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S. Alfonso Maria de Liguori
Selva di materie predicabili

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§. 3. Dell'elocuzione.

 

Dopo aver trattato della disposizione delle parti, dee parlarsi de' mezzi e modi per rendere il discorso atto a persuadere l'intelletto e guadagnar la volontà. Per la buona elocuzione debbono concorrere tre cose, cioè l'eleganza, la composizione e la dignità. E per 1. l'eleganza è un parlar chiaro e con parole proprie, sfuggendo i termini nuovi o disusati o troppo affettati o troppo bassi. Intendasi che l'eloquenza dell'oratore consiste nell'esprimere l'idea conceputa e nel farla capire dagli uditori con quella stessa vivezza con cui egli l'intende.

 

Per 2. la composizione è l'armonia del discorso, la quale deriva dal periodo ben ordinato e dal numero conveniente alle parole. Il periodo è un circuito di parole con cui si spiega intieramente il concetto ideato. Le parti del periodo sono i membri e gli incisi. I membri diconsi le parti principali del periodo, gl'incisi le meno principali. Tre sono poi le specie del periodo, conciso, rotondo e composto. Il conciso, che per lo più si compone degl'incisi, benché sia il più breve di tutti, nulladimanco non dee constar meno di due membri, ed all'incontro non dee constar più di quattro membri. Le doti del periodo conciso sono tre (ma queste doti non è necessario che vadano sempre unite), cioè l'uguaglianza


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circa il numero delle parole, la corrispondenza armonica tra l'uno e l'altro membro, e l'opposizione, v. g. Eratis aliquando tenebrae, nunc autem lux in Domino1. Il periodo rotondo è quello le cui parti formano una sonora unione di sentenze, di pensieri e di parole in esprimere qualche perfetto senso; che perciò debbono sfuggirsi le soverchie vocali e consonanti ed anche la frequenza delle medesime parole o lettere o della medesima quantità di sillabe; come anche evitarsi il complesso di parole che formassero il suono di versi poetici. Il composto finalmente è quello che consta di più periodi rotondi o concisi.

 

Per 3. la dignità poi dell'elocuzione si ha dall'uso de' tropi e delle figure, di cui parleremo appresso. Ma prima di passare avanti bisogna avvisare i giovani i quali si applicano alle prediche che ciò che si è detto de' periodi rotondi e composti con parole sonore all'udito va propriamente detto per le orazioni che si fanno nelle accademie e ne' congressi secolareschi, ma non per le chiese e per li pulpiti. So bene che alcuni oratori dicono ciò esser necessario anche ne' sermoni sacri per allettare la gente ad ascoltar la divina parola. Ma so bene anche che s. Paolo si protestava dicendo: Veni non in sublimitate sermonis aut sapientiae... Et sermo meus et predicatio mea, non in persuasibilibus humanae sapientiae verbis, sed in ostensione spiritus et virtutis2. E so che i predicatori di spirito ed amanti di Dio non vanno trovando parole scelteperiodi sonori, ma van trovando il modo più atto per liberare le anima dall'inferno e per indurle ad amare Dio. I predicatori che tirano la gente, allettandola coi discorsi fioriti, voglio concedere che abbiano concorso; ma il frutto dov'è? Dopo tali prediche chi va a confessarsi compunto e intenerito da quelle descrizioni ingegnose rapportate e da quei periodi rotondi, in somma da quei fiori e frondi di cui è composto il sermone? Dice s. Girolamo che tali predicatori vani son simili alle donne che colle loro vanità piacciono bensì agli uomini, ma senza piacere a Dio e senza frutto delle anime: Effeminatae quippe sunt eorum magistrorum animae qui semper sonantia componunt, et nihil virile, nihil Deo dignum est in iis qui iuxta voluntatem audientium praedicant3. Dicea Seneca che l'infermo non va cercando quel medico che parla bene, ma quello che lo guarisce. A che serve, dice, che mi alletti col tuo bel discorso quando mi bisogna fuoco e sega per sanarmi? Non quaerit aeger medicum eloquentem, sed sanantem. Quid oblectas? aliud agitur; urendus, secandus sum; ad haec adhibitus es4. E s. Girolamo scrivendo al suo Nepoziano5, gli dice: Docente te in ecclesia non clamor populi (viva, viva!), sed gemitus suscitetur; lacrymae auditorum laudes tuae sint. I predicatori vani riporteranno bensì lodi da alcuni de' letterati, ma da niuno profitto. Ho detto da alcuni; perché difficilmente vi è una predica di queste fiorite, per faticata che sia, la quale non trovi tra' letterati chi la critichi, chi d'una cosa e chi d'un'altra. E questa è la pazzia di tali oratori, i quali predicano sé stessi e non Gesù Cristo, che con tutte le fatiche che fanno per riportarne un vano viva,


