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S. Alfonso Maria de Liguori
Sermoni compendiati

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SERMONE VI. - PER LA DOMENICA I. DOPO L'EPIFANIA

 

Della malizia del peccato mortale.

Ego et pater tuus dolentes quaerebamus te.

(Luc. 2. 48.)

 

Maria ss. avendo disperso Gesù in quei tre giorni, non fece altro che piangere per averlo perduto di vista, e non lasciò di cercarlo, finché non lo ritrovò. E come va poi che tanti peccatori non già perdono la vista di Gesù Cristo, ma perdono la sua divina grazia, e non piangono, e dormono in pace, e non cercano di ritrovarla? Ciò accade, perché essi non intendono che viene a dire perdere Dio col peccato. Dice taluno: io fo quel peccato non per perdere Dio, ma per pigliarmi quel piacere, quella roba d'altri, quella vendetta. Chi parla cosi, è segno che non intende la malizia del peccato mortale. Che cosa è il peccato mortale?

 

Punto I. È un gran disprezzo che si fa di Dio;

 

Punto II. È un gran disgusto che si a Dio.

 

PUNTO I. Il peccato mortale è un gran disprezzo che si fa di Dio.

 

Il Signore chiama il cielo e la terra a detestare l'ingratitudine che gli usano gli uomini che peccano mortalmente, dopo che esso gli ha creati, nutriti col suo sangue, ed esaltati sino a renderli suoi figliuoli adottivi: Audite coeli, auribus percipe terra: filios enutrivi et exaltavi, ipsi autem spreverunt me1. Chi è questo Dio disprezzato da' peccatori? Egli è una maestà infinita, a confronto del quale tutti i re della terra e tutti i beati del cielo sono meno d'una stilla d'acqua e meno di un acino di arena: Quasi stilla situlae, pulvis exiguus2. Iddio in somma è così grande, che tutte le creature a fronte di lui sono tanto picciole, come se non vi fossero: Omnes gentes quasi non sint, sic sunt coram eo3. E l'uomo che l'offende, chi è? Risponde s. Bernardo: Saccus vermium, cibus vermium, un sacco di vermi, e cibo di vermi che lo divoreranno nella sepoltura. Miser et miserabilis pauper et caecus et nudus4: È un miserabile che non può niente, cieco che niente sa conoscere, nudo che niente ha. E questo verme ha l'ardire di disprezzare un Dio, e muoverlo a sdegno! Tam terribilem maiestatem audet vilis pulvisculus irritare! dice lo stesso s. Bernardo. Ha ragione dunque s. Tomaso l'angelico di scrivere che il peccato mortale ha una malizia quasi infinita: Peccatum habet quamdam infinitatem malitiae ex infinitate divinae maiestatis5. E s. Agostino chiama il peccato assolutamente infinitum malum. E perciò l'inferno e mille inferni non bastano a castigare un solo peccato mortale.

 

Il peccato mortale si difinisce comunemente da' teologi: Aversio ab


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incommutabili bono1. Aversio, viene a dire una voltata di spalle che si fa al sommo bene. Di ciò si lamenta Iddio col peccatore dicendo: Tu reliquisti me, dicit Dominus, retrorsum abiisti2: Ingrato, dice Dio, io non mi sarei mai separato da te, tu sei stato il primo a lasciarmi; retrorsum abiisti, mi hai voltate le spalle.

 

Chi disprezza la divina legge, disprezza Dio, sapendo già che disprezzando la legge, perde la divina grazia: Per praevaricationem legis, scrive l'apostolo, Deum inhonoras3. Iddio perché ha create tutte le cose, perciò è signore del tutto: In ditione enim tua cuncta sunt posita... tu fecisti coelum et terram4. Quindi è che tutte le creature insensate, i venti, il mare, il fuoco, le pioggie ubbidiscono a Dio: Venti et mare obediunt ei5: Ignis, grando, nix, glacies faciunt verbum eius6. Ma l'uomo quando pecca, dice a Dio: Signore, voi mi comandate, ma io non voglio ubbidirvi: mi comandate ch'io perdoni quell'ingiuria, ma io voglio vendicarmi: mi comandate ch'io lasci la roba d'altri, ma io voglio pigliarmela: volete ch'io mi astenga da quel piacere disonesto, ma io non voglio astenermene: Confregisti, dice Dio, iugum meum, rupisti vincula mea et dixisti: non serviam7. In somma il peccatore, allorché rompe il precetto, dice a Dio: io non vi conosco per mio Signore: come appunto risposo Faraone a Mosè, quando Mosè gl'impose da parte di Dio che lasciasse in libertà il suo popolo: Quis est Dominus, ut audiam vocem eius, et dimittam Israel? Nescio Dominum8.

