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S. Alfonso Maria de Liguori
Selva di materie predicabili

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PARTE SECONDA - DELLE ISTRUZIONI

 

ISTRUZ. I. Circa la celebrazione della messa.

 

Omnis... pontifex ex hominibus assumptus, pro hominibus constituitur in iis quae sunt ad Deum, ut offerat dona et sacrificia pro peccatis2. A questo fine dunque è posto da Dio il sacerdote nella chiesa, per offerir sacrificj: e quest'officio è proprio de' sacerdoti della legge di grazia, a' quali è data la potestà di offerire il sommo sacrificio del corpo e sangue dello stesso figlio di Dio; sacrificio sommo e perfetto, a differenza degli antichi, i quali non aveano altra perfezione che l'esser ombra e figura del nostro sacrificio. Quelli erano di vitelli e d'irci, ma il nostro è del Verbo eterno fatt'uomo; e quelli non aveano alcuna possanza da se stessi, onde l'apostolo li chiama infirma et egena elementa3; ma il nostro ha forza di ottenere la remissione delle pene temporali de' peccati; ed anche, almeno mediatamente, l'aumento della grazia e gli aiuti più abbondanti a coloro per cui viene offerto. Non dirà mai la messa come dee chi non ha concetto della grande azione ch'è la messa. Gesù Cristo in terra non fece azione più grande di questa. La messa in somma è l'azione più santa e più cara a Dio che possa farsi, così per cagione dell'offerta, ch'è di Gesù Cristo, vittima d'infinità dignità, come per ragione del primo offerente, ch'è Gesù Cristo medesimo, il quale offerisce se stesso per mano de' sacerdoti: Idem nunc offerens sacerdotum ministerio qui seipsum tunc in cruce obtulit4. E s. Gio. Grisostomo disse: Cum videris sacerdotem offerentem, non sacerdotem esse putes, sed manum Dei invisibilem extensam5.

 

Tutti gli onori che han dati giammai a Dio gli angeli coi loro ossequj e gli uomini colle loro virtù, penitenze, martirj, ed altre opere sante, non han potuto esser di tanta gloria di Dio quanto gli è una sola messa: poiché tutti gli onori delle creature sono onori finiti, ma l'onore che si a Dio nel sacrificio dell'altare, perché vien dato da una persona divina, è onore infinito. Sicché bisogna confessare che la messa è l'opera fra tutte, come dice il sacro concilio di Trento, la più santa e la più divina: Necessario fatemur nullum aliud opus adeo sanctum ac divinum a Christi fidelibus tractari posse quam hoc tremendum mysterium6. Ella dunque è l'opera la più santa e la più cara a


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Dio, come abbiam veduto; l'opera che maggiormente placa l'ira divina contro de' peccatori, che più abbatte le forze dell'inferno, che reca maggior bene agli uomini viventi, che apporta maggior suffragio alle anime del purgatorio; questa finalmente è l'opera in cui consiste tutta la salute del mondo, come scrisse s. Udone abate di Clugnì: Hoc beneficium maius est inter omnia bona quae hominibus concessa sunt; et hoc est quod Deus maiori caritate mortalibus indulsit: quia in hoc mysterio salus mundi tota consistit1. E Timoteo gerosolimitano parlando della messa disse che per la messa vien conservata la terra: Per quam terrarum orbis consistit2. Altrimenti per li peccati degli uomini la terra a quest'ora da gran tempo sarebbe subbissata.

 

Dice s. Bonaventura che il Signore in ogni messa non fa minor beneficio al mondo di quello che fece allora che s'incarnò: Non minus videtur facere Deus in hoc quod quotidie dignatur descendere super altare quam cum naturam humani generis assumpsit3. E ciò è secondo la celebre sentenza di s. Agostino che scrisse: O veneranda sacerdotum dignitas, in quorum manibus, velut in utero Virginis, Filius Dei incarnatur4. Inoltre, non essendo altro il sacrificio dell'altare che l'applicazione e la rinnovazione del gran sacrificio della croce, insegna s. Tommaso che una messa apporta agli uomini lo stesso bene e salute che apportò il sacrificio della croce: In qualibet missa invenitur omnis fructus quem Christus operatus est in cruce. Quidquid est effectus dominicae passionis, est effectus huius sacrificii5. E lo stesso scrisse il Grisostomo: Tantum valet celebratio missae, quantum valet mors Christi in cruce6. E di ciò maggiormente ce ne accerta la s. chiesa dicendo: Quoties huius hostiae commemoratio recolitur, toties opus nostrae redemptionis exercetur7. Poiché lo stesso Redentore che si offerì per noi sulla croce, si sacrifica sull'altare per mezzo de' sacerdoti: Una enim eademque est hostia, idem nunc offerens sacerdotis ministerio, qui seipsum in cruce obtulit, sola ratione offerendi diversa8.