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neppure lo conseguiscono da tutti; quando all'incontro chi predica Gesù crocifisso sempre accerta la sua predica, poiché gusto a Dio che dee essere il fine di tutte le nostre azioni.

 

Oh volesse Iddio che si abolisse nella chiesa un tal modo di predicare con vanità! È certo che se tutti i predicatori parlassero alla semplice e all'apostolica si vedrebbe mutato il mondo. Praedicatio christiana, dice s. Ambrogio, non indiget pompa et cultu sermonis; ideoque piscatores homines imperiti electi sunt qui evangelizarent1. Parlando l'apostolo di coloro che predicano con pompa li chiama adulterantes verbum Dei2. Oh quanto spiega quella parola adulterantes! Ben lo dichiara s. Gregorio, scrivendo così: Perversus quisquis est vanae gloriae serviens recte adulterari verbum Dei dicitur, quia per sacrum eloquium non Deo filios gignere, sed suam scientiam desiderat ostentare et voluptati magis quam generationi operam impellit3. Il predicar con vanità non serve ad altro che ad invanire chi predica ed a far perdere il tempo a chi sente, e quel ch'è peggio, a snervare la parola di Dio; poiché il dir fiorito fa perder la forza che tengono in sé le verità eterne esposte con semplicità, siccome scrisse s. Prospero o altro autore antico: Sententiarum vivacitatem sermo cultus ex industria enervat4. Che perciò disse s. Paolo: Misit me Christus... evangelizare non in sapientia verbi, ut non evacuetur crux Christi5. Sul qual testo scrisse poi s. Giovan Grisostomo: Alii externae sapientiae operam dabant; ostendit (Paulus) eam non solum cruci non opem ferre, sed etiam eam exinanire6. Sicché la sottigliezza de' pensieri e la pulizia delle parole, per così dire, annichila il frutto della redenzione di Gesù Cristo. Oh il gran conto che han da rendere a Dio nella loro morte gli oratori sacri che predicano con vanità! S. Brigida vide l'anima d'un predicator religioso dannata per aver così predicato; onde poi il Signore dichiarò alla santa che per mezzo de' predicatori vani non parla esso, ma parla il demonio7. Ma è più terribile il fatto che narra il p. Gaetano Maria da Bergamo cappuccino8. Riferisce questo autore che un predicatore, anche cappuccino, gli narrò questo fatto, a lui stesso accaduto pochi anni avanti. Essendo egli giovane e di belle lettere, avea predicato già con eloquenza vana nel Duomo di Brescia; ma predicando ivi la seconda volta dopo alcuni anni, si fe' sentir a predicare tutto all'apostolica. Fu dimandato perché si fosse così mutato? Rispose e disse così: «Io ho conosciuto un predicator famoso, religioso e mio amico e simile a me nella vanità di predicare. Costui stando in morte, non fu possibile a molti d'indurlo a confessarsi. Ci andai ancor io e gli parlai con fortezza; ma egli guardandomi fisso non mi rispondeva. In questo mentre pensò il superiore di portargli in cella il venerabile, per così muoverlo a prendere i sacramenti. Venne la sacra pisside e gli dissero gli assistenti: Ecco è venuto Gesù Cristo per darti il perdono. Ma l'infermo si pose ad esclamare con voce da disperato: Questo è quel Dio del quale ho tradita la santa parola. Tutti allora


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ci rivolgemmo, chi a pregare il Signore che gli usasse misericordia, e chi a pregar lui a confidare nella misericordia di Dio; ma egli con voce più alta esclamò di nuovo: Questo è quel Dio del quale ho tradita la santa parola; e poi soggiunse: Non vi è più misericordia per me. Seguitammo noi a dargli animo; e l'infermo la terza volta esclamò: Questo è quel Dio del quale ho tradito la santa parola; e poi: Per giusto giudizio di Dio io son dannato. E subito spirò. E per questo fatto disse quel padre che si era così emendato nel modo di predicare.

