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S. Alfonso Maria de Liguori
Selva di materie predicabili

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CAP. VI. Del catechismo grande o sia istruzione al popolo.

 

Il catechismo grande o sia l'istruzione al popolo è uno degli esercizj più importanti della missione: per tanti il sacerdote che la fa dee esser molto dotto e molto anche sperimentato nel sentire le confessioni, per saper palesar gl'inganni e i nascondigli delle coscienze, affin di applicarvi poi i rimedj opportuni. Le parti di questo catechismo sono primieramente l'introduzione, l'esposizione della materia e la divisione; e queste tre prime parti formano quasi l'esordio dell'istruzione. Indi siegue la spiegazione del mistero, sacramento o precetto. Siegue poi la moralità colla pratica. In fine prima si risponderà alle difficoltà o scuse che fanno le persone poco timorate, e poi si farà un brevissimo epilogo di ciò che si è detto in quella istruzione, e si concluderà cogli atti cristiani.

 

L'introduzione si caverà dall'istruzione passata, per concatenar le materie e rinnovar la memoria, succingendo le cose dette del giorno antecedente. Ciò non però s'intende quando le materie hanno qualche concatenazione tra di loro: del resto l'introduzione si formerà dall'importanza della materia, di cui vuol trattarsi. L'esposizione del mistero o precetto già s'intende qual sia; ma ne' precetti si avverta a distinguere tutte le cose che quel precetto comprende. La divisione poi de' punti giova per maggior chiarezza della materia e per più imprimere nella mente degli uditori le verità che si espongono. Queste prime tre parti, come già si è detto, formano quasi un proemio; onde debbono essere brevissime. Si entra poi alla spiegazione del mistero o precetto: e bisogna provar le dottrine con autorità (ma che non sieno né lunghe né molte) e con ragioni e con fatti che fanno al caso; e specialmente giovano le similitudini spiegate con chiarezza. Indi se ne caverà la moralità, avvertendosi che l'istruttore non solo dee illuminare la mente, ma ancora muovere la volontà di chi sente a fuggire i vizj ed a praticare i rimedj ed i mezzi per non incorrervi: sono assai più i peccati che si commettono per malizia della volontà che per ignoranza. La moralità anche dee esser breve: e dovrà ella essere proferita con fervore, ma senza tuono di predica e senza schiamazzare. Gioverà talvolta nell'istruzione fare un'esclamazione contro alcun vizio o massima di mondo o scusa de' malviventi; ma queste esclamazioni


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debbono essere brevi e poche, per evitare ciò che sconciamente fanno taluni, che tutte le loro istruzioni le riducono a prediche, confondendo un esercizio coll'altro.

 

Sopra tutto si attenda nel catechismo ad insinuare cose di pratica, insegnando al popolo le stesse parole che dovrà dire ciascuno quando gli occorrerà di mettere in uso la pratica insinuata: v. g. quando alcuno riceve qualche ingiuria o altro disgusto da un'altra persona, gli dica: Dio ti faccia santo, il Signore ti dia luce. Come anche se avviene qualche perdita o altra cosa avversa: Sia per l'amore di Dio, sia fatta la divina volontà. E queste e simili pratiche si replichino più volte, acciocché restino impresse nella memoria di quei poveri rozzi, da' quali i passi latini e le altre cose o non bene si capiranno o tra poco se ne perderà la memoria; solo resteranno loro a mente quelle brevi e facili pratiche che saranno loro insegnate e replicate più volte. Procuri poi il catechista di esporre quelle scuse o frivole difficoltà che sogliono alcuni opporre per farsi compatire nelle loro mancanze, con certe ragioni, ma false, come sarebbe: che non possono vivere senza pigliare la roba d'altri; che gli altri ancora così fanno; che non son santi; che son di carne; che quel vicino o parente è causa de' loro peccati. Di più dichiari che se alcuno stesse coll'animo preparato a vendicarsi ricevendo qualche ingiuria, colui starebbe in continuo peccato, né gli gioverebbe quella scusa di mondo: ma bisogna conservarsi l'onore. A queste scuse impertinenti bisogna rispondere con fortezza e calore; acciocché taluni tolgansi dalla mente certi pregiudizj che essi tengono quasi per massime, e così stanno sempre in peccato e si dannano. Per ultimo si farà l'epilogo, breve e sostanzioso per quanto si può, delle dottrine proposte; ed in fine di quell'istruzione si lascerà per ricordo una massima viva di religione adattata al proposito. Queste regole son comuni a tutti i catechismi, ma ne' catechismi delle missioni vi sono altri avvertimenti importanti da notare.