 

In somma la messa, secondo che disse il profeta, è il più buono e il più bello della chiesa: Quid enim bonum eius est et quid pulchrum eius, nisi frumentum electorum et vinum germinans virgines9? Nella messa donasi a noi Gesù Cristo per mezzo del ss. Sacramento dell'altare, ch'è il fine e lo scopo di tutti gli altri sacramenti. Sacramenta in eucharistia consummantur, insegnò l'angelico. Giustamente dunque s. Bonaventura chiama la messa il compendio di tutto l'amor divino e di tutti i beneficj dispensati agli uomini: Et ideo hoc est memoriale totius dilectionis suae et quasi compendium quoddam omnium beneficiorum suorum10. E perciò il demonio ha procurato sempre di togliere dal mondo la messa per mezzo degli eretici, costituendoli precursori dell'anticristo, il quale prima d'ogni altra cosa procurerà di abolire, ed in fatti abolirà, in pena de' peccati degli uomini, il s. sacrificio dell'altare, secondo predisse Daniele: Robur autem datum est ei contra iuge sacrificium propter peccata11.


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Con somma ragione pertanto richiede il sacro concilio di Trento che i sacerdoti pongano tutta la cura a dir la messa colla maggior divozione e purità di coscienza che sia possibile: Satis apparet omnem operam et diligentiam in eo ponendam esse ut quanta maxima fieri potest interiori cordis munditia (hoc mysterium) peragatur1. E con ragione ivi stesso avverte il concilio che appunto a' sacerdoti che trascuratamente e senza divozione celebrano questo gran sacrificio si appartiene la maledizione minacciata da Geremia: Maledictus homo qui facit opus Dei negligenter2. E dice s. Bonaventura che indegnamente celebra o si comunica chi s'accosta all'altare con poca riverenza e considerazione: Cave ne nimis tepidus accedas; quia indigne sumis, si non accedis reverenter et considerate3. Per evitare dunque una tal maledizione vediamo che ha da fare il sacerdote prima di celebrare, che ha da fare nel celebrare, e che dopo di aver celebrato. Prima di celebrare gli è necessario l'apparecchio, nel celebrare è necessaria la riverenza e la divozione, dopo aver celebrato è necessario il ringraziamento. Diceva un servo di Dio che la vita del sacerdote non dovrebbe esser altro che apparecchio e ringraziamento alla messa.

 

In primo luogo dunque il sacerdote dee far l'apparecchio prima di celebrare. E prima di venire alla pratica, io dimando: come mai va che vi sono tanti sacerdoti nel mondo e tanto pochi sacerdoti santi? S. Francesco di Sales chiamava la messa il mistero che comprende tutto l'abisso del divino amore4. Inoltre s. Gio. Grisostomo dicea che il ss. sacramento dell'altare è il tesoro di tutta la divina benignità: Dicendo eucharistiam, omnem benignitatis Dei thesaurum aperio. Non v'ha dubbio che la santa eucaristia è instituita per tutti i fedeli; ma ella è un dono fatto specialmente a' sacerdoti: Nolite, dice il Signore parlando ai sacerdoti, dare sanctum canibus, neque ponatis margaritas vestras ante porcos5. Si notino le parole margaritas vestras: col nome di margarite in greco son chiamate le particole consecrate; or queste margarite son chiamate come cosa propria de' sacerdoti, margaritas vestras. Posto ciò, secondo che parla il Grisostomo, ogni sacerdote dovrebbe partirsi dall'altare tutto infiammato d'amor divino, sicché mettesse terrore all'inferno: Tamquam leones igitur ignem spirantes ab illa mensa recedamus, facti diabolo terribiles6. Ma ciò poi non si vede: si vede che la maggior parte escono dall'altare sempre più tepidi, più impazienti, superbi, gelosi e più attaccati alla stima propria, all'interesse, a' piaceri terreni. Defectus non in cibo est, sed in sumente, dice il cardinal Bona. Il difetto non nasce dal cibo che prendono sull'altare, perché un tal cibo una sola volta preso, come dicea s. Maria Maddalena de' Pazzi, basterebbe a renderli santi; ma nasce dal poco apparecchiarsi che fanno per celebrare la messa. L'apparecchio altro è rimoto, altro prossimo. Il rimoto è la vita pura e virtuosa che dee fare il sacerdote per degnamente celebrare. Se Iddio richiedea la purità da' sacerdoti antichi solo perché doveano portare i vasi sacri: Mundamini qui