 

Almeno nel purgatorio non lascerà il Signore di castigare tutte queste vanità nel predicare. Si narra nel p. Francesco dell'Aredo, il quale fece gran conversioni d'anime, che dopo morte apparve al suo confessore e disse ch'era stato più giorni al purgatorio per certe prediche fiorite fatte nella sua gioventù. Così riferisce il p. Nadasi1. Narra il medesimo autore2 che un padre della compagnia di Gesù, rettore del collegio di Maiorica, mentre faceva una predica molto pulita, disse il Signore al ven. Alfonso Rodriguez: «Questo tuo rettore ben mi pagherà questa predica col fuoco del purgatorio». È certo che in punto di morte tutte le vanità nel predicare e tutti gli applausi ricevuti non daranno confidenza al moribondo. Mi è stato riferito per certo da più persone degne di fede che un celebre predicatore de' nostri tempi che predicava così, con gran concorso ed applauso, stando in punto di morte ordinò che si fossero bruciati tutti i suoi scritti. E di più mi fu riferito di questo medesimo soggetto che una volta in vita, sentendosi lodare da un altro per queste sue orazioni pompose, rispose: «Queste orazioni son quelle che un giorno mi han da far condannare». Attendasi quel che dice il Muratori parlando anche delle orazioni panegiriche: egli3 scrive così: «Oh perché mai tanti panegirici che non di rado vanno a finire in una pompa vana d'ingegno e in sottigliezze lambiccate da cervelli ventosi e non intese dai più del popolo!... Il panegirico facciasi, se si vuol cavarne profitto, con quella popolare e intelligibile eloquenza che istruisce e muove non meno gl'ignoranti che i dotti. Ma non è talvolta assai conosciuta da chi pur si figura d'esser più dotto degli altri». Seneca scrisse al suo Lucilio che l'oratore dee più attendere alle cose che alle parole; e poi soggiunse che mal concetto di sé quell'oratore che si fa vedere occupato in queste minuzie di rendere il suo discorso adorno di frondi e fiori: Quaere quid scribas, non quemadmodum... Cuiuscumque orationem videris sollicitam et pulitam, scito animum esse pusillis occupatum4. Così parla un gentile: quanto più dee dirlo un cristiano!

 

Ma qui mi dirà taluno: dunque tu che vorresti? vorresti che tutte le prediche fossero prediche di missione? Rispondo e dimando: che cosa intendesi per predica di missione? Se s'intendono prediche fatte a caso ed alla goffa, senza regola e senza ordine, io riprovo, come riprovano tutti, queste sorta di prediche. Ma se poi s'intendono le prediche fatte all'apostolica e con istile semplice, adattato al popolo che sente, su ciò nella seconda parte, all'istruzione IV., ho portato già quel che ha scritto su questo punto


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nella sua aurea operetta dell'Eloquenza popolare il suddetto Lodovico Muratori, che certamente ha tenuto ed anche oggi ritiene il luogo tra' primi letterati d'Europa, cioè che, predicandosi a quell'uditorio dove stanno uniti letterati e rozzi, i quali ordinariamente ne compongono la maggior parte, è spediente che si parli in tutte le prediche con modo semplice e popolare; poiché, com'egli dice, in tale sorte di prediche i plebei ne caveranno già il loro profitto, e i dotti, benché non troveranno diletto nella bella dicitura, lo troveranno nonperò con maggior frutto in vedersi illuminati e mossi a meglio attendere al bene delle loro anime. Del resto già s'intende che dove l'uditorio è composto d'uomini colti il predicatore dee parlare con linguaggio più colto. Ma lo stare attaccato ad intrecciar la predica di fiori e frondi, cioè di erudizioni pellegrine, di riflessioni sottili ed alte, di descrizioni pompose, di parole scelte e di periodi sonanti, ciò è quello che dicesi non convenire al pulpito; perché con tal sorta di predice non vi concorre Dio, e non concorrendovi Dio, qual frutto mai se ne può sperare? E specialmente dee guardarsi da tali vanità il predicatore ch'è pastore d'anime; poiché, predicando egli per officio e per obbligo, è tenuto con precisa obbligazione a farsi intendere da tutte le sue pecorelle che l'ascoltano.