 

E per 1. in quanto alle materie, l'istruzione della missione principalmente si riduce alla spiegazione degli stessi tre capi di cui già si è parlato nel catechismo picciolo; cioè de' misterj, de' sacramenti (specialmente della penitenza) e de' precetti del decalogo della chiesa. Taluni istruttori pensano esser meglio parlar prima della confessione e poi de' precetti; io nonperò stimo migliore che si parli prima de' precetti; perché parlandosi di essi nella fine della missione, facilmente accadrà che nella loro spiegazione si muoveranno molti scrupoli nelle coscienze degli uditori, i quali perciò avranno da confessarsi di nuovo, e così si perderà gran tempo. Se poi si volesse far la spiegazione de' precetti nello spiegare la prima parte della confessione, ch'è l'esame di coscienza, anche andrebbe bene. In quanto poi alle cose che debbono spiegarsi circa i misteri, sacramenti e precetti, queste già brevemente si sono accennate nel catechismo de' figliuoli (al §. II. pag. 213.). Ma queste cose medesime si han da spiegare nel catechismo grande più a lungo e più distintamente ed in altro modo, cioè fondandole con autorità e ragioni.

 

E poiché forse, e senza forse, il


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maggior profitto delle missioni è il riparare alle confessioni sacrileghe, bisogna in ogni istruzione battere su questo punto, facendo vedere quanto sia grande la malizia del sacrilegio e quante anime si perdono per tacere i peccati in confessione. Molte anime miserabili per lo rossore, anche confessandosi a' missionarj, come sappiamo per esperienza, seguitano a tacere i peccati. E se mai ne resta taluna che nella missione non ripara alle confessioni mal fatte, ella non sarà perduta? poiché se non ha vinto il rossore confessandosi a' missionarj, come lo vincerà ritornando a' suoi confessori paesani? Perciò, come s'è detto, bisogna sempre inculcare questo punto. E a tal fine nelle nostre missioni si pratica che l'istruttore in fine dell'istruzione e prima degli atti cristiani narri sempre un esempio terribile (di tanti che ve ne sono) di qualche anima dannata per aver taciuti i peccati. Ciò non è secondo le regole dell'arte, poiché non sempre l'esempio avrà connessione coll'istruzione fatta; ma è secondo il fine delle missioni, che principalmente si fanno per dar rimedio alle confessioni sacrileghe. Basterà l'attaccare l'esempio dopo aver detto: Orsù procurate di confessare tutto dove avete mancato, secondo oggi v'ho detto, e di non lasciar niente per rossore. In fine poi di questo capo si porranno diversi esempi su tal proposito per comodità degl'istruttori.

 

Per 2. si avverta che molto errano quegli istruttori i quali riempiono i loro catechismi di belle parole, di questioni scolastiche e di lepidezze, quando la povera gente cerca pane di sostanza e pane sminuzzato. In quanto alle parole è regola comune che lo stile del catechismo dee esser tutto semplice e popolare (senza dar nel goffo, poiché ciò non è mai necessarioconviene al pulpito): i periodi debbon esser corti e concisi: e spesso giova il farsi dimande e risposte dallo stesso istruttore, perché così maggiormente il popolo sta attento, e le cose più s'imprimono nella loro memoria. In quanto alle questioni scolastiche, queste convengono agli esercizj letterarj dei teologi, ma non già al pulpito ed all'istruzione del popolo, che per lo più è composto di rozzi, i quali o non l'intendono o almeno non ne ricavano niente. Se mai nell'uditorio poi vi è qualche letterato, s'egli è prudente e discreto, ben loderà l'istruttore che in tal modo istruisce la gente, e lo biasimerà se fa altrimenti. In quanto all'altro punto delle lepidezze, prego il mio lettore a ben riflettere quel che qui scrivo. Non nego che alcuni istruttori lo praticano, e difendono esser ciò utile per tirare il popolo a sentir l'istruzione e per mantenerlo attento e senza tedio. Ma io per me non so altro se non che i santi nelle loro istruzioni non faceano ridere, ma piangere. Si legge nella vita di s. Giovan Francesco Regis che, facendo il santo le missioni, e sentendo il popolo i suoi sermoni (che tutti erano catechismi), non faceano altro che piangere dal principio sino alla fine.