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fertis vasa Domini1; quanto più dee esser puro e santo il sacerdote che dee portar nelle mani e nel corpo il Verbo incarnato! Quanto mundiores esse oportet qui in manibus et in corpore portant Christum2! Ma per esser puro e santo il sacerdote, non basta che sia libero solamente da' peccati mortali, bisogna che sia esente anche da' veniali (s'intende da' veniali pienamente deliberati); altrimenti Gesù Cristo non l'ammetterà ad aver parte con esso. Dice s. Bernardo: Nemo quae videntur modica contemnat; quoniam, sicut audivit Petrus, nisi laverit ea Christus, non habebimus partem cum eo. Bisogna dunque che tutte le azioni e le parole del sacerdote che vuol dir messa sieno così sante che possano esser disposizione per ben celebrare.

 

Per l'apparecchio prossimo poi è necessaria primieramente l'orazione mentale. Che messa divota vuol dire quel sacerdote che celebra senza aver fatta prima la meditazione? Il p.m. Avila dicea che il sacerdote dee premettere alla messa almeno un'ora e mezzo d'orazione mentale. Mi contenterei di mezz'ora, e per alcuni anche d'un quarto; ma un quarto è troppo poco. Vi sono tanti bei libri di meditazioni per l'apparecchio alla messa: ma chi lo fa? E perciò si vedono poi celebrare tante messe indivote e sconcertate. La messa è una rappresentazione della passione di Gesù Cristo: onde giustamente disse il papa Alessandro I. che nel sacrificio della messa dee sempre farsi memoria della passione del Signore: Inter missarum solemnia semper passio Domini miscenda est, ut eius, cuius et corpus et sanguis conficitur, passio celebretur3. E prima lo prescrisse l'apostolo: Quotiescumque... manducabitis panem hunc et calicem bibetis, mortem Domini annuntiabitis4. Dice s. Tomaso che il Redentore ha istituito il ss. sacramento acciocché in noi fosse sempre viva la memoria dell'amore che ci dimostrò e del gran beneficio che ci ottenne col sacrificarsi sulla croce. Or se tutti debbon ricordarsi continuamente della passione di Gesù Cristo, quanto più il sacerdote, allorché va a rinnovare lo stesso sacrifizio, benché in diverso modo, sull'altare?

 

Inoltre, ancorché siasi fatta la meditazione, nulladimeno il sacerdote prima di celebrare conviene sempre che almeno per un poco si raccolga e consideri quello che va a fare. Così ordinò a tutti i sacerdoti il concilio di Milano al tempo di s. Carlo: Antequam celebrent, se colligant et orantes mentem in tanti mysterii cogitationem defigant. Nell'entrare in sagrestia per celebrare dee il sacerdote licenziar tutt'i pensieri di mondo, e dire come dicea s. Bernardo: Curae, sollicitudines, servitutes, expectate me hic donec, illuc cum ratione et intelligentia mea properantes, postquam adoraverimus, revertamur ad vos; revertemur enim, et quam cito revertemur5. S. Francesco di Sales scrisse alla b. Giovanna di Chantal: «Quand'io mi rivolgo all'altare, in cominciar la messa, perdo di vista tutte le cose di terra». Licenziando dunque allora il sacerdote tutt'i pensieri mondani, dee solamente attendere alla grande azione che va a fare ed a quel pane celeste di cui va a cibarsi in quella mensa divina: Quando sederis ut comedas cum principe,


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diligenter attende quae apposita sunt ante faciem tuam1. Consideri pertanto che va a chiamare dal cielo in terra il Verbo umanato, per trattarlo così familiarmente sull'altare e per offerirlo di nuovo all'eterno Padre e per cibarsi finalmente delle sue carni sacrosante. Il p. Giovanni d'Avila, quando andava a celebrare cercava d'infervorarsi col dire: «Ora io vo a consacrare il figlio di Dio, a tenerlo nelle mie mani, a favellare e trattar seco ed a riceverlo nel mio petto».

