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S. Alfonso Maria de Liguori
Sermoni compendiati

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SERMONE V - PER LA DOMENICA FRA L'OTTAVA DI NATALE

 

Dove consiste 1a vera sapienza.

Positus est hic in ruinam et resurrectionem multorum. (Luc. 2. 34.)

 

Così disse il santo vecchio Simeone, allorché ebbe la consolazione di tenere in braccio il bambino Gesù. Tra le altre profezie che allora proferì, una fu questa: Positus est hic in ruinam et resurrectionem multorum. Con tali parole egli lodò la sorte de' santi, che dopo la presente vita risorgeranno alla vita eterna nel regno de' beati; e deplorò la disgrazia de' peccatori, che per i brevi e miseri gusti di questa vita si tirano sopra la rovina della loro perdizione eterna. Con tutto ciò questi miserabili, pensando solo a godere dei beni presenti, chiamano pazzi i santi che cercano di vivere poveri umiliati e mortificati. Ma verrà un giorno in cui conosceranno di aver errato, e diranno: Nos insensati, vitam illorum aestimabamus insaniam1. Nos insensati, ecco come confesseranno che


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essi sono stati i veri pazzi. Esaminiamo dove consiste la vera sapienza, e vedremo

 

Nel punto I. Che i Peccatori sono i veri pazzi;

 

Nel punto II. Che i santi sono i veri savj.

 

PUNTO I. I peccatori sono i veri pazzi.

 

E qual maggior pazzia, che potendo essere amici di Dio, l'han voluto per nemico? E ciò è stata la causa di fare una vita infelice, e di acquistarsi poi dannandosi un'infelicità eterna. Narra s. Agostino, che ritrovandosi due cortigiani dell'imperatore in un monastero di solitarj, uno di loro prese a leggere ivi la vita di s. Antonio abate: Legebat, scrive il santo, et exuebatur mundo cor eius: leggeva, e leggendo si andava staccando dagli affetti del mondo. Indi rivolto al compagno, gli parlò così: Quid quaerimus? Maior ne esse potest spes nostra, quam quod amici imperatoris simus? Et per quot pericula ad maius periculum pervenitur? Et quamdiu hoc erit? Amico, gli disse, pazzi che siamo, che andiamo cercando? Possiamo noi sperare più in questa terra, servendo l'imperatore, che diventare suoi amici? Al che giungendo dopo tanti pericoli, ci esporremo a maggior pericolo della salute eterna. E quando poi avverrebbe ciò, di giungere ad essere amici di Cesare? E poi concluse: Amicus autem Dei, si voluero, ecce nunc fio. Se io voglio, disse, esser amico di Dio, ora posso diventarlo col procurare di ritornare nella sua grazia: la sua divina grazia è quel tesoro infinito che ci fa degni della sua amicizia: Infinitus enim thesaurus est hominibus; quo qui usi sunt, participes facti sunt amicitiae Dei1.

 

I gentili stimavano impossibile che la creatura potesse mai ottenere di avere amicizia con Dio, mentre l'amicizia rende gli amici eguali tra di loro, come dice s. Girolamo: Amicitia pares accipit, aut pares facit. Ciò però non ostante Gesù Cristo medesimo disse, che se noi osserviamo i suoi precetti, saremo suoi amici: Vos amici mei estis, si feceritis quae ego praecipio vobis2.

 

Or qual pazzia, replico, è de' peccatori, che potendo goder l'amicizia di Dio, vogliono vivere nell'odio di Dio! Il Signore non odia alcuna sua creatura, non odia le tigri, le vipere, i rospi: Diligis enim omnia quae sunt, et nihil odisti eorum quae fecisti3. All'incontro Iddio non può non odiare i peccatori: Odisti omnes qui operantur iniquitatem4. Sì, perché Dio non può non odiare il peccato, come quel suo nemico, che è tutto contrario alla sua volontà: e perciò odiando il peccato, necessariamente odia il peccatore che sta unito col peccato: Similiter autem odio sunt Deo, impius et impietas eius5.

