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S. Alfonso Maria de Liguori
Risposta apolog. sulla comunione (II)

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Risposta apologetica sulla materia della comunione frequente, contro D. Cipriano Aristasio

 


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Dopo essersi data alle stampe questa mia Istruzione e questa breve pratica sulla frequenza della comunione *, uscì fuori un libretto col nome finto di D. Cipriano Aristasio, dove l'autore tacciava più cose da me qui scritte. Io ritrovandomi in Roma per causa della mia promozione al vescovado, ivi stesso diedi fuori una breve risposta. Ma l'Aristasio replicò un altro libretto, al quale, non potendo io rispondere per le occupazioni del governo della mia chiesa, ha risposto molto fondatamente un compagno della mia congregazione con una lunga dissertazione già stampata, da cui confesso aver presa la maggior parte di questa breve risposta.

Di più cose, come ho detto, mi taccia il mentovato scrittore: ma la principal proposizione che mi contrasta è quella della comunione d'ogni otto giorni, ch'io ho detto potersi concedere a coloro che stanno in grazia ma tengono colpe veniali abituali. Io


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ho scritto così: “Per quelle persone poi che commettono ordinariamente peccati veniali deliberati, e non si vede in esse né emendadesiderio di emenda, sarà bene non permettere loro la comunione più d'una volta la settimana. Anzi può giovare il proibir loro anche in qualche settimana la comunione acciocché prendano maggior orrore a' loro difetti e maggior riverenza verso il sacramento.” Ecco la proposizione scandalosa che ha dato tanto fastidio al mio contraddittore e l'ha impegnato a scrivermi contro due volte con tanto calore. Egli sostiene che la comunione d'ogni otto giorni sia frequente e come tale non si debba concedere se non solamente a coloro che non hanno né peccato mortaleaffetto al peccato veniale, ed hanno un gran desiderio di comunicarsi: parole per altro scritte già prima da S. Francesco di Sales nella sua Filotea al capo 20 in fine, donde l'ha prese Aristasio, il quale dice che il p. maestro Avila è stato dello stesso sentimento. Circa il p. Avila vedremo appresso quel ch'egli ha scritto in altro luogo; ma vediamo prima come si ha da intendere l'autorità addotta di S. Francesco di Sales.

Prima però di rispondere a questa autorità è bene osservare quale sia stata la disciplina della Chiesa su questa materia per lo


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decorso di più secoli, e quale il sentimento de' santi Padri. Scrive Cassalio, de vet. sacr. christ. rit., c. 18, che per tutto il secolo VI l'uso de' cristiani era di comunicarsi ogni o quasi ogni giorno. Lo stesso scrive il cardinal Bona. Liturg. l. 2, c. 17, n. 2. E ciò ben si ricava da S. Agostino, ep. 54, alias 118 ad Januar., da S. Girolamo, ep. ad Lucin., e da S. Isidoro, de eccl. offic., cap. 18, de' quali appresso riferiremo le parole. Dello stesso costume antico ne rende certi il decreto della S.C., giugno del 1587, in cui si disse contro d'un vescovo il quale avea proibito a' suoi sudditi in generale il comunicarsi più spesso di tre volte la settimana: Quia omnes adstantes antiquis temporibus, peracta consecratione, Eucharistiam sumebant.

Di più S. Ilario, come si riferisce nel decreto di Graziano, can. 15 de cons., dist. 2, scrisse così: Si non sint tanta peccata ut excommunicetur, is non se debet a medicina corporis et sanguinis Domini separare; unde timendum est ne, diu abstractus a sanguine Christi, alienus remaneat a salute. Aristasio, appoggiato all'autorità di Arnaldo, fa due difficoltà su questo passo. La prima è che il passo non sia di S. Ilario, ma di S. Agostino; il quale, scrivendo a Gennaro, cap. 3, riferisce prima il sentimento di


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due dotti (senza nominarli), l'uno de' quali diceva: Eligendi sunt dies quibus purius homo vivit, quo ad tantum sacramentum dignius accedas. L'altro all'incontro dicea: Si tanta non sunt peccata ut excommunicandus homo judicetur, non se debet a quotidiana medicina dominici corporis separare. Senza quell'altra aggiunta: unde timendum est ne, diu abstractus a corpore Christi, alienus remaneat a salute. Le quali parole, dice Aristasio, non si trovano né in S. Agostino né in S. Isidoro né nel ven. Beda. S. Agostino poi niente finalmente decide, ma conclude dover ciascuno in ciò seguire quel che crede più conforme alla pietà: Faciat autem unusquisque quod secundum fidem suam pie credit esse faciendum.