 

Dee di più considerare ch'egli va all'altare a far l'intercessore per tutt'i peccatori: Sacerdos dum celebrat mediatoris gerit officium; propterea delinquentium omnium debet esse precator2. Sicché il sacerdote stando all'altare sta in mezzo a Dio ed agli uomini, presenta a Dio le preghiere degli uomini e loro ottiene le grazie: Medius fit sacerdos inter Deum et naturam humanam, illinc beneficia ad nos deferens3. Che perciò, dice s. Tomaso, il sacrificio dell'altare chiamasi messa: Propter hoc missa nominatur, quia sacerdos per angelum preces ad Deum mittit, et populus ad sacerdotem4. Nell'antica legge solamente una volta l'anno era permesso al sacerdote d'entrare nel sancta sanctorum; ma oggi a tutti i sacerdoti ogni giorno è concesso l'offerire l'agnello divino per ottenere a sé ed a tutto il popolo le divine grazie: Ipsis profecto sacerdotibus licet, non tantum semel in anno, ut olim, sed diebus singulis introire sancta sanctorum, et tam pro seipsis quam pro populi reconciliatione offerre hostiam5. Sicché, dice s. Bonaventura, nell'andar a celebrare, tre fini dee avere il sacerdote: di onorare Dio, di far memoria della sua passione e d'impetrar grazie a tutta la chiesa: Tria sunt quae celebraturus intendere debet, scilicet Deum colere, Christi mortem memorari et totam ecclesiam iuvare6.

 

In secondo luogo nel celebrare la messa è necessaria la riverenza e la divozione. È noto che l'uso del manipolo fu introdotto per comodo di asciugare le lagrime; poiché anticamente i preti, celebrando, per la divozione non facevano altro che piangere. Già si è detto che il sacerdote all'altare rappresenta la stessa persona di Gesù Cristo: Sacerdos vice Christi vere fungitur7. Ivi in persona di Gesù Cristo egli dice: Hoc est corpus meum; hic est calix sanguinis mei. Ma oh Dio, che, parlando del modo nel quale dicono la messa la maggior parte de' sacerdoti, bisognerebbe piangere, ma piangere a lagrime di sangue! È una compassione, diciam così, veder lo strapazzo che fanno di Gesù Cristo molti preti e religiosi ed anche taluni di religioni riformate. Si osservi con quale attenzione ordinariamente da' sacerdoti si celebra la messa. A costoro bene starebbe detto quel che rimproverava Clemente alessandrino a' sacerdoti gentili, cioè ch'essi facean diventar scena il cielo, e Dio il soggetto della commedia: O impietatem! scenam coelum fecistis, et Deus factus est actus8. Ma no, che dico, commedia? oh che attenzione ci metterebbero questi tali, se avessero a recitare una parte in commedia! E per la messa che attenzione vi pongono? Parole mutilate, genuflessioni che sembrano più


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presto atti di disprezzo che di riverenza, benedizioni che non si sa che cosa sieno: si muovono per l'altare e si voltano in modo che quasi muovono a ridere: complicano le parole colle cerimonie, anticipandole prima del tempo prescritto dalle rubriche; le quali rubriche secondo la vera sentenza sono tutte precettive, perché s. Pio V. nella bolla posta nel messale comanda districte in virtute sanctae obedientiae che la messa si celebri secondo le rubriche del messale: Iuxta ritum, modum et normam in missali praescriptam. Ond'è che chi manca alle rubriche non può scusarsi da peccato; e chi manca in materia grave non può scusarsi da peccato mortale. Tutto avviene per la fretta di finir presto la messa. Come dicono alcuni la messa? come stesse per cadere la chiesa o fossero per venire i corsali e non ci fosse tempo di fuggire. Sarà stato colui due ore a ciarlare inutilmente o a trattare faccende di mondo, e poi tutta la fretta dove la mette? a dir la messa. E nel modo poi con cui questi tali la cominciano così seguitano a consacrare ed a prender tra le mani Gesù Cristo ed a comunicarsi con tanta irriverenza come non fosse in verità che un pezzo di pane. Ci vorrebbe sempre uno che lor dicesse quel che disse un giorno il p.m. Avila, accostandosi all'altare, ad un sacerdote che celebrava in sì fatta maniera: «Per carità trattalo meglio, perché è figlio d'un buon padre». Ordinò il Signore a' sacerdoti antichi che tremassero di riverenza in accostarsi al santuario: Pavete ad sanctuarium meum1. E poi in un sacerdote della nuova legge, stando sull'altare alla presenza reale di Gesù Cristo, mentre gli favella, mentre lo prende in mano, mentre l'offerisce e se ne ciba, tanta irriverenza? Nell'antica legge il Signore minacciò più maledizioni contro que' sacerdoti che trascuravano le cerimonie di que' sacrifizi ch'eran semplici figure del nostro: Quod si audire nolueris vocem Domini tui, ut custodias... caeremonias... venient super te omnes maledictiones istae... Maledictus eris in civitate, maledictus in agro2. S. Teresa dicea: «Io darei la vita per una cerimonia della chiesa». E il sacerdote le disprezza? Insegna il p. Suarez che l'omissione di qualunque cerimonia prescritta nella messa non può scusarsi da peccato: e dicono più dottori che un notabile strapazzo di cerimonie ben può giungere a peccato mortale.