 

L'altra pazzia del peccatore è il fare una vita contraria al fine per cui l'ha creato Iddio. Iddio non ci ha creati né ci conserva la vita, acciocché attendiamo a farci ricchi, ad acquistare onori di terra, a pigliarci spassi, ma acciocché l'amiamo e serviamo in questo mondo, per andare ad amarlo e goderlo eternamente nell'altro: Finem vero vitam aeternam, scrive l'apostolo6. Sicché la vita presente, come dice s. Gregorio, è per noi come la via, la quale ci è data


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per giungere alla nostra patria, che è il paradiso: In praesenti vita quasi in via sumus, qua ad patriam pergimus1.

 

Ma la disgrazia della maggior parte degli uomini è che vivendo impazziscono, poiché invece di camminar la via della loro salute, camminano la via della loro dannazione. Chi impazzisce per le robe, e per un vile interesse, perde i beni immensi del paradiso: chi impazzisce per gli onori e per un poco di fumo, perde la sorte di esser fatto re del cielo: chi impazzisce per i piaceri del senso, e per tali brevi miseri diletti, perde la grazia di Dio, e si condanna ad ardere per sempre nella carcere dell'inferno. Poveri pazzi! Se a taluno, dopo quel peccato dovesse esser bruciata una mano con un ferro infuocato, se dovesse star chiuso in una camera oscura per dieci anni, certamente non lo farebbe; e non sa il misero che peccando, sarà condannato a star sempre chiuso nella fossa dell'inferno, dove seppellito nel fuoco dovrà ardere il suo corpo per tutta l'eternità? Alcuni, scrive s. Giovanni Grisostomo2, per salvare il corpo, eleggono di perdere l'anima; ma non vedono che perdendo l'anima, perdono ancora il corpo, che sarà condannato a patire i tormenti eterni? Si animam negligimus, nec corpus salvare poterimus.

 

Perdono in somma i peccatori talmente il senno, che diventano come bruti, i quali seguitando l'istinto del senso, afferrano quel che piace alla carne, senza pensare a quel che è lecito o illecito. Ma ciò, dice s. Giovanni Grisostomo, non è operare da uomo, ma da bestia: Hominem illum dicimus, scrive il santo, qui imaginem hominis salvam retinet: quae autem est imago hominis? Rationalem esse. L'essere uomo importa l'esser ragionevole, cioè l'operare non secondo l'appetito del senso, ma secondo la ragione. Se Dio desse ad una bestia l'uso di ragione, e quella secondo la ragione operasse, direbbesi che la bestia opera da uomo; così all'incontro quando l'uomo opera secondo il senso, ma contro la ragione, che dee dirsi? Dee dirsi che quell'uomo opera da bestia. Chi opera da uomo secondo la ragione, prevede il futuro: Utinam saperent et intelligerent, et novissima praeviderent3!. Prevede il futuro, cioè quello che dee avvenire appresso il fine della vita, cioè il rendimento de' conti che dee fare nel punto di sua morte, dopo la quale sarà destinato all'inferno, o al paradiso secondo si avrà meritato. Scrive s. Bernardo4: Non ergo sapiens, qui sibi non est.

 

I peccatori pensano solamente al presente, senza pensare al fine per cui son creati. Ma che serve loro guadagnare ogni altra cosa, e non ottenere il fine che solamente può renderci felici? Porro unum est necessarium5. L'ottener questo fine è l'unico negozio necessario per noi: sbagliato questo, è sbagliato tutto. E quale è questo fine? È il conseguire la vita eterna: Finem vero vitam aeternam. I peccatori vivono facendo poco conto di conseguir questo fine, frattanto si accostano alla morte, ad entrare nell'eternità, e non sanno dove vanno a parare. Se il piloto d'una nave dimandato dove va, rispondesse che non lo sa, chi non direbbe,