Primieramente rispondiamo che quantunque nelle opere che al presente abbiamo di S. Ilario, non si trovano le parole di sovra riferite, nondimeno vi sono tali argomenti ed autorità di altri scrittori antichi che fondano una moral certezza che il testo sia veramente di S. Ilario. È noto già che più opere di questo Santo si sono disperse, come sono le omelie in Giobbe, il comento sulla epistola a Timoteo e più trattati sovra de' salmi. Facilmente dunque quel passo poteva esser in qualche opera di S. Ilario che a tempo di Graziano ancora si conservava. Si aggiunge


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poi che per più secoli questo passo da' dotti è stato sempre riconosciuto come di S. Ilario; e non solo già da Graziano, ma ancora da Ivone, da Rabano, Burcardo carnotese, Polibio e Reginone, glossatori de' canoni. Di più Antonio Democaro, Antonio Cunzio, Antonio Agostini e Pitteo, che faticarono nell'emendazione del decreto di Graziano fatta sotto Pio IV, S. Pio V e Gregorio XIII, niun di costoro tacciò questo passo come falsamente attribuito a S. Ilario. Tutto ciò ben fa una moral certezza che il testo sia veramente del Santo. È vero che il medesimo passo ritrovasi anche in S. Agostino; ma S. Agostino, come di sovra abbiamo veduto, non decide ivi la questione, ma solo riferisce le parole dell'altro dotto che diceva: Peccata si tanta non sunt etc. E chi dice che per quest'altro dotto non fosse inteso da S. Agostino S. Ilario?

Non è vero poi che S. Isidoro e il ven. Beda dicono lo stesso che dice S. Agostino; perché l'uno e l'altro decidono il punto secondo la sentenza di S. Ilario. S. Isidoro, l. eccl. or. offic., c. 18, edit. paris. an. 1650, dopo aver esortate le anime a comunicarsi ogni giorno con fede ed umiltà, scrive così: Cæterum, si peccata non sunt tam gravia quod judicetur homo excommunicandus, is non debet se separare a quotidiana


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medicina corporis Domini. E poi soggiunge: Unde timendum est ne dum quisque diu separatur a corpore Christi, remaneat alienus a salute, cum ipsemet dicat: Nisi manducaveritis etc. Beda poi non iscrive già quelle parole. Unde timendum est etc., ma ben egli decide la questione similmente, come la decide S. Isidoro, dicendo: Panem cœlestem spiritualiter manducate; peccata, etsi sint quotidiana, non sint mortifera. In epist. ad Corinth. cap. II. Di più abbiamo altri autori antichi i quali approvarono la stessa sentenza appoggiati già all'autorità di S. Ilario; così scrisse Eterio vescovo ussamense, apud Nat. Alex., sæc. VIII, c. I, art. 8, che visse nel secolo IX, colle medesime parole di sovra rapportate di S. Ilario: Cæterum, si non sint tanta peccata etc. Lo stesso scrisse Amalario mesense, in una sua lettera a Guntardo, dove, dopo aver detto: Præcipitur in canonibus (questi sono il can. 10 detto degli Apostoli e il can. 2 del concilio antiocheno) ut omnes qui ingrediuntur in Ecclesiam communicaverint, dicant causam: et, si rationabilis extiterit, indulgeatur illis; sin autem, excommunicentur. Egli riprova il sentimento di Gennadio, di comunicarsi nelle sole domeniche, dicendo esser bene che la persona si comunichi ogni giorno, sempre che sta in


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grazia di Dio, e quindi conclude: Fili, si te noscis peccatorem, fac paenitentiam et in spiritu contrito et humiliato suscipe illum. Lo stesso scrissero Rabano Mauro, de ist. cler., l. I, c. 31, Beato prete, bibl. PP. t. 13, edit. lugd., l. I, p. 372, ed Algero, il quale, lodando S. Ilario, scrive le medesime parole: Cæterum, si non sint tanta peccata etc. Unde timendum est etc. De sacr. corp. etc., l. I, c. 22.

L'altra difficoltà che fa Aristasio col suo Arnaldo sovra il passo di S. Ilario è circa la parola excommunicentur, dicendo che per tal voce non dee intendersi la scomunica, com'è a' nostri tempi, poiché ne' primi secoli vi erano due sorte di scomuniche, una con cui i peccatori ostinati si recideano dal corpo de' fedeli, l'altra con cui quelli che avean commesso peccato mortale, qualunque si fosse, anche occulto, eran separati dalla comunione de' fedeli, e per conseguenza era lor vietato il prender l'Eucaristia, alla quale non si ammettano se non dopo la pubblica penitenza. Si risponde primieramente esser certo presso tutti gli autori eruditi, come Morino, Petavio, Tomassino, Bellarmino, Estio, Cristiano Lupo ed altri, che il separare da' sacramenti i peccatori e il metterli alla pubblica penitenza non si usava per tutti i peccati, ma solo per alcuni gravissimi,


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com'erano l'idolatria, l'omicidio, l'adulterio ec. È questione poi se i delinquenti eran posti alla pubblica penitenza per tali delitti quando erano occulti. Natale Alessandro, il Giovenino e il Vitasse tengono che sì; ma più comunemente Cristiano Lupo, Estio, Bellarmino, Frassen, Sirmondo, Tournely, il card. Gotti ed altri molti tengono che ciò si usava solo per quei delitti di sovra mentovati, quando erano pubblici e scandalosi. E così anche tenne Petavio, ad heres. 59, tom. 2, pag. 248, ricavandolo da S. Cipriano, da S. Cesario, da S. Eligio e specialmente da S. Agostino in più luoghi. Ma diasi per vero che anticamente i cristiani eran privati dell'Eucaristia per tutte le specie di peccati; sempre però in quei tempi si è parlato de' peccati mortali, non già de' veniali, per li quali, come abbiam veduto, a niuno era in quei primi tempi proibita la comunione.