 

Noi abbiamo dimostrato già nella nostra opera morale3, coll'autorità di più autori che la messa celebrata in meno d'un quarto d'ora non può scusarsi da colpa grave. Per due ragioni: 1. per l'irriverenza che nella messa così breve si usa verso il sacrifizio, 2. per lo scandalo che si al popolo. In quanto alla riverenza dovuta al sacrifizio, già abbiamo riferito di sopra quel che ne dice il concilio di Trento, cioè che la messa dee celebrarsi colla maggior divozione ch'è possibile: Omnem operam ponendam esse ut quanta maxima fieri potest exteriori devotionis ac pietatis specie peragatur4. E soggiunge il concilio che il trascurar questa divozione anche esterna, dovuta al sacrifizio, è una tale irriverenza che diventa una certa empietà: Irreverentia quae ab impietate vix seiuncta esse potest. Siccome poi le cerimonie ben fatte formano la riverenza, così all'incontro


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le mal fatte formano l'irriverenza; la quale, quando è in materia grave, è peccato grave. E bisogna di più avvertire che, affinché le cerimonie formino la riverenza conveniente ad un tanto sacrifizio, non basta che si facciano; perché taluno, per essere molto spedito di lingua e di moto, forse può sbrigarle in meno d'un quarto d'ora; ma bisogna che si facciano colla dovuta gravità, la quale anche s'appartiene intrinsecamente alla riverenza che si deve alla messa.

 

In quanto poi allo scandalo, il celebrare la messa in così breve tempo è colpa grave anche per ragion dello scandalo che si al popolo in ascoltarla. Ed in ciò bisogna considerare quel che dice lo stesso Tridentino in altro luogo, cioè che le cerimonie della messa sono instituite dalla chiesa per far prendere a' fedeli la venerazione e il concetto che si dee verso un tal sacrifizio e verso gli altissimi misteri che in quello si contengono: Ecclesia, parla il concilio, caeremonias adhibuit ut maiestas tanti sacrificii commendaretur, et mentes fidelium per haec visibilia religionis signa ad rerum altissimarum, quae in hoc sacrificio latent, contemplationem excitarentur1. Ma queste cerimonie quando poi si fanno con molta fretta, non ingeriscono già venerazione, ma più presto fan perdere al popolo la venerazione verso un misterosanto. Dice Pietro Blessense che per le messe dette con poca riverenza si ansa alla gente di far poco conto del ss. sacramento: Ex inordinatis et indisciplinatis sacerdotibus hodie datur ostentui nostrae redemptionis venerabile sacramentum2. E questo scandalo non può scusarsi da peccato mortale. Perciò il concilio turonense nell'anno 1583. ordinò che i sacerdoti fossero bene istruiti nelle cerimonie della messa, ne populum sibi commissum a devotione potius revocent quam ad sacrorum mysteriorum venerationem invitent.

 

Come vogliono i sacerdoti con tali messe così indivote ottener grazie da Dio, se nello stesso tempo che l'offeriscono, l'offendono e dal canto loro gli recano più disonore che onore? Offenderebbe Dio quel sacerdote che non credesse al ss. sacramento dell'altare; ma più l'offende chi lo crede e non gli usa il dovuto rispetto, e nello stesso tempo fa che glielo perdano ancora gli altri che lo vedono. I giudei a principio rispettarono Gesù Cristo; ma quando poi lo videro disprezzato da' sacerdoti, ne perderono il concetto e si posero finalmente insieme co' sacerdoti a gridare: Tolle, tolle, crucifige eum. E così presentemente (per non uscire dal nostro assunto) i secolari vedendo trattarsi la messa da' sacerdoti con tanta irriverenza, ne perdono il concetto e la venerazione. Una messa detta con divozione inspira divozione ad ognun che la sente: all'incontro una messa indivota fa perdere la divozione e quasi anche la fede agli assistenti. Mi narrò un certo religioso di molto credito che in Roma vi fu un certo eretico che stava risoluto di abiurare, ma avendo poi veduta una messa indivota, se ne andò al papa e gli disse che non volea più abiurare, essendosi persuaso che né i sacerdoti né lo stesso papa avean vera fede per la chiesa cattolica. «Perché, dicea, se io fossi papa e sapessi esservi un sacerdote che dice la messa con poca riverenza, lo farei bruciar vivo; ma vedendo io poi