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dice s. Agostino, che costui porta la nave a perdersi? Fac hominem perdidisse quo tendit, et dicatur ei: Quo is? et dicat nescio; nonne iste navem ad naufragium perducet? E poi conclude il santo: Talis est qui currit praeter viam. Tali sono que' savj del mondo che sanno far danari, ottenere onori, prendersi molti spassi, ma non sanno salvarsi l'anima. Povero Epulone che seppe farsi ricco e vivere splendidamente, ma poi morì e fu sepolto nell'inferno! Povero Alessandro Magno che seppe acquistar tanti regni, ma poi morendo fu condannato ai tormenti eterni! Povero Arrigo VIII. che dopo essersi ribellato da Cristo e dalla chiesa, vedendo in morte che l'anima sua andava perduta, esclamò disperato: Amici, perdidimus omnia! Oh Dio! e quanti altri similmente ora piangono nell'inferno, e gridano: Quid nobis profuit superbia, aut divitiarum iactantia? Transierunt omnia illa tamquam umbra1. Ecco, dicono, che nel mondo abbiam fatta una gran figura, abbiam avute molte ricchezze ed onori, ma ora tutto è passato come un'ombra, ed altro non ci è restato che il penare e piangere eternamente. Dice s. Agostino che per li peccatori non vi è cosa più infelice della felicità che hanno in questa vita: Nihil est infelicius felicitate peccantium, qua mala voluntas velut hostis interior roboratur2.

 

In somma a tutti questi trascurati della lor anima avviene quel che dice Salomone: Extrema gaudii luctus occupat3. Tutti i loro divertimenti, onori e grandezze finiscono ad una mestizia e pianto eterno: Dum adhuc ordirer, succidit me4. Al meglio che stavano tessendo la tela delle loro speranze, di far fortuna nel mondo, venendo la morte, e troncando la vita loro, fa perdere ogni cosa, e li manda a bruciare per sempre in quella fossa di fuoco. E qual pazzia maggiore può darsi, che da amico di Dio, voler farsi schiavo di Lucifero? Da erede del paradiso, diventare peccando, un condannato all'inferno? Poiché immediatamente che alcuno commette un peccato mortale, viene scritto nel numero de' dannati. Dicea s. Francesco di Sales che se gli angeli potessero piangere nel vedere la rovina che si tira sopra un'anima che commette un peccato mortale, essi non farebbero altro che piangere.

 

Ma la pazzia più grande dove sta? Sta che vivendo in peccato questi malvagi, fanno una vita infelice, poiché tutti i beni del mondo non possono contentare il nostro cuore, che è creato per amare Dio, e fuori di Dio non può mai trovar pace. Che sono tutte le grandezze e le delizie del mondo, se non Vanitas vanitatum5? Vanitas et afflictio spiritus6. Vanità di vanità, viene a dire, mere vanità, bugie ed inganni. Così parla Salomone che ne aveva fatta la sperienza. Ed aggiunge: et afflictio spiritus: tali beni non solo non contentano, ma affliggono l'anima; e quanti più sono tanto più l'affliggono. Sperano i peccatori di trovar pace ne' peccati, ma che pace, che pace! Non est pax impiis, dicit Dominus7. Lascio di stendermi più su questo punto della vita infelice de' peccatori, perché ne parlerò altrove di proposito. Basta per ora il farvi sapere che la


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pace è un dono che Dio fa alle anime che l'amano, non a coloro che lo disprezzano; ed in vece di essere amiche di Dio, vogliono farsi schiave del demonio, il quale è un tiranno crudele che cerca di affliggerci senza misericordia: Crudelis est et non miserebitur1. E se ci promette qualche diletto, non già lo fa, dice s. Cipriano, per nostro bene, ma per averci compagni della sua pena e dell'inferno, ut habeat socios poenae, socios gehennae.

 

PUNTO II. I santi sono i veri savj.