 

Inoltre intendo ben anche che le prediche quaresimali debbono differire da quelle di missione. Ma dove l'uditorio è composto per la maggior parte di rozzi scrive il Muratori, come si è detto, che tutte le prediche debbono esser semplici e popolari, affine di cavarne frutto e di aver la consolazione che gli ascoltanti dopo la predica vadano a confessarsi. Io mi ricordo che predicando in Napoli così alla semplice il p. Vitelleschi nella chiesa detta del Gesù Nuovo, non solo vedeasi piena la chiesa, ma ancora affollati i confessionarj di gente che dopo la predica correva a confessarsi. E parlando de' quaresimali che fansi ne' paesi di campagna, dove quasi tutto l'uditorio è composto di poveri villani, ivi, come dice il medesimo Muratori, il parlare ha da essere il più popolare e più infimo (son sue parole) che possa usarsi, affine di proporzionare ciò che si predica al grossolano intendimento di quei rozzi che sentono. Almeno io pregherei i predicatori che vanno in giro per le ville, se non vogliono mutar le prediche che tengon fatte in istile alto, almeno, dico, circa le ultime settimane procurino di dare gli esercizj spirituali verso la sera, quando la gente si ritira dalla campagna, a modo di missione. E li assicuro che ricaveranno più profitto da questi esercizj detti alla semplice che da cento quaresimali che facessero.

 

Del resto, parlando de' quaresimali, io mi consolo che oggidì anche nelle città grandi, come in Napoli, si è abolito quello stile inetto e barbaro, per così dire, che v'era nel secolo passato. Oggidì comunemente si predica con istile familiare e sciolto, e me ne consolo. M'affliggo molto all'incontro in sapere che nelle missioni alcuni giovani hanno introdotto il predicare con istile fiorito; e mi maraviglio de' superiori che permettano a costoro che si pregiano d'esser chiamati missionarj, il predicare in questo modo. Il missionario in ogni predica dee predicar da missionario.


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Facendo una volta un nostro giovine un sermone della b. Vergine, si pose a parlar alto e pulito: io non solo lo feci calar subito dalla cattedra, ma di più gli vietai di dir messa per tre giorni. Il missionario, dico, sempre dee predicar da missionario, ma specialmente poi nelle missioni; altrimenti ne darà doppio conto a Dio, così per lo poco frutto che ricaverà dalle sue prediche, come pel mal esempio che darà agli altri di rimuoversi dal predicare collo stile di missione, che ha da essere tutto semplice e popolare. Non pretendo già che le prediche di quaresima sieno prediche di missione, ma le prediche di missione certamente non hanno da essere come le prediche di quaresima. E non intendo neppure, siccome di sopra già accennai, che le prediche di missione non debbano esser composte col loro buon ordine e colle regole dell'arte oratoria e fornite anche di tropi e di figure (delle quali qui appresso parleremo) dove fa bisogno: ma, come dice il Muratori, tutto ha da essere alla semplice e senza farlo apparire: poiché le prediche di missione debbono esser composte di dottrine facili, di moralità proprie e di pratiche cristiane. Questo è quello spezzar il pane che Dio esige da tutti i predicatori, ma specialmente da' missionarj: Frange esurienti panem tuum1.

 

Prego il mio lettore a fare la seguente preghiera con me: Signor mio Gesù Cristo, voi che per salvare le anime avete data la vita, date voi luce e spirito a tanti sacerdoti che potrebbero convertire molti peccatori e santificare il mondo, se predicassero la vostra parola senza vanità ed alla semplice, come l'avete predicata voi e i vostri discepoli; ma non lo fanno e predicano sé stessi; e così il mondo è pieno di predicatori, e frattanto l'inferno si riempie d'anime. Signore, rimediate voi a questa gran ruina che nella vostra chiesa avviene per colpa de' predicatori.