Questa dunque fu la disciplina della Chiesa di più secoli. Decadendo poi lo spirito ed allontanandosi i fedeli dalla comunione, fu imposto per precetto che la comunione si facesse da tutti, almeno in ogni settimana. Così scrive Pietro Comestore: In prima Ecclesia quotquot intererant consecrationi Eucharistiæ communicabant eidem. Postquam autem crevit numerus fidelium, nec omnes


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accedere ad Eucharistiam visum est, statutum est ut saltem diebus dominicis fideles communicarent. Serm. 16. Lo stesso scrisse l'autore de officiis, apud bibl. PP. tom. 10, c. 66, pag. 1198: Postquam autem Ecclesia numero augebatur, sed sanctitate minuebatur propter carnales, statutum est ut qui possent singulis dominicis communicarent. Ed in fatti ne' capitolari de' vescovi, confermati da Carlo Magno, si ordinò: Ut omnes per dies dominicos et festivitates præclaras sacra Eucharistia communicent, nisi quibus abstinere præceptum est. Capitular. l. 5, cap. 334. Si notino quelle ultime parole: nisi quibus abstinere præceptum est. Dimando: dove mai stava scritto il precetto di non comunicarsi a chi tenea l'affetto a colpe veniali? In altro luogo degli stessi capitolari, lib. 6, cap. 17, sta ciò ordinato più espressamente: Si fieri potest, omni die dominico communicent; nisi criminali (si noti) peccato et manifesto impediatur; puta aliter salvi esse non possunt. E notò Teodoro arcivescovo di Cantorbery, Spicil., tom. 9, cap. 12, che nella chiesa greca ciascuno dovea comunicarsi ogni otto giorni sotto pena di scomunica. Or se la comunione d'ogni otto giorni era in quei tempi di precetto a tutti, come ora può negarsi a chi la desidera per conservarsi in grazia


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di Dio? Dirà il mio ammonitore: ma allora anche vi bisognava il requisito di non aver affetto a' veniali. Non signore, perché (come di sovra si è veduto) solamente era vietato il comunicarsi a chi tenea l'affetto a' peccati mortali. In tutti i luoghi riferiti non si nomina affatto il peccato veniale. Abbiamo di più che Nicola papa, scrivendo a' Bulgari, disse che ben poteano essi comunicarsi nella quaresima tutti ogni giorno, colla condizione però (vediamo qual era questa condizione) si mens sine affectu peccandi sit, vel si hanc non de criminalibus peccatis conscientia impoenitens vel non reconciliata fortassis accuset. Resp. ad Bulg., cap. 9. Sicché bastava allora il non aver coscienza di colpe gravi e non aver affetto a quelle o pure l'averle confessate per potersi comunicare ogni giorno.

Indi dopo il secolo X giunse al tal segno la tepidezza de' fedeli (durata poi sino al secolo XVI) che pochi eran quelli che si comunicavano una volta l'anno, e più pochi quei che comunicavansi tre volte l'anno. Chi poi prendeva la comunione sei o sette volte nell'anno era stimato che ben la frequentasse. Solo a' monaci fu dato il precetto nella clement. Ne in agro, § 6 Sane, de statu monach., di comunicarsi una volta il mese. E perciò nella vita di S. Francesco di Sales, pag. 262, narrasi come cosa di


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gran pietà che il suo padre si comunicava ogni mese. E si narra come cosa poi di maraviglia che S. Francesco Borgia, essendo secolare, si comunicava ogni domenica; del che giunsero le genti a tacciarlo di troppa frequenza. Ma la gran freddezza di quei tempi miserabili non fa che la comunione d'ogni mese e d'ogni settimana possa già dirsi frequente, giacché, secondo l'antica disciplina della Chiesa, più presto dee chiamarsi rara che frequente.

Ma veniamo ora a dicifrare l'autorità di S. Francesco di Sales, oppostaci in principio con tanto fasto da Aristasio. Abbiamo già veduto di sovra che nel secolo V a tempo di S. Agostino era questione se dovea comunicarsi ogni giorno chi era esente da colpe gravi; altri lo negavano, altri l'affermavano, come S. Isidoro, il ven. Beda, Eterio, Amalario ed altri. Allora fu che Gennadio si pose in mezzo e scrisse quella sua sentenza, ascritta a S. Agostino: Quotidie Eucharistiæ communionem percipere nec laudo nec vitupero. Omnibus tamen dominicis communicandum suadeo et hortor, si tamen mens in affectu peccandi non sit; nam habentem adhuc voluntatem peccandi gravari magis dico Eucharistiæ perceptione quam purificari. De eccles. dogmat., in cap. Quotidie, 13 de consecr., dist. 2. Or questa sentenza è certo


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presso tutti che fu di Gennadio, non già di S. Agostino, come credé Graziano e come con Graziano credé ancora S. Francesco di Sales; onde poi scrisse che la comunione d'ogni otto giorni non dee concedersi se non a coloro che non hanno alcuna sorte di affezione al peccato mortale né al veniale. Introd., par. 2, cap. 20.