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che vi sono sacerdoti che celebrano così e non sono castigati, mi persuado che neppure il papa ci crede». E così dicendo si licenziò e non volle più abiurare. Ma i secolari, dicono alcuni sacerdoti, si lamentano se la messa è lunga. Dunque, io rispondo per prima, la poca divozione de' secolari ha da essere la regola del rispetto dovuto alla messa? Inoltre rispondo che se i sacerdoti dicessero la messa colla riverenza e gravità dovuta, i secolari ben concepirebbero la venerazione che si dee ad un tanto sacrifizio e non si lagnerebbero nel dovervi assistere per mezz'ora: ma perché ordinariamente le messe son così brevi e non danno divozione, perciò i secolari, ad esempio de' sacerdoti, vi assistono indivotamente e con poca fede; e se vedono che passa un quarto d'ora, per lo mal uso fatto si tediano e se ne lamentano; e dove non rincresce loro di star per più ore ad un tavolino da giuoco o in mezzo ad una strada a perdere il tempo, si tediano poi a stare per una mezz'ora a sentire una messa. Di tutto questo male son causa i sacerdoti: Ad vos, o sacerdotes, qui despicitis nomen meum et dixistis: In quo despeximus nomen tuum?... In eo quod dicitis: Mensa Domini despecta est1. Il poco conto che fanno i sacerdoti della riverenza dovuta alla messa è causa ch'ella sia disprezzata ancora dagli altri.

 

Poveri sacerdoti! Il ven. p.m. Avila, essendo morto un sacerdote dopo aver celebrata la prima messa, disse: «Oh che gran conto avrà dovuto rendere a Dio questo sacerdote per questa prima messa che ha detta!» Or considerate che dovea dire il p. Avila de' sacerdoti che per trenta o quarant'anni avranno detto una messa scandalosa nel modo che abbiamo detto. E come mai, replico, questi tali sacerdoti posson rendersi propizio il Signore ed impetrarne grazie, dicendo la messa in tal modo, allorché celebrando così gli fanno più ingiuria che onore? Cum omne crimen, disse Giulio papa, sacrificiis deleatur, quid pro delictorum expiatione Domino dabitur, quando in ipsa sacrificii oblatione erratur2? Poveri sacerdoti! E poveri vescovi che ammettono tali sacerdoti a celebrare! poiché i vescovi, secondo prescrive il concilio di Trento, son tenuti a proibire tali sorte di messe dette con irriverenza: Decernit sancta synodus, son le parole del concilio, ut ordinarii locorum ea omnia prohibere sedulo curent ac teneantur quae irreverentia (quae ab impietate vix seiuncta esse potest) induxit3. Si noti: prohibere curent ac teneantur; son tenuti a sospendere chi celebra senza la dovuta riverenza. E ciò corre anche a rispetto de' regolari; mentre i vescovi in ciò son costituiti dal concilio delegati apostolici e perciò son conseguentemente tenuti ad informarsi delle messe che si dicono nelle loro diocesi.

 

E noi, sacerdoti miei, procuriamo di emendarci, se per lo passato abbiamo celebrato questo gran sacrifizio con poca divozione e riverenza. Rimediamoci almeno da ogg'innanzi. Consideriamo, quando ci apparecchiamo a dir messa, quale azione andiamo a fare: andiamo a fare un'azione la più grande e la più santa che può fare un uomo. Ed oh che bene è una messa detta con divozione


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e per chi la dice e per chi la sente! Per chi la dice, scrive il discepolo1: Oratio citius exauditur in ecclesia in praesentia sacerdotis celebrantis. Or se l'orazione d'un secolare è più presto esaudita da Dio quando è fatta in presenza del sacerdote che celebra, quanto più presto sarà esaudita l'orazione che fa lo stesso sacerdote, se celebra con divozione! Chi celebra ogni giorno con qualche divozione riceverà sempre da Dio nuovi lumi e nuove forze. Gesù Cristo sempre più l'istruirà, lo consolerà, l'animerà e gli concederà le grazie che desidera. Specialmente dopo la consacrazione stia sicuro il sacerdote che avrà da Gesù Cristo tutte le grazie che cerca. Diceva il ven. p. d. Antonio de Colellis pio operaio: «Io quando celebro e tengo Gesù Cristo nelle mie mani, ne ho quel che voglio». Per chi la dice e per chi la sente. Narrasi nella vita di s. Pietro d'Alcantara che faceva più frutto la messa divota ch'egli celebrava, che tutti i sermoni de' predicatori di quella provincia dove stava. Il concilio rutonense prescrisse che i sacerdoti per mezzo della pronunzia divota delle parole e col fare divotamente le cerimonie dimostrassero la fede e la divozione che hanno verso Gesù Cristo, ch'è loro presente nella messa: Actio et pronunciatio ostendat fidem et intentionem quam (sacerdos) habere debet de Christi et angelorum in sacrificio praesentia2. Il portamento esterno, dice s. Bonaventura, è quello che dimostra la disposizione interna di chi celebra: Intrinsecos motus gestus exterior attestatur. E qui si ricorda di passaggio il precetto imposto da Innocenzo III.: Praecipimus quoque ut oratoria, vasa, corporalia et vestimenta nitida conserventur; nimis enim videtur absurdum in sacris negligere quae dedecent in profanis3. Oh Dio! che il pontefice ha troppa ragione di parlare così: poiché taluni non ripugnano di celebrare con certi corporali, purificatoi e calici de' quali essi stessi non avrebbero stomaco di servirsene neppure a mensa.