 

Almeno dico così: che voglia proferirsi qualche lepidezza la quale naturalmente nasca dalla stessa cosa di cui si tratta, bene; per esempio, parlandosi degli uomini di mala coscienza, conviene riferire le scuse ridicole che apportano costoro; e così in casi simili. Ma il voler indurre l'istruzione ad una scena di commedia,


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con portare fattarelli ridicoli o favolette curiose, con motti e gesti, detti e fatti a posta per far ridere la gente, io non so come ciò possa convenire alla riverenza dovuta alla chiesa dove si sta, ed al pulpito dal quale s'insegna la parola di Dio ed in cui l'istruttore sta in luogo di ministro di Gesù Cristo. È vero che la gente ha piacere si sentir quelle facezie e di ridere; ma dimando: che profitto poi ne cava? Certamente dopo le risa si troverà così distratta ed indivota che il raccogliersi di nuovo le sarà molto difficile, e spesso, in vece di seguitare a sentir la moralità (che stentatamente procurerà di ricavarne il nostro lepido istruttore, per non farsi stimare un saltimbanco), andrà rivolgendo nel pensiero quella facezia o fatto ridicolo che ha inteso. Se altro non fosse, quel catechista che si diletta di dire lepidezze e sali non acquisterà certamente presso l'uditorio concetto di santo e d'anima infervorata d'amor di Dio: il più che ne acquisterà sarà il concetto e nome di lepido e grazioso. È un inganno poi il pensare che altrimenti la gente non concorrerà o non istarà attenta al catechismo senza queste lepidezze: anzi dico che allora più concorrerà e starà con maggior attenzione quando vedrà che, andando a sentire il catechismo, non ci va a perdere il tempo e dissiparsi, ma a cavarne frutto e divozione.

 

Per 3. si avverta a non proporre certe dottrine che possono portar rilassamento di coscienza. Qualche dottrina potrà ben applicarsi ad alcuno in particolare allorché viene a confessarsi, ma detta in pulpito può nuocere alle persone che sono inclinate alla larghezza; poiché queste da quella dottrina, che per altro sarà giusta ed utile, allorché viene applicata colle dovute circostanze, ne ricaveranno forse conseguenze improbabili e lasse. Giova però ed è necessario toglier le coscienze erronee di coloro che apprendono per peccato quello che non è. Per esempio alcuni rozzi stimano di far giudizi temerarj e peccare anche in quei giudizi o sospetti dove vi è bastante fondamento di così giudicare o sospettare: altri stimano peccato per sé grave il maledire gli anni, i giorni o il vento o la pioggia: altri stimano mormorazione il palesare a' genitori i furti, male pratiche o altre colpe de' figli, benché ciò sia necessario per darvi rimedio: altri stimano peccare non osservando qualche precetto della chiesa, v. gr. di sentir la messa, di digiunare, anche nei casi in cui per sé sono scusati e simili. Bisogna in ciò spiegare che questi non son peccati o che non son mortali rispettivamente parlando.