Sicché il Santo, tirato dall'autorità creduta di S. Agostino, ma in verità di Gennadio, che disse - si tamen mens in affectu peccandi non sit -, s'indusse a vietar la comunione d'ogni domenica a chi tiene affetto a qualche colpa veniale. Bisogna dunque vedere come in verità debbano intendersi le suddette parole di Gennadio; se dell'affetto al peccato mortale o al veniale. Arnaldo nel suo libro della frequente comunione dice che si dee intendere del veniale. Ma si è appurato che comunemente gli altri lo spiegano del mortale. Così la glossa nel citato can. Quotidie, la quale dice: Quærebatur utrum quotidie esset communicandum. Augustinus (la glossa seguita l'errore di Graziano in credere il testo di S. Agostino) non vult præcise respondere ad hoc, sed monet omnes omni die dominico communicare qui non sunt conscii peccati mortalis nec habent propositum peccandi. Sed quando dicitur quod mens est sine affectu peccandi? Credo


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quod quando proponit firmiter abstinere a quolibet peccato mortali. Così anche lo spiega S. Tomaso l'angelico in più luoghi: Non potest (homo) uniri Christo dum est in affectu peccandi mortaliter: et ideo, ut in libro de ecclesiasticis dogmatibus dicitur, si mens in actu (alias affectu) peccandi est, gravatur magis Eucharistiæ perceptione quam purificetur. 3 p., q. 79, art. 9. Ed in altro luogo similmente scrisse: Tertio modo dicitur aliquis indignus ex eo quod cum voluntate peccandi mortaliter accedit ad Eucharistiam; unde in lib. de eccl. dogm. dicitur: Si mens in affectu peccandi non sit. In I ad Cor. 2, lect. 7.

Ed appresso S. Tomaso così anche lo spiegano Onorato Tournely, de sacr. pænit., tom. 9, p. 297, Teofilo Raynaudo, Heter. sect. I, Pu. n. 13, S. Antonino, p. 3, tit. 14, c. 12, § 5, Frassen, Ugone di S. Vittore, tract. de anima, l. 3, c. 50. Lo stesso dicono Incmaro, Eterio, Albino, Flacco, Taulero, Granata ed altri con Domenico Soto, il quale scrive: Hoc testimonium (cioè di Gennadio) S. Thomas, Scotus et omnes intelligunt de affectu ad peccatum mortale. E poi ne apporta la ragione: Certissimum est intelligi de peccato mortali; nam affectus ad venialia non obstat effectui hujus sacramenti. Tom. I, in 4, disp. 11, q. 2,


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art. 3. E che Gennadio avesse certamente inteso di parlare de' soli mortali si scorge dall'intento ch'egli ebbe in quel suo libro di confutare alcuni eretici, i quali diceano non potersi dannare chi spesso comunicavasi, ancorché fosse scelleratissimo ed eretico. Si aggiunge che da quei tempi sino al secolo VIII non v'era l'uso di confessare i peccati veniali, come scrivono Natale Alessandro, hist. eccl., sec. 14, d. 15, § 25, e monsig. Milante, exerc. 10, in prop. 16 Alex. VIII, tom. 3, coll'autorità di Martene, Morino, Tomassino, Du-Hamel e Mabillone.

Ma anche ne' tempi in cui regnava la tepidezza da' maestri di spirito consigliavasi la comunione d'ogni domenica ad ognuno ch'era in istato di grazia. Giovanni Rusbrochio, Spec. ætern. sal., coll. 1352, c. II, a. 15, parlando de' fedeli imperfetti, dice che a coloro i quali non sono de magnis peccatis sibi conscii licebit eis, dominicis atque etiam aliis diebus, quando obtinere poterunt, ad sacramentum accedere. Il p. Salazar, teologo stimato anche da Arnaldo, dice che la comunione d'ogni otto giorni può consigliarsi omnibus etiam minimis omnium perfectis. E poi soggiunge: Cum dico omnes, intelligo eos qui in gratia Dei manent fugiuntque quoad fieri potest occasiones Dei mortali peccato offendendi. Lodovico


