e tenersi per legge il solo dubbio della legge? Onde ben disse Benedetto XIV in una delle sue notificazioni, essendo arcivescovo di Bologna: «Non si debbono imporre legami quando non v'è una chiara legge che gl'imponga. Notif. 13».

 

vale a dire che la legge eterna ha il possesso anteriore al possesso della nostra libertà, e che perciò nel dubbio egualmente probabile dee preferirsi l'opinione che sta per la legge; perché non è vero che il possesso della legge precede alla libertà dell'uomo, anzi è certo l'opposto, come insegna lo stesso Maestro angelico; il quale dice che quantunque l'uomo non sia stato eterno, egli nondimeno nella mente divina è stato considerato prima della legge, poiché da Dio (a nostro modo d'intendere) prima è stato conosciuto l'uomo e poi è stata ordinata la legge al governo dell'uomo: Sic igitur (son le parole del santo Dottore) æternus divinæ legis conceptus habet rationem legis æternæ, secundum quod a Deo ordinatur ad gubernationem rerum ab ipso præcognitarum. I, 2, q. 92, a. I ad I. Si notino le parole:


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ad gubernationem rerum præcognitarum. Sicché prioritate, non già temporis, perché in Dio non v'è successione di tempi né di cognizioni, poiché tutte le cose sempre gli sono state presenti ab æterno, ma prioritate rationis sive naturæ prima è stato da Dio contemplato l'uomo e poi la legge, siccome da ogni legislatore prima si considerano i sudditi e poi la legge che lor conviene imporre: ond'è che Iddio prima ha considerato l'uomo sciolto e poi legato dalle sue leggi. Posto ciò, dicono tutti i teologi, come il p. Gonet, il Silvio, il card. Gotti, il Tournely, il p. Lorenzo Berti, colla scorta già di S. Tomaso, che la legge divina, benché eterna, non è stata mai legge che obbligasse gli uomini, se non dopo ch'ella è stata loro promulgata ed intimata per mezzo della Chiesa o pure dello stesso lume di natura.

 

E perciò dice il medesimo Angelico in altro luogo, I, 2, q. 19, a. 10, che noi non siam tenuti a seguire la volontà materiale di Dio, che ci è ignota, ma solamente la volontà formale, cioè quella che ci è manifestata; e poi soggiunge: Sed in particulari nescimus quod Deus vult; et quantum ad hoc non tenemur conformare voluntatem nostram divinæ voluntati. Ibid. art. 10 ad I. E ciò prima lo scrisse S. Anselmo, dicendo: Non semper debemus velle quod Deus vult,


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sed quod Deus vult nos velle. Lib. de simil., cap. 19. Ma come sapremo le cose che Dio vuole che noi vogliamo? Lo spiega lo stesso S. Tomaso in altro luogo; le sapremo coll'esserci palesate per mezzo de' divini precetti: Etsi non teneatur homo velle quod Deus vult, semper tamen tenetur velle quod Deus vult nos velle, et homini præcipue innotescit per præcepta divina. 2, 2, q. 104, a. 4 ad 3. Lascio poi tutto l'altro che dicono in conferma di ciò i santi Padri, S. Gregorio nazianzeno, S. Gregorio magno, S. Basilio, S. Agostino, S. Leone, Lattanzio, S. Bernardo. Lascio quel che dicono i sacri canoni e gli altri autori anche della rigida sentenza; V.P. potrà leggerlo nella mia dissertazione. Ma parlando solamente di queste poche cose che qui ho accennate, le pajono queste forse sofismi ed inezie? No, padre mio, a me pajono chiarezze ed evidenze. Con tutto ciò io ho pregato poi in fine di detta mia dissertazione, e di nuovo prego i signori letterati (e questo lo dico non per vanità o cerimonia, ma veramente con tutto l'animo, per essere disingannato, se mai m'inganno) che, se alcuno potesse illuminarmi anche per lettera manoscritta e mi facesse conoscere la falsità della mia sentenza, io gliene conserverei obbligo perpetuo, e prometto che subito mi ritratterei con pubblica


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scrittura. Ed a questo fine ho fatta dispensar la mia dissertazione per tutta Napoli, per Roma e per Italia, non solo acciocché sia letta, ma acciocché ben anche mi sia risposto e mi sia fatto noto il mio pregiudizio, s'io sto pregiudicato. Ma se taluno poi volesse scrivermi e ritornare ad oppormi quelle stesse cose alle quali ho già risposto, potrà farne di meno, perché mi farebbe perdere il tempo, ed io non ho tempo da perdere. Finché dunque, padre mio, io non verrò altrimenti persuaso, non posso (come ho detto di sovra) ritrattarmi senza scrupolo di mia coscienza.