 

De' tropi.

 

Il tropo è una mutazione della parola o della sentenza dal suo proprio significato in un altro per ragione di qualche simiglianza ch'esse hanno. I tropi differiscono dalle figure, perché i tropi trasportano le parole ad altro significato ch'è lor naturale; ma le figure non le trasportano, come vedremo. I tropi principali son sei: metafora, allegoria, ironia, iperbole, antonomasia e metonimia. E per 1. la metafora è una traslazione di voce, fatta a significare una cosa non propria, bastando per la metafora che quella voce abbia qualche simiglianza colla cosa significata; come, per esempio, i sacerdoti son chiamati luce del mondo e sale della terra. Non importa poi se si trasporti il significato da una cosa animata ad un'altra inanimata e così e converso. L'uso delle metafore non dee esser frequente. Né debbono le metafore essere oscureprendersi da cose troppo basse o troppo sublimi. 2. L'allegoria è una metafora continuata, come quando si dice che Gesù Cristo è la vite e noi siamo i tralci; e che i tralci uniti alla vite dan frutto, ma recisi non servono che per lo fuoco. 3. L'ironia è quando s'intende l'opposto di ciò che significano le parole. È necessario per tanto, in parlar di Dio, che il parlare ironico s'intenda chiaramente dagli uditori e si apprenda nel suo ironico senso. 4. L'iperbole è quando una cosa fuor di modo s'ingrandisce o si abbassa,


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eccedendosi nell'espressione, per timore di non esprimere la cosa abbastanza, come quando Dio disse ad Abramo: Multiplicabo semen tuum sicut stellas coeli. L'uso delle iperboli dee esser molto raro. 5. L'antonomasia si fa quando, in vece di dare ad una cosa il proprio nome, se le ne un altro, con cui venga a spiegarsi l'eccellenza della bontà o della malizia che in lei si ritrova, come quando Lucifero chiamasi il superbo o il dragone. L'antonomasia può farsi in quattro modi. 1. Attribuendo un nome comune a molti ad un solo per qualche sua speciale eccellenza, siccome a s. Paolo si attribuisce per antonomasia il nome d'apostolo e a s. Giovanni del discepolo diletto. 2. Attribuendo il nome particolare d'alcuno, eccellente in qualche essere, ad un altro, v. gr. chiamando un goloso per antonomasia l'epulone. 3. L'antonomasia può prendersi anche dal luogo, come quando s. Agostino si chiama il dottore d'Ippona. 4. L'antonomasia si prende anche da' fatti egregi, siccome s. Francesco Saverio si chiama l'apostolo dell'Indie. 6. La metonimia si fa quando il nome proprio d'una cosa s'attribuisce ad un'altra per ragione d'un certo vincolo naturale che la congiunge. E 1. quando si prende la causa per l'effetto, v. gr. Habent Moysen et prophetas1, intendendo i libri di Mosè e de' profeti. 2. Quando all'incontro si prende l'effetto per la causa; v. gr. Mors in olla, prendendo la pignatta per l'erbe velenose che in quella erano. 3. Quando si prende il soggetto per lo predicato, v. gr. Praebe, fili mi, cor tuum mihi; chiedendo Iddio all'uomo il cuore, gli domanda l'amore che ha la sede nel

 




1 Eph. 5. 8.



2 1. Cor. 2. 1. et 4.



3 Sup. Ezechiel.



4 Epist. 75.



5 Epist. 34.



1 In epist. ad Cor.



2 2. Cor. 2. 17.



3 Mor. l. 6. c. 33.



4 De vita cont. l. 3. c. 34.



5 1. Cor. 1. 17.



6 Hom. 39. in ep. 1. Cor. 14.



7 Rev. l. 6. c. 35.



8 L'uomo apostolico al pulpito, c. 15. n. 10.



1 Die 13. april.



2 Die 13. octobr.



3 Della carità cristiana, t. 2. c. 25.



4 ep. 115.



1 Isa. 58. 7.



1 Luc. 16. 29






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