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Blosio presso Petavio, lib. 5, cap. 4, parlando della comunione frequente, scrive così: Nec perinde necessaria hîc est magna devotio sensibilis, sed satis fuerit nullius peccati mortalis sibi conscium esse et Deo velle placere. Non ergo ob id abstinere debetis quod vitiosos vos esse conspicitis; quinimo ob hoc ipsum tanto amplius ad hanc gratiam præparandum est. L. 4 de pænit., c. I. Il p. Suarez prima scrive: Raro alicui consulendum ut frequentius quam octavo die communicet: e poi dice appoggiato all'autorità di S. Bernardo: Non esse omittendam hujusmodi frequentiam propter sola peccata venialia; quia non est exiguus hujus sacramenti fructus, quod in magnis peccatis impedit consensum. Tom. 3, in 3 p. S. Th., q. 80, a. II, sect. 3. Il p. Granata, dopo aver detto convenire al peccatore

che si comunichi dopo che si è confessato anche di peccati gravi, acciocché (come dice) la vita ricevuta per un sacramento si conservi per l'altro, indi soggiunge: “E se tu mi dirai che sei peccatore, a questo ti rispondo che, non trovandoti in peccato mortale, per la stessa ragione che ti discosti dal sacramento, ti dovresti muovere alla frequenza; perché questo sacramento è perdono de' peccatori, nutrimento de' fiacchi e medicina degl'infermi.” Memor., par. I, tr. 3, c. 8.


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E nel capo 10 aggiunge: “Non solamente si intende l'uomo essere ajutato da questo sacramento quando va avanti, ma anche quando non torna addietro. Uno de' segni dello andare innanzi nella vita spirituale è incorrere in manco peccati. E non è men necessaria la medicina che ci preserva dall'infermità che quella che ci accresce la sanità; perciocché, come dice S. Ilario, se i peccati non sono mortali, non dee l'uomo astenersi dalla medicina del corpo del Signore.” Lo stesso scrisse Giovanni Taulero, serm. in dom. 7 post Trin., dicendo: “Fate dunque quel che vi consiglio e, sperando di non essere in peccato mortale..., in ogni domenica comunicate.” Lo stesso scrisse il ven. p. Avila in una lettera ad un predicatore, dove ben accorda la comunione d'ogni settimana alle persone maritate di poco spirito, e dice così: “Dee dunque V.R. predicar loro che satisfacciano all'obbligo che hanno, secondo lo stato dove si trovano, e che il tempo che da questo avanzerà loro lo spendano in qualche lor divozione, e che non faran poco a comunicarsi bene ogni otto giorni. Il ché però non sia detto per tutte, perché alcune lo potranno fare anche più spesso; ché (come ho detto) non si può dare di ciò regola generale.” Così sta nella lettera 3 della parte I. Il mio contraddittore


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ha scritte altrimenti le parole di questa lettera, trascrivendole dall'autore della vita del p. Avila; ma quel che di sopra abbiamo scritto si è appurato ritrovarsi uniforme in quattro edizioni, e specialmente nella spagnuola della riferita e propria lettera dell'Avila. E giova qui aggiungere l'avvertimento che egli scrisse, uniforme al sentimento di sovra riferito del p. Granata, dicendo in questa medesima lettera: “Ma dee avvertirsi che alcuni, quantunque non apparisca in essi il profitto, cavano però questo bene dalla comunione (e parla della comunione frequente ed anche quotidiana) che non tornano in dietro, ed in tanto conoscono per esperienza che, non frequentando tal sacramento, facilmente cadono in alcuni errori, ne' quali non incorrono quando lo frequentano. A questi tali dunque non disconviene una tal frequenza, poiché ne siegue loro almen questo bene, di non cadere in qualche disordine, per la virtù che ricevono dal comunicarsi frequentemente.”

Parlando poi de' tempi a noi prossimi, il p. Scaramelli nel suo Direttorio ascetico, tom. I, tratt. I, art. 10, cap. 6, (libro che, quantunque moderno, è stato ristampato più volte ed ha incontrato il gradimento comune de' dotti) scrive così: “Può e dee il direttore concedere la comunione


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ogni otto giorni a quelle anime che trova disposte all'assoluzione del sacramento della confessione.” E poi soggiunge: “Questo è sentimento comune de' padri spirituali, e presentemente par che sia la pratica di santa Chiesa.” Quest'ultima proposizione molto dispiace ad Aristasio: ond'egli nel secondo suo libretto lascia me e si volta a pigliarsela fortemente col povero p. Scaramelli. Ma non è solo quest'autore a consigliare la comunione a tutti quei che stanno senza colpe gravi. Il p. Martino Wigandt, dottore dell'università di Vienna, scrive ancora: Qui mortalia vitant, semel in hebdomada et interdum bis (nimirum occurrente singulari festo) communicare possunt. Tr. 12, exam. 4 de Euch., cas. 6, q. 9. Il Clericato, molto lodato da Benedetto XIV, questa regola: Nullus est cui menstrua communio consuli non possit. Pauci quibus communio hebdomadaria sit prohibenda. Paucissimi quibus quotidiana sit concedenda. Tomaso Stapletone inglese dottor di Lovanio, parlando della comunione d'ogni domenica, dice: “Tutta la prova che vi si ricerca consiste in non comunicare in peccato mortale, essendo l'uomo informato di fede e carità e di qualche riverenza dovuta al sacramento.” E soggiunge: “Quali cose son facili, se non si voglia che qui in sordibus est sordescat