 

All'incontro bisogna che il catechista scopra quei che son certi peccati, e specialmente quelli che son causa di altre colpe gravi; per esempio, bisogna istruire il popolo che chi non fugge l'occasione prossima volontaria del peccato mortale pecca gravemente, ancorché non avesse per allora animo di commetter quel peccato ed ancorché non intendesse che il porsi a quell'occasione sia colpa grave; perché mettendosi all'occasione già moralmente per certo ne succederà il peccato. Di più bisogna istruir le donne quanto alle superstizioni o siano vane osservanze, benché le facciano con buona fede. Di più che sono in malo stato quelle donne che si compiacciono e ambiscono d'esser


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desiderate dagli uomini senza fine di matrimonio. Di più, quantunque alcuni non tengano per peccato grave il bestemmiare i giorni o le cose sante, bisogna istruirli di tal colpa; perché altrimenti vi faranno l'abito, e fatto l'abito, ancorché poi tali bestemmie le conosceranno per gravi, come sono, non potranno astenersene. Parlando del sesto precetto, si avverta a non ingerire qualche scandalo agl'innocenti, con metterli in curiosità di quelle malizie che non sanno. Basterà su questo precetto il rimproverare in generale quei che offendono la castità, senza spiegare la specie e le circostanze; in modo che gl'intinti di tal peccato intendano come abbiano da confessarsene, e gl'innocenti all'incontro restino nella loro ignoranza. Bisogna non però istruire il popolo in questa materia quando i mali pensieri o parole son peccati o no. Ma specialmente poi bisogna parlare de' rimedj contro il vizio disonesto, insinuando spesso tra gli altri i tre gran mezzi, cioè la fuga dell'occasione, la frequenza de' sacramenti e sopra tutto la preghiera, senza la quale niuno sarà casto. Si prega il lettore a leggere quel che si è detto nel catechismo piccolo, perché molte cose ivi dette possono servire anche per lo catechismo grande, e perciò si è qui tralasciato di notarle. Si soggiungono poi qui quegli esempi o sieno casi funesti di molti che, per aver lasciato di confessar i peccati per rossore, han fatta mala fine. Questi casi possono riferirsi uno per giorno prima di fare gli atti cristiani, come di sopra si è accennato. Porremo qui i seguenti esempi succintamente: toccherà poi a chi vuol servirsene lo stenderli con maggiori espressioni, come gli piacerà.

 

Esempi funesti di coloro che han fatte confessioni sacrileghe.

 

Esempio 1. Si narra nelle croniche di s. Benedetto di un certo chiamato Pelagio: questi, posto da' suoi poveri genitori a guidar le pecore, faceva una vita esemplare, tantoché era chiamato da tutti col nome di santo. Così visse molti anni. Morti i suoi genitori, vendé tutte quelle poche robe che gli furono lasciate e si ritirò in un romitaggio. Una volta per disgrazia acconsentì ad un pensiero disonesto. Caduto in peccato, cadde in una gran malinconia, perché il misero non volea confessarsi, per non perdere il concetto. Stando così, passò un pellegrino, che gli disse: «Pelagio, confessati, che Dio ti perdonerà e ricupererai la pace»; e sparve. Dopo ciò Pelagio risolvé di far penitenza del suo peccato, ma senza confessarlo, lusingandosi che Dio forse glielo perdonasse senza la confessione. Entrò in un monastero, dove subito fu ricevuto per la sua buona fama, ed ivi fece una vita aspra, mortificandosi con digiuni e penitenze. Venne finalmente a morte: si confessò l'ultima volta; ma siccome per rossore avea lasciato sempre di confessar quel peccato in vita, così lo lasciò ancora in morte. Prese poi il viatico e morì e fu seppellito collo stesso concetto di santo. Nella notte seguente il sagrestano trovò il corpo di Pelagio sopra la sepoltura, lo seppellì di nuovo: ma così nella seconda, come nella terza notte lo trovò sempre fuori: onde chiamò l'abate, il quale unito cogli altri monaci disse: «Pelagio, tu sei stato ubbidiente in vita, ubbidisci ancora in


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morte: dimmi da parte di Dio, fors'è voler divino che il tuo corpo sia posto in luogo riserbato?» Il defunto dando un urlo, «Oimè! disse, io son dannato per un peccato non confessato; mira, abate, il mio corpo». Ed ecco che il suo corpo apparve come un ferro infuocato che mandava scintille. Tutti si posero a fuggire; ma Pelagio chiamò l'abate, acciocché gli togliesse dalla bocca la particola consacrata, che ancora vi stava. Così fu fatto; e poi Pelagio disse che l'avessero tolto dalla chiesa e gittato in un letamaio come un cane fracido; e così si eseguì.