 

Cresce il disprezzo che si fa a Dio col peccato, considerando la viltà de' beni, per i quali il peccatore offende Dio: Propter quid irritavit impius Deum9? Perché da tanti si offende Dio? Per un fumo, per uno sfogo d'ira, per un gusto di bestia! Violabant me propter pugillum hordei et fragmen panis10. Si disprezza Dio per un pugno di orzo, per un pezzo di pane. Oh Dio! E perché ci facciamo ingannare così facilmente dal demonio? Dice il profeta Osea11: In manu eius statera dolosa. Perché non pesiamo le cose colla bilancia di Dio che non può ingannarci, e vogliamo pesarle colla bilancia del nemico, il quale non cerca altro che ingannarci per condurci seco all'inferno? Domine, quis similis tibi? dicea Davide12. Iddio è un bene infinito; ond'è che quando si vede posto a confronto dai peccatori con quel poco di terra, con quella misera soddisfazione, con ragione si lamenta per Isaia, e loro dice: Cui assimilastis me et adaequastis me? dicit Sanctus13. Dunque presso di te valeva più quel vil piacere, che la grazia mia? Che per ciò mi hai posposto a quello? Proiecisti me post corpus tuum14. Dunque, soggiunge Salviano: Nullus pene apud homines vilior est, quam Deus 15. Iddio è stato così vile agli occhi tuoi, che ha meritato di esser posposto alle cose miserabili di questa terra?

 

A s. Clemente il tiranno fece porre avanti un mucchio di oro, di argento e di gemme, per dargliele se rinunziava alla fede di Gesù Cristo: il santo allora diede un gran sospiro, considerando la cecità degli uomini,


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che metteano un poco di terra a confronto di Dio. Ma molti peccatori per molto meno di ciò cambiano la grazia di Dio, si attaccano a certi miseri beni, e lasciano Dio, ch'è un bene infinito, e che solo può farli contenti. Di ciò si lamenta il Signore per Geremia, e prima parla ai cieli che si stupiscano e si spiantino le sue porte per l'orrore: Obstupescite coeli super hoc, et portae eius desolamini vehementer; e poi soggiunge: Duo enim mala fecit populus meus me dereliquerunt fontem aquae vivae et foderunt sibi cisternas, cisternas dissipatas, quae continere non valent aquas1. Noi ci maravigliamo dell'ingiustizia che i giudei fecero a Gesù Cristo, quando Pilato proponendo loro chi volessero liberato, Gesù o Barabba, quelli risposero: Non hunc, sed Barabbam2. Peggio fanno i peccatori, i quali, proponendo loro il demonio, chi vogliono eleggere, se quel gusto di vendicarsi, quel piacere schifoso, l'intento di vincere quel puntiglio o Gesù Cristo? Rispondono: Non hunc, sed Barabbam, cioè il peccato.

 

Dice Dio: Non erit in te Deus recens3. Io non voglio che lasci me tuo vero Dio, e ti faccia un Dio nuovo, a cui ti metti a servire: sì perché dice s. Cipriano, che ciò che l'uomo preferisce a Dio, lo rende suo Dio; mentre lo rende suo ultimo fine, quando il nostro ultimo fine è Dio solo: Quidquid homo Deo anteponit, Deum sibi facit. E s. Girolamo scrive4: Unusquisque quod cupit, si veneratur, hoc illi Deus est. Vitium in corde, est idolum in altari. Quella creatura che viene anteposta a Dio da alcuno, diventa per lui il suo Dio; onde dice il santo dottore che siccome i gentili adoravano gli idoli negli altari, così i malvagi adorano il peccato ne' loro cuori. Il re Geroboamo quando si ribellò da Dio procurò di tirare il popolo ad adorare gli idoli, com'egli facea; onde un giorno mettendogli avanti gl'idoli suoi gli disse: Ecce Dii tui, Israel5. Così fa il demonio; presenta al peccatore quella soddisfazione e dice: che ne vuoi fare di Dio? ecco il Dio tuo, questo diletto, questo danaro, questa vendetta, prenditi questa, e lascia Dio. E il peccatore, quando acconsente, così fa, lascia Dio, e adora per Dio nel suo cuore quella soddisfazione: Vitium in corde, est idolum in altari.