 

Intendiamo che i veri savj sono quelli che sanno amare Dio ed acquistarsi il paradiso. Beato colui, a cui dona il Signore la scienza dei santi: Dedit illi scientiam sanctorum2. Oh che bella scienza è il sapere amare Dio e salvarsi l'anima! Dicea s. Agostino che stimava beato, qui Deum novit, etsi alia nescit. Chi sa conoscere Dio, l'amore che si merita e sa amarlo, non importa che non sappia altre cose, egli sarà più savio di tutti i dotti che sanno molte scienze, ma non sanno amare Dio. Un giorno fra Egidio francescano disse a s. Bonaventura: Padre Bonaventura, beato te che sai tante belle cose e così ti fai più santo di me che sono un povero ignorante! Senti, gli rispose il santo, se una vecchierella ignorante sa amare Dio più di me, ella sarà più dotta e più santa di me. Onde fra Egidio si pose a gridare: O vecchierella, vecchierella, senti quel che dicE p. Bonaventura, se tu ami Dio più di lui, più di lui puoi farti santa.

 

E ciò era quello che invidiava s. Agostino, e lo faceva vergognare di se stesso: Surgunt indocti et rapiunt coelum! Oimè, diceva, sorgono gl'ignoranti e si acquistano il cielo, e noi dotti del mondo che facciamo? Ed in verità quanti rozzi che non sanno leggere, ma sanno amare Dio, si salvano; e quanti savj del mondo si dannano! O che grandi savj furono un s. Giovanni di Dio, un s. Felice cappuccino, un s. Pasquale, poveri laici francescani, ignoranti nelle scienze umane, ma dotti nella scienza de' santi! Ma la maraviglia si è che questa verità gli stessi mondani ben la conoscono, e non lasciano di lodare chi vive distaccato dal mondo per vivere solo a Dio; ma poi in pratica essi fanno tutto il contrario.

 

Ditemi, fratelli miei, di qual compagnia volete essere voi, de' savj del mondo o de' savj di Dio? Proficiscamur ad sepulcra, ci consiglia per bene eleggere s. Giovanni Grisostomo: oh che belle scuole sono le sepolture de' morti per conoscere la vanità de' beni di questo mondo, e per apprendere la scienza de' santi! Io per me, disse il santo, nihil video, nisi putredinem, ossa et vermes. E vuol dire: io tra quei cadaveri non so conoscere chi sia stato nobile, chi ricco e chi letterato; tutti li miro diventati putredine e scheletri, sicché tutte le loro grandezze e gloria, colla morte son finite come un sogno.

 

Dunque che abbiamo da fare? Ecco il consiglio di s. Paolo: Hoc itaque dico, fratres: Tempus breve est; reliquum est, ut... qui utuntur hoc mundo, tamquam non utantur; praeterit enim figura huius mundi3. Questo mondo è una scena che passa e finisce tra poco, tempus breve est. Procuriamo ne' giorni che ci restano a vivere in questa terra, di vivere da


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savj, non del mondo, ma di Dio, con attendere a salvarci l'anima, e praticare i mezzi per salvarla con fuggire le occasioni pericolose, fare l'orazione, frequentare la congregazione, frequentare i sacramenti, leggere ogni giorno qualche libro spirituale, ogni giorno, quando si può, sentir la messa, o almeno visitar Gesù Cristo sacramentato negli altari e Maria ss. in qualche sua divota immagine. E così diventeremo veri savj, e ce ne troveremo contenti in questa vita e per tutta l'eternità.

 




1 Sap. 5. 4.

1 Sap. 7. 14.

2 Ioan. 15. 14.

3 Sap. 11. 15.

4 Psal. 5. 7.

5 Sap. 14. 9.

6 Rom. 6. 22.

1 S. Greg. Hom. 11. in Evang.

2 Hom. de recup. Iaps.

3 Deut. 32. 29.

4 L. de Consid.

5 Luc. 10. 42.

1 Sap. 5. 8. et 9.

2 Ep. 5. ad Marcellin.

3 Prov. 14. 13.

4 Isa. 38. 12.

5 Eccl. 1. 2.

6 Ibid. 4. 16.

7 Isa. 48. 22.

1 Ier. 6. 23.

2 Sap. 10. 10.

3 1. Cor. 7. 29. et 31.




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