 

Esempio 2. Si legge negli annali de' padri cappuccini d'un certo religioso (narrandosi questo fatto al popolo, si dirà di un certo uomo) il quale era stimato virtuoso, ma si confessava malamente. Infermatosi gravemente, fu avvisato a confessarsi; si fece chiamare un certo padre, al quale poi, venuto che fu, disse: «Padre mio, dite voi che mi son confessato, ma io non voglio confessarmi. E perché?» disse quel padre. Rispose l'infermo: «Perché io son dannato, mentre non mi son confessato mai intieramente de' miei peccati, e Dio in pena ora mi toglie il potermi confessare bene». Ciò detto, cominciò ad urlare e a lacerarsi la lingua, dicendo: «Lingua maledetta, che non volesti confessare i peccati quando potevi». E così strappandosi la lingua a pezzi, urlando spirò l'anima in mano del demonio. E morto che fu, diventò negro come un tizzone, e s'intese un romore terribile con una insoffribile puzza.

 

Esempio 3. Narra il p. Serafino Razzi come in una città d'Italia vi fu una donna nobile maritata che secondo l'esterno era tenuta per santa. Giunta in morte prese tutti i sacramenti, lasciando molto buon nome di sé. Morta che fu, la sua figliuola che sempre raccomandava a Dio l'anima di sua madre, un giorno mentre faceva orazione intese un gran fracasso alla porta; voltò gli occhi e vide la figura orribile di un porco tutto di fuoco che mandava una gran puzza; ebbe tanto timore la povera figlia che fu per buttarsi dalla finestra: ma sentì dirsi: «Fermati, figlia, fermati; io sono la tua sventurata madre, che era tenuta per santa, ma per li peccati commessi con tuo padre, ch'io per rossore non mai ho confessati, Iddio m'ha condannata all'inferno; onde non pregare più Dio per me, perché mi dai più pena». Detto ciò, diede certi urli e sparve.

 

Esempio 4. Riferisce il celebre dottore fra Giovanni Ragusino ch'eravi una donna molto spirituale; frequentava ella l'orazione e i sacramenti, tanto che il vescovo suo la teneva per santa. Un giorno la misera, guardando un suo servitore, acconsentì ad un mal pensiero; ma perché il peccato fu solo colla mente, si lusingava di non esser tenuta a confessarlo: nulladimeno il rimorso della coscienza sempre la tormentava, e specialmente quando stava vicina a morire. Ma neppure in morte, per la vergogna, giunse a confessarsi di quel peccato e così se ne morì. Il vescovo ch'era suo confessore e la tenea per santa, fe' portare il suo cadavere in processione per tutta la città e poi per sua divozione lo fe' seppellire nella sua cappella. Ma nella mattina seguente entrando ivi il vescovo, vide sulla sepoltura un corpo disteso sopra un gran fuoco: scongiurò


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da parte di Dio, acciocché dicesse chi fosse. Quella rispose ch'era la sua penitente e che per quel mal pensiero s'era dannata; ed urlando maledicea la sua vergogna che era stata causa della sua ruina eterna.

 

Esempio 5. Racconta il p. Martino del Rio che nella provincia del Perù vi fu una giovine indiana chiamata Caterina, la quale stava per serva con una buona signora: onde questa la ridusse a battezzarsi ed a frequentare i sacramenti. Ella si confessava spesso, ma taceva i peccati. Giunse in morte, nella quale si confessò nove volte, ma sempre sacrilegamente; e finite le confessioni, diceva alle sue compagne ch'ella taceva i peccati. Ciò dissero le compagne alla padrona, la quale seppe dalla serva moribonda quali erano questi suoi peccati, cioè certe disonestà: onde ne avvisò il confessore, il quale, ritornato, esortava la penitente a confessarsi di tutto; ma Caterina si ostinò a non voler dire quelle sue colpe al confessore, e giunse a tanta disperazione che disse finalmente: «Padre, lasciatemi e non vi affaticate più, perché ci perdete il tempo». E voltando la faccia al confessore si pose a cantare canzoni profane. E stando poi vicina a spirare, ed esortandola le compagne a prender il crocifisso, rispose: «Che crocifisso? io non lo conosco né lo voglio conoscere». E morì. Da quella stessa notte cominciarono a sentirsi tali romori e puzza che la padrona fu obbligata a mutar casa; e dopo comparve dannata ad una sua compagna, dicendole che stava all'inferno per le sue male confessioni.