 

Sicché la sua lettera niente mi ha giovato; poiché V.P. non ha fatto altro che favorirmi di consigli e d'ammonizioni, ma non mi ha addotta alcuna ragione per persuadermi l'insussistenza del mio sistema. Prima ella dovea capacitarmi e poi consigliarmi. Ma giacché V.P. in fine della sua mi consiglia a riflettere, se forse io mi troverò reo avanti a Dio per aver voluto sostenere questa mia sentenza benigna, mi permetta che anch'io, prima di finir la mia, la preghi (giacché la P.S. amministra continuamente a tanti il sacramento della Penitenza) a considerare se forse dovrà ella render conto a Dio più stretto di me in aver seguita la sentenza rigida con illaqueare ed astringere le


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coscienze de' suoi penitenti a tener per certamente illecito ciò che non era tale: col che sarà stata causa di far commettere molti peccati formali, che avanti a Dio non eran tali, e con ciò d'aver causata la dannazione di molti. E che altro è quell'ædificare ad gehennam, come parla S. Antonino, se non l'aggravar le coscienze di peccato mortale dove non vi è il mortale o almeno il mortale non è certo? V.P. scrive a me che forse la passione o l'impegno m'inganna. Ed io scrivo a V.P.: ma perché la passione o l'impegno non può ingannare ancora voi altri signori in voler sostenere il vostro eccedente rigore, giacché così il partito troppo benigno come il partito troppo rigido è degno di castigo? quando per altro sento S. Gio. Grisostomo che dice (e l'approva S. Antonino): Nonne melius est propter misericordiam rationem reddere quam propter crudelitatem? Vis apparere sanctus? Circa vitam tuam esto austerus, circa alienam benignus. In can. Alligant 12, qu. 7. Or basta: io mi consolo che non ho da esser giudicato dagli uomini, ma da Gesù Cristo, che vede la mia coscienza e la mia buona intenzione. Resto con farle umilissima riverenza e mi protesto

S. Agata, 16 del 1764. Di V.P.

Divotiss. ed obbligatiss. servo

Alfonso Maria

Vescovo di S. Agata de' Goti.


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Ma prima di chiuder questa mia mi permetta ancor ch'io le trascriva una lettera poco fa scrittami da un buon letterato circa la mia dissertazione dell'uso lecito dell'opinione egualmente probabile. Tralascio di nominarlo e di descriverne le circostanze perché temo ch'egli forse non voglia esser nominato per non esser posto nel catalogo de' terziarj de' gesuiti; ma dico ch'è un teologo dotto e stimato in Napoli, il quale facilmente (per quel che so), prima di legger la mia dissertazione, era di contrario sentimento, ma dopo averla letta mi scrive così:

 

«Ho ricevuta una onoratissima di V.S. illustriss., per cui mi ha favoriti i due libriccini, uno dell'uso moderato dell'opinione probabile, l'altro sulla verità della fede. Questo secondo non ho avuto ancora tempo di leggerlo. Ho letto però il primo, e mi è piaciuto tanto che l'ho tornato a leggere. Si è così ben condotta V.S. illustriss. nella dimostrazione dell'argomento ch'io l'ho preferito a tutti gli altri libri che si raggirano su tal soggetto; ed io non saprei che più desiderarvi. I principj su de' quali ha fondata la sua sentenza sono incontrastabili ed ammessi da tutti e due i partiti, così de' probabilisti, come de' probabilioristi. Quando la legge non è certa non può certamente indurre obbligazione alcuna certa. Ed ella ha


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così ben dimostrato tal principio coll'autorità de' canoni, Padri e teologi di primo ordine che non v'ha cosa meglio dimostrata. Trattandosi dunque di due opinioni ugualmente probabili, io ancora entro nel suo sentimento, che possa lecitamente seguirsi quella che sta per la libertà, quantunque meno tuta. Son troppo belle le parole del p. Bancel, citato da V.S. illustriss. nella pag. 89: Multa sunt quæ tutius est facere, sed simul tutius est non se credere obligatum ad ea facienda, nisi moraliter constet de tali obligatione. Oh quanto poi son degne di esser notate le parole di S. Giangrisostomo, ancor da lei citato: Circa vitam tuam esto austerus, circa alienam benignus! Colla robustezza degli argomenti ho ammirata eziandio la chiarezza ammirabile che ha impiegata nello spiegarsi: cosa che tra tutte le altre dee lodarsi nel maneggio delle materie difficili. Io non cesso di ringraziarla di sì prezioso dono e de' lumi che ho ricevuti nella lettura del suo libro ec».




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