 

In terzo luogo, dopo aver celebrato è necessario il ringraziamento. Il ringraziamento non dee terminare che colla giornata. Dice s. Gio. Grisostomo che gli uomini, per ogni picciol favore che ci fanno vogliono che noi siamo lor grati con renderne la ricompensa: quanto più dobbiamo noi esser grati con Dio, il quale non aspetta da noi ricompensa, ma vuol essere ringraziato solo per nostro bene! Si homines parvum beneficium praestiterint, expectant a nobis gratitudinem: quanto magis id nobis faciendum in iis quae a Deo accepimus, qui hoc solum ob nostram utilitatem vult fieri4! Se almeno, siegue a dire il santo, non possiamo ringraziare il Signore per quanto n'è degno, almeno ringraziamolo per quanto possiamo. Ma che miseria e che disordine è il vedere tanti sacerdoti che, finita la messa, appena dette alcune brevi orazioni entro la sagrestia senza attenzione e senza divozione, subito mettonsi a discorrere di cose inutili o di faccende di mondo! o pure se n'escono dalla chiesa e portano Gesù Cristo in mezzo alla strada! Con costoro bisognerebbe sempre usare quel che fece una volta il maestro Avila: il quale vedendo un sacerdote uscir dalla chiesa subito dopo d'aver celebrato,


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lo fece accompagnare con due torce da due cherici; i quali, interrogati poi dal sacerdote che volessero significare, risposero: «Andiamo accompagnando il ss. sacramento che sta dentro il vostro petto». A questi tali va ben detto quel che scrisse una volta s. Bernardo a Fulcone arcidiacono: Heu! quomodo Christum tam cito fastidis1? Oh Dio! e come così presto prendi in fastidio la compagnia di Gesù Cristo che sta dentro di te?

 

Tanti libri divoti inculcano il ringraziamento dopo la messa; ma quanti sacerdoti lo fanno? quelli che lo fanno si possono mostrare a dito. Alcuni fanno sì bene l'orazione mentale, dicono ancora molte orazioni vocali, ma poi poco o niente si trattengono dopo la messa a trattare con Gesù Cristo. Almeno si trattenessero per quanto durano nel petto le specie consacrate. Diceva il p. Gio. Avila che dee farsi gran conto del tempo dopo la messa; e perciò egli ordinariamente si trattenea per due ore dopo aver celebrato, a star raccolto con Dio. Dopo la comunione il Signore dispensa più abbondantemente le grazie. Dicea s. Teresa che allora Gesù Cristo sta nell'anima come in trono di grazia e le dice: Quid vis ut tibi faciam? Inoltre bisogna sapere ciò che insegnano molti dottori, il Suarez, il Gonet ed altri, che l'anima dopo la comunione tanto più frutto ricava, quanto più ella si dispone con atti buoni pel tempo che durano le specie consacrate: poiché, essendo stato instituito questo sacramento a modo di cibo, come insegna il concilio fiorentino, siccome il cibo terreno quanto più si trattiene nello stomaco, più nutrisce il corpo, così il cibo celeste tanto più nutrisce l'anima di grazia, quanto più si trattiene nel corpo, sempreché si aumenti la disposizione di chi s'è comunicato. Tanto più che in quel tempo ogni atto buono ha maggior valore e merito, poiché allora l'anima sta unita con Gesù Cristo, secondo egli stesso disse: Qui manducat meam carnem, in me manet et ego in eo. E come dice il Grisostomo, allora si fa una cosa con Gesù Cristo: Ipsa re nos suum efficit corpus. E perciò gli atti sono di maggior merito, perché fatti dall'anima che sta unita con Gesù Cristo. Ma all'incontro il Signore non vuol perdere le sue grazie cogl'ingrati, al dire di s. Bernardo. Numquid non perit quod donatur ingratis2? Almeno dunque tratteniamoci per una mezz'ora con Gesù Cristo dopo la messa; almeno per un quarto: ma oh Dio! è troppo poco un quarto. Dobbiamo considerare che il sacerdote dal giorno ch'è stato ordinato non è più suo, ma di Dio. Disse s. Ambrogio: Verus minister altaris Deo, non sibi, natus est. E prima lo disse Dio stesso: Incensum... Domini et panem Dei sui offerunt, et ideo sancti erunt3.