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adhuc.” Orat. acad. pag. 328. Teofilo Raynaudo, Heterocl. Sp., sect. I, pu. 4, n. 27, dice che la comunione d'ogni domenica non dee negarsi ad alcuno, anzi deesi consigliare a tutti che non han coscienza di colpa grave. Il p.m. Francesco dell'Annunciazione scrive: “A tutti i cristiani che legittimamente si confessano può e dee il confessore permettere e consigliare che si comunichino ogni otto giorni. Si limita la regola in caso che il penitente si comunicasse senza attenzione alcuna al sacramento, senza pietà e senza desiderio di riformare la vita; ma questa gente per deviarsi da' sacramenti non aspetta proibizioni.” Regola I, pag. 664. Monsig. Cacciaguerra nel suo Trattato della frequente comunione, lib. I, cap. I, dice così: “Se fosse tanto il nostro mal abito che per quello incorressimo qualche peccato mortale, S. Agostino consiglia che per liberarcene dobbiamo sempre di nuovo comunicarci.” Ed in altro luogo, lib. 3, c. I e 2, impiega un capitolo intiero per far vedere “che non vi può essere abito tanto tristo e radicato che col frequentar la comunione non si sminuisca ed all'ultimo non si smorzi in tutto.” Lo stesso scrisse il m. Nicolò Turlot. Tesoro della dottr. crist., t. 2, p. 4, cap. 22. Lo stesso scrisse il p. Nicolò Rogiero de' PP. pii operarj. Primo indir., c. 3,


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§ I. Lo stesso scrisse il p. Fulgenzio Cuniliati, catech. ragion., pag. 63: “Quando dalla comunione non si raccolga che il frutto di non cadere in peccati mortali, non dee il direttore esser restio a concederla, essendo questa preservazione da' mortali uno de' frutti principali della medesima.” Ed indi adduce l'esempio d'un certo nobile che talmente era abituato in un grave peccato di senso che si credea disperato di emenda. Il confessore gli dimandò se ne' giorni di comunione era mai caduto; ed avendo quegli risposto che no, lo fe' comunicare ogni giorno per più settimane, e così lo vide affatto libero da quel vizio. Attesi dunque i sentimenti di tanti dotti moderni autori, pare molto ragionevole (checché ne strepiti il mio ammonitore) quel che dice il p. Scaramelli, cioè che il doversi concedere la comunione a tutti coloro che non han coscienza di colpa grave sia sentimento comune de' padri spirituali, e che presentemente questa par che sia la pratica della Chiesa.

Ma vediam qual sia la ragione principale per cui dice Aristasio che dee negarsi la comunione d'ogni settimana a chi sta senza colpa grave ma tiene affetto a colpe veniali. È certo che l'Eucaristia è un cibo che non solo è nutrimento per la perfezione ma è medicina ancora che ci libera dalle colpe


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leggiere e ci preserva dalle mortali, come insegna il concilio di Trento, sess. 13, c. 2. Ma dice Aristasio: il cibo a chi è indisposto fa più danno che utile. Ma a ciò risponde il dotto Pietro Collet, il continuatore di Tournely, de Euch. p. I, c. 8, concl. 3, e dice: “Non è la stessa condizione del cibo spirituale che quella del corporeo: questo, dovendo cambiarsi nella sostanza di chi lo mangia, richiede l'azione del vivente; ma il cibo celeste, cambiando egli in sé chi lo mangia, non richiede altro in lui fuori della vita spirituale.” Replica Aristasio e dice che quando l'anima tiene affetto a' peccati veniali la comunione non le giova, ma l'aggrava; ed in ciò si avvale delle parole di Gennadio riferite di sopra: Habentem adhuc voluntatem peccandi gravari magis quam purificari. Ma la risposta è chiara. Quel che scrive Gennadio, come di sovra abbiam dimostrato, senza dubbio s'intende de' peccati mortali, i quali certamente aggravano l'anima secondo il detto di S. Paolo: Judicium sibi manducat et bibit. Ma parlando de' peccati veniali S. Tomaso, 3. p., q. 79, a. 8, propone questo quesito: Utrum per veniale peccatum impediatur effectus hujus sacramenti. In tal dubbio prima, scrivendo nelle Sentenze, in 4, dist. 12, q. 2, a. I, disse che chi si comunica co' peccati veniali attuali


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cioè commessi nell'atto stesso della comunione, perde tutto il frutto del sacramento. Ma poi nella Somma nel luogo citato, q. 79, a. 8, si ritrattò e scrisse così: Peccata venialia dupliciter accipi possunt: uno modo prout sunt præterita, alio modo prout sunt actu exercita. Primo quidem modo peccata venialia nullo modo impediunt effectum hujus sacramenti etc. Secondo autem modo peccata venialia non ex toto impediunt effectum, sed in parte. Lo stesso scrisse poi Natale Alessandro, Theol. dogm. etc., l. 2, c. 3, prop. 8, t. I, p. 2, e ne apporta questa ragione: “Avendo l'Eucaristia la virtù di perdonare i peccati veniali, non essendo questi opposti all'abito di carità, non possono impedire ogni effetto del sacramento, cioè l'accrescimento della grazia e della carità. Quindi il concilio di Trento ad intendere che chi non ha coscienza di colpa grave è già apparecchiato per quanto è necessario a degnamente comunicare: Illos sacramentaliter simul et spiritualiter Eucharistiam sumere qui ita se prius probant et instruunt ut vestem nuptialem induti ad divinam hanc mensam accedant. Sess. 13, cap. 8. Chiunque poi è libero da peccato mortale già è vestito della veste nuziale: perlocché ben gli è salutare il mangiare il corpo del Signore, ancorché sia aggravato da peccati