 

Esempio 6. Il p. Giovanni Ramirez della compagnia di Gesù, predicando in una città, fu chiamato a confessare una donzella. Questa era nobile ed aveva fatto una vita santa agli occhi degli uomini: si comunicava spesso, digiunava e faceva altre mortificazioni. in morte poi si confessò al p. Ramirez con molte lagrime, sì che quel padre ne restò consolato. Ma giunto il detto padre al collegio, gli disse il compagno che mentre si confessava quella giovine aveva veduto che una mano nera le stringea la gola. Saputo ciò il padre Ramirez, di nuovo tornò alla casa dell'inferma, ma prima di entrare intese che la giovine era morta. Ritornò al collegio, e stando in orazione gli apparve quella povera giovine circondata di fiamme e di catene egli disse ch'era dannata per un peccato commesso con un giovine, e che non avea mai voluto confessarlo per non perdere il concetto col suo confessore; che in morte volea confessarlo, ma poi si era lasciata vincere dalla stessa vergogna. E ciò detto disparve, dando urli terribili in mezzo ad un gran fracasso di catene.

 

Esempio 7. Narra il p. Francesco Rodriguez che in Inghilterra, allorché ivi regnava la religione cattolica, Auguberto re ebbe una figliuola di una rara bellezza, che perciò era dimandata da molti principi. Interrogata dal padre se volea maritarsi, rispose che avea fatto voto di perpetua castità. Il padre le impetrò la dispensa da Roma, ma ella stette forte in non accettarla, dicendo che non volea altro sposo che Gesù Cristo; solamente cercò al padre di viver ritirata in una casa solitaria; e il padre perché l'amava ne la compiacque, assegnandole ancora una conveniente corte. Ritirata che fu, si pose a


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fare una vita santa d'orazioni, digiuni e penitenze; frequentava i sacramenti e andava anche spesso a servire gl'infermi d'uno spedale. In tale stato di vita, essendo ancora giovine, s'infermò e morì. Una certa signora ch'era stata sua aia facendo orazione una notte, intese un gran fracasso e poi vide un'anima in figura di donna in mezzo ad un gran fuoco e incatenata tra molti demoni che le disse: «Sappi ch'io sono l'infelice figlia di Auguberto. E come, rispose l'aia, tu dannata, con una vita così santaRipigliò l'anima: «Io giustamente son dannata per mia colpa. E perché? Hai da sapere ch'io, essendo fanciulla, gustava che un certo mio paggio, al quale io portava affetto, mi leggesse qualche libro. Una volta questo paggio dopo aver letto mi chiese la mano, me la baciò, e il demonio cominciò a tentarmi, sino che finalmente col medesimo offesi Dio. Andai a confessarmi, cominciai a dire il mio peccato; il mio confessore indiscreto subito ripigliò: «Come? una regina fare tal cosa?» Allora io per rossore dissi ch'era stato sogno. Dopo cominciai a far penitenze, limosine, acciocché Dio mi perdonasse, ma senza confessarmi. Stando in morte dissi al confessore ch'io ero stata una gran peccatrice: il confessore mi rispose che questo pensiero l'avessi discacciato come una tentazione; e dopo ciò spirai ed ora son dannata per tutta l'eternità». E dicendo ciò disparve, ma con tanto strepito che parea che rovinasse tutto il mondo, lasciando in quella camera una gran puzza che durò per molti giorni.