 

Taluni poi si astengono dal celebrare per umiltà. Una parola su questo proposito. L'astenersi dal dir la messa per umiltà è atto buono, ma non è il migliore: gli atti di umiltà danno a Dio un onore finito, ma la messa a Dio un onore infinito; poiché egli è onore che gli vien dato da una persona divina. Avvertasi di più quel che dice il ven. Beda: Sacerdos non legitime impeditus, celebrare omittens, quantum in eo est, privat ss. Trinitatem gloria, angelos laetitia, peccatores venia, iustos subsidio, in purgatorio existentes refrigerio, ecclesiam beneficio et seipsum  


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medicina1. S. Gaetano stando in Napoli ed avendo saputo che in Roma un cardinale suo amico, ch'era solito di celebrare ogni giorno, dopo per causa degli affari aveva cominciato a tralasciar la messa, il santo, con tutto che erano giorni canicolari, non volle anche con pericolo della vita lasciar di portarsi in Roma a persuadere l'amico che proseguisse l'uso antico: ed in fatti andò e poi se ne ritornò in Napoli. Il ven. p. Giovanni d'Avila, come si narra nella sua vita al §. 16., andando un giorno a dir messa in un romitaggio, s'intese talmente indebolito che, diffidando di poter giungere a quel luogo da cui stava ancor lontano, già disponeva di restarsi e tralasciar la messa: ma gli apparve allora Gesù Cristo in forma di un pellegrino che gli scoprì il petto e, facendogli vedere le sue piaghe e specialmente quella del sacro costato, gli disse: «Quando io era impiagato era più stracco e indebolito di te;» e disparve. Così il p. d'Avila si fece animo, andò e celebrò la messa.

 




2 Hebr. 5. 1.



3 Gal. 4. 9.



4 Trident. sess. 22. c. 2.



5 Hom. 90. ad pop. ant.



6 Sess. 22. decr. de observ. in cel. miss.



1 Opusc. l. 2. c. 28.



2 Orat. de proph. Sim.



3 De instit. p. 1. c. 11.



4 In ps. 27.



5 In c. 6. Isa. lect. 6.



6 Ap. discipul. serm. 48.



7 Orat. dom. post pentec.



8 Trid. sess. 22. c. 3.



9 Zach. 9. 17.



10 De instit. p. 1 c. 11.



11 Dan 8. 12.



1 Sess. 22. decr. de observ. in cel. miss.



2 Ier. 48. 10.



3 De praep. ad miss. c. 5.



4 Filot. p. 2. c. 14.



5 Matth. 7. 6.



6 Hom. 6. ad pop. ant.



1 Isa. 52. 11.



2 Petr. Bless. ep. 123.



3 Epist. 1.



4 1. Cor. 11. 26.



5 De amor. Dei.



1 Prov. 23. 1.



2 S. Laur. Iust. serm. de corp. Christi.



3 Chrys. hom. 6. in 2. Tim. 2.



4 3. p. qu. 88. art. 4. ad 9.



5 S. Laur. iust. de. instit. praelat. c. 10. n. 6.



6 De praep. ad miss. c. 9.



7 S. Cypr. epist. 63. ad Cecil.



8 De sacr. gentil.



1 Lev. 26. 2.



2 Deut. 28. 15. et 16.



3 L. 6. n. 400. qu. 2.



4 Sess. 22. decr. de observ. etc.



1 Sess. 22. c. 5. de ref.



2 Ep. ad Richer.



1 Malach. 1. 6. et. 7.



2 C. Cum omne crimen, de consecr. dist. 2.



3 Sess. 22. dec. de observ. etc.



1 Serm. 48.



2 De sacr. miss. n. 4.



3 In can. 1. Relinqui, tit. 44.



4 Hom. 26. in cap. 8. Gen.



1 Epist. 25.



2 Serm. 5. in cant.



3 Lev. 21. 6.



1 De miss. sacrif.






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