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veniali.” Sin qui Natale Alessandro. Lo stesso scrisse il p. Gonet, Manual., de Euch., c. 9, q. 3, il quale dice che i peccati veniali attuali non impediscono il frutto principale del sacramento, cioè l'aumento della grazia, e poi soggiunge: Unde Tridentinum ad digne et fructuose recipiendum hoc sacramentum non aliam necessariam dispositionem exigit quam ut (homo) peccati mortalis non sit conscius. Lo stesso scrisse Onorato Tournely, de Euch. q. 7, art. 3, concl. 4, Pietro Collet suo continuatore, de Euch. part. I, c. 8, concl. 3, e Silvio, in 4 p., q. 79, art. 8, con Estio, Petavio, Sisto senese, Habert, Petrocorese, Soto, Giovenino, Genetto, Wigandt, Concina ec. Posto ciò diciamo: se dunque tutti questi celebri autori col Maestro angelico insegnano che ancora co' peccati veniali commessi anche nell'atto della comunione non si perde l'aumento della grazia e della carità, come mai può dirsi che la comunione per chi si comunica coll'affetto a' veniali resti non solo senza frutto, ma questi anche aggravato di coscienza? Io per me non saprei come senza scrupolo possa un confessore ad un'anima debole che vuol conservarsi nella divina grazia proibire di comunicarsi ogni otto giorni e privarla di questo grande ajuto a preservarsi dalle colpe gravi.


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Dico la verità: io non finisco di maravigliarmi in vedere che tanti autori di non ignobile nome oggidì consigliano la comunione d'ogni settimana alle anime deboli che vogliono mantenersi in grazia di Dio, bastando ad essi autori che quelle stiano senza coscienza di colpa grave; e il signor Aristasio poi abbia voluto impiegar tanta fatica e tanta spesa, perché? per farle restar private di tale ajuto. Vedete che impegno! Ma dirà egli: che necessità vi è di dare la comunione a queste persone imperfette ogni settimana? Basterà dargliela ogni mese. Non signore, dico io, non basterà: molti, comunicandosi ogni otto giorni, staran liberi da' peccati mortali, e non già, comunicandosi ogni mese. Ma passiamo avanti.

Il mio ammonitore inoltre se la prende con me per aver io (come dice) presa la difesa di quei confessori che con tanta liberalità accordano la comunione frequente alle persone maritate. Egli all'incontro, avvalendosi dell'autorità del p. Giovanni Avila e del p. Domenico Soto, par che troppo acerbamente voglia privare d'ogni speranza le povere maritate di comunicarsi più spesso d'ogni mese o al più d'ogni settimana. Due sono le ragioni da lui prodotte: la prima è per causa del commercio maritale, che impedisce l'orazione e per conseguenza anche la


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frequente comunione. A questa prima ragione non voglio rispondere io; risponda per me S. Francesco di Sales, Introduz. part. I, c. 20, che dice: “A Dio non piaceva nell'antica legge che i creditori volessero esigere ne' giorni di festa ciò ch'era lor dovuto, ma non vietò mai che i debitori pagassero il lor debito a coloro che lo dimandano. Ella è cosa indecente sollecitare il pagamento del debito matrimoniale nel giorno della comunione; ma non è male, anzi è cosa meritoria il pagarlo. Quindi è che per rendere questo debito non dee alcuno esser privato della comunione, se per altro la sua divozione lo spinge a desiderarla. Certo è che nella primitiva Chiesa i cristiani si comunicavano ogni giorno, ancorché fossero maritati. Per questo v'ho detto che la frequente comunione non reca incomodità alcuna né a' padri né alle mogli né a' mariti, purché l'anima che si comunica sia prudente e discreta.” Lib. 2, lett. 56. Abbiamo ancora S. Gregorio, il quale scrisse, ep. 64, ind. 4., alias ep. 3, ind. 7: Si quis sua conjuge tantum procreandorum liberorum gratia utitur, ille profecto, de sumendo corporis Dominici mysterio, suo est judicio relinquendus; quia prohiberi a nobis non debet accipere etc.