 

Esempio 8. Racconta il p. Giovan Battista Manni gesuita che vi fu una signora la quale per più anni, confessandosi, avea taciuto un suo peccato di disonestà. Passarono per quel luogo due religiosi domenicani: ella che sempre aspettava un confessore forestiere, pregò uno di coloro a sentirla e si confessò. Partiti che furono i padri, il compagno disse a quel confessore aver veduto che mentre quella signora si confessava uscivano molti serpi dalla sua bocca, ma che un serpaccio grande era uscito solamente col capo fuori; ma poi di nuovo tutto era entrato dentro; ed allora vide entrar tutti i serpi che erano usciti. Onde il confessore, sospettando quel che fosse, ritornò indietro, andò alla casa di quella signora e intese che in entrar nella sala era morta di subito. Dopo, facendo orazione gli apparve quella misera donna dannata che gli disse: «Io sono quella sventurata che a te mi confessai; io teneva un peccato che non volea confessare a' confessori paesani. Dio mi mandò te; ma io anche mi lasciai vincere dalla vergogna. Dio subito mi mandò la morte in entrare in casa, e giustamente m'ha condannata all'inferno». E detto ciò s'aprì la terra, dove si vide precipitare e sparve.

 

Esempio 9. Narra s. Antonino che vi fu una vedova la quale cominciò una vita divota, ma poi praticando con un certo giovine, cadde in peccato col medesimo. Fatto l'errore, faceva penitenze, limosine, entrò anche in un monastero, ma non mai si confessava il suo peccato. La fecero badessa. Finalmente morì, e morì in concetto di santa. Ma in una notte una monaca che stava nel coro intese un gran fracasso; e veduta un'ombra cinta di fiamme, dimandò chi era.


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Rispose: «Sono l'anima della badessa e sto all'inferno. - E perché? - Perché nel secolo commisi un peccato e non ho voluto mai confessarmelo. Va e dillo alle altre monache; e non pregate più per me». E udendosi un gran fracasso disparve.

 

Esempio 10. Narrasi negli annali de' cappuccini che una certa madre, per aver fatte confessioni sacrileghe, in punto di morte cominciò a gridare ch'era dannata per tanti suoi peccati e per le male sue confessioni. Tra le altre cose dicea che dovea fare certe restituzioni e sempre le avea trascurate. Allora disse la figlia: «Madre mia, si restituisca quel che dovete; io mi contento che si venda tutto, purché voi salviate l'anima». Ma rispose la madre: «Ah figlia maledetta! che anche per causa tua mi son perduta, mentre co' miei mali esempj ho dato scandalo a te». E così seguiva ad urlare da disperata. Mandarono a chiamare un padre cappuccino, il quale venuto l'esortava a confidare nella misericordia di Dio; ma quell'infelice disse: «Che misericordia! io son dannata; già è fatta la sentenza per me e già ho cominciato a sentir le pene dell'inferno». In questo mentre fu veduta la misera essere sollevata col corpo in aria sino al soffitto della camera, e poi di botto fu sbattuta a terra e subito restò morta.

 

Dopo si fanno gli atti cristiani nel seguente modo: in quanto agli atti di fede e di speranza si facciano i medesimi che stanno già stesi tra gli atti preparatorj del sermone che si fa a' figliuoli prima della confessione (vedi alla pag. 207.); poiché specialmente l'atto di fede dee farsi tutto disteso come sta ivi, dovendosi far menzione non solo de' quattro misteri principali che debbon credersi di necessità di mezzo, ma anche degli altri contenuti nel simbolo, che debbon credersi di necessità di precetto, come anche de' sacramenti, specificandosi almeno i quattro sacramenti necessarj a ciascun fedele, cioè del battesimo, cresima, eucaristia e penitenza. Si è annoverato anche quello della cresima, poiché Benedetto XIV. nella sua bolla, Etsi pastoralis1 ultimamente dichiarò peccar mortalmente tutti quei fedeli che potendo ricusano di prender questo sacramento.

 

Bisogna poi aggiungervi gli atti d'amore, di dolore e di proposito, ma in altra forma di quella che sta ivi, v. gr. Atto d'amore: «Dio mio, perché siete bontà infinita, degno d'infinito amore, v'amo con tutto il cuore mio sopra ogni cosa. Atto di dolore: E di tutti i peccati miei, perché ho offeso voi, bontà infinita, me ne pento con tutto il cuore e me ne dispiace. E propongo prima morire che più disgustarvi, colla grazia vostra, che vi cerco per ora e per sempre. E propongo ancora di ricevere i santi sacramenti in vita ed in morte.

 




1 Tom. 1. in bullar. §. 3. n. 4.






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