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Il p. Lorenzo Berti, aderendo al sentimento del Sales, Theol. tom. 3, lib. 33, c. 17, n. 2, scrive su questo punto: “A me piace molto la regola di S. Francesco di Sales ec., poiché dice s. Agostino (in Psal. 149): Iddio ti metterà a conto di santificazione, se non esigi ciò che ti si dee, ma rendi ciò che dêi a tua moglie.” Lo stesso scrive il p. Francesco dell'Annunciazione, Difesa della virtù, c. 34, § 2, il quale dice così: “Il marito le fa rendere il debito; abbiamo forse da comandarle che non si comunichi? No certamente. Il p. Concina, de Euch., c. II, q. 9, n. 21, rapportando quel che dice S. Tomaso, 3 p., q. 8, a. 7, ad 2, soggiunge così: “Tre cose si raccolgono dalla dottrina di S. Tomaso e de' Padri: 1.o che si astengano dalla comunione quei che nella notte usano il matrimonio; 2.o quegli che solo rende il debito può senza colpa comunicarsi, come anche se lo domanda per generare; 3.o che la moglie per causa della comunione non è scusata dal rendere.” E lo stesso scrissero Estio, in I Cor. 7, v. 5, Francesco Silvio, 3 p., q. 8, art. 7, il Petrocorese, de Euch., c. 7, q. 8, Giacomo Pignatelli, cons. 94, n. 57, ed altri.

Aristasio, per la sua opinione di non doversi concedere la comunione alle maritate più d'una volta la settimana, si avvale della


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autorità del p. Avila nella sua lettera terza della prima parte, dove legge così: “E non faran poco, se riceveranno bene il Signore ogni otto giorni. E questo nemmeno conviene a tutte, ma ad alcune più particolari; perché, come ho detto, non si può dare una regola per tutti.” Ma, siccome di sopra abbiam notato, Aristasio ha trascritte queste parole dell'Avila dall'autore della vita del medesimo, che le riferisce; ma all'incontro in quattro edizioni delle lettere del p. Avila, e specialmente nell'edizione spagnuola, si trova altrimenti scritto, cioè così: “E che non faran poco a comunicarsi bene ogni otto giorni. Il che però non sia detto per tutte; perché alcune lo potranno fare anche più spesso; ché (come ho detto) non si può dare di ciò regola generale.” Sicché neppur il p. maestro Avila nega alle maritate più divote la comunione più frequente di quella d'ogni settimana.

L'altra ragione poi di non concedere la comunione alle maritate, il mio contraddittore la prende da Domenico Soto, ed è per causa che le maritate non possono far di meno di imbarazzarsi nelle cure domestiche e negli affetti dei loro cuori divisi. Così dice il Soto: ma sentiamo ancora quel che dicono gli altri. Il p. Concina dice che le occupazioni della società umana, sempreché


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si esercitano per fine retto, non solo non impediscono, ma anche possono esser apparecchio alla comunione: Ipsa negotia, occupationes, ministeria honesta et humanæ societati utilia, si ob finem rectum peraguntur, locum meditationis et præparationis ad Eucharistiam habere possunt. Lib. 3 de Euch., diss. I. Monsignor Cacciaguerra riprende coloro che scusansi dal comunicarsi più spesso per causa delle cure domestiche, e dice: “Se frequentassero la comunione, meglio farebbero le loro faccende e sopporterebbero meglio le tentazioni di quei di casa e quelle fatiche che lor bisogna sostenere: avrebbero in più riverenza i maggiori e comporterebbero più pazientemente chi serve. Lib. 3, cap. 6.” E ciò lo prese questo autore da quel che scrisse S. Giovan Grisostomo. Orat. de non contemn. eccl., tom. 5.

Ma dirà che il comunicarsi spesso delle mogli porta disturbo a' mariti e impedisce il buon governo della famiglia. Si risponde che quando ciò fosse, deesi vietare la comunione frequente alle maritate. Ma quando tal disturbo e disordine non vi fosse, perché si ha da impedire loro il comunicarsi spesso? Udiamo che altro dice S. Francesco di Sales su questo punto: “Se voi siete ben prudente, non vi è madre, padre o marito che possa impedirvi di comunicarvi spesso; purché


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nel giorno della vostra comunione non rifiutiate di far tutto quello che sarà di obbligo. Che se vi dicesse alcuno che i tanti affari vi distraggono lo spirito, dite loro che quelli i quali non han molti negozj debbono spesso comunicarsi perché ne hanno la comodità, e quelli che han molti affari perché ne hanno il bisogno. Introduz., cap. 21.

Del resto, o le persone sieno maritate o non maritate, è certa ed universalmente ricevuta la regola assegnata nel decreto della S.C., approvato da Innocenzo XI, che l'accostarsi più o men spesso all'altare dee in tutto rimettersi al giudizio del confessore, che in ciò dirigerà i suoi penitenti secondo il maggior profitto che vedrà ricavarsi coll'esperienza: Frequens ad sacram alimoniam percipiendam accessus confessariorum judicio est relinquendus; qui ex conscientiæ puritate et frequentiæ fructu et ad pietatem processu laicis negotiatoribus et conjugatis, quod prospicient eorum saluti profuturum, id illis præscribere debebunt. E questa è la regola, prima scritta nella sua lettera 60 dal p. Avila: “Il vero segno di ben comunicarsi è il profitto dell'anima: e se questo vi è, sarà bene frequentarla; posto che non v'è, non farla sì spesso.”

 




* Intende dell'Istruzione e pratica pei confessori, della ristampa di Napoli del 1765, dove a pag. 199 e seg. del tomo III sta inserita la citata operetta.




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