 

Cresce di più il disprezzo che fa di Dio il peccatore, peccando nella sua presenza. Scrive s. Cirillo Gerosolimitano6 che alcuni popoli aveano costituito il sole per loro Dio, acciocché nella notte, in cui non v'è il sole, potessero fare quel che voleano, pensando che allora non vi era Dio che li punisse: Alii solem ponebant Deum, ut occidente sole sine Deo essent. Questi miseri ingannati, facendo così, anche peccavano; ma almeno aveano quel riguardo di non peccare alla presenza del loro Dio; ma il cristiano sa che Dio sta da per tutto, e tutto vede: dice Dio per Geremia7: Coelum et terram ego impleo; e con tutto ciò non si astiene il peccatore di offendere Dio, e provocarlo a sdegno avanti gli occhi suoi: Ad iracundiam provocat me ante faciem meam8. Onde dice poi il Signore che il peccatore, non ripugnando di peccare avanti di lui suo giudice, lo fa anche testimonio de' suoi peccati: Ego sum


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iudex et testis1. Scrive s. Pier Grisologo: Excusatione caret, qui facinus ipso iudice teste committit. Per chi commette un delitto, del quale è testimonio lo stesso giudice, non vi è alcuna scusa che possa giovargli. Questo pensiero di aver offeso Dio avanti gli occhi suoi, era quello che più facea piangere Davide, dicendo a Dio: Tibi soli peccavi, et malum coram te feci2. Ma passiamo al secondo punto, in cui maggiormente vedremo quanto è grande la malizia del peccato mortale.

 

PUNTO II. Il peccato mortale è un gran disgusto che si a Dio.

 

Non vi è disgusto più amaro che il vedersi maltrattato da una persona amata e beneficata. Il peccatore chi disprezza? Disprezza un Dio che gli ha fatti tanti beneficj, e l'ha amato sino a morir crocifisso per amore di lui: e l'uomo facendo un peccato mortale, discaccia Dio dal suo cuore. Un'anima che ama Dio, è amata da Dio; e viene Dio stesso ad abitare in essa: Si quis diligit me, Pater meus diliget eum et ad eum veniemus, et mansionem apud eum faciemus3. Sicché il Signore non si parte da quell'anima, se ella non lo discaccia, ancorché sapesse Dio che quella tra poco tempo l'ha da discacciare: Non deserit, nisi deseratur, come parla il concilio di Trento.

 

Quando poi l'anima consente al peccato mortale, allora dice a Dio l'ingrata: Signore, partitevi da me: Impii dixerunt Deo: recede a nobis4. Non lo dice colla bocca, ma col fatto, come avverte s. Gregorio: Recede, non verbis, sed moribus. Già sa il peccatore che Dio non può stare col peccato, onde già vede che peccando egli, Iddio si ha da partire, onde gli dice: giacché voi non potete stare più meco, e voi partitevi, buon viaggio. E per quella stessa porta per la quale esce Dio dall'anima, vi entra il demonio a pigliarne il possesso. Quando il sacerdote battezza un bambino, ordina al demonio che si parta da quell'anima: Exi ab eo, immunde spiritus, et da locum Spiritui sancto, come si dice nel rituale; ma quando l'uomo consente al peccato, dice a Dio: exi a me, Domine, da locum diabolo, esci da me, Signore, luogo al demonio, a cui voglio servire.

 

Scrive s. Bernardo che il peccato mortale è così contrario a Dio, che se Dio fosse capace di morte, il peccato lo priverebbe di vita: Peccatum quantum in se est Deum perimit. Quindi disse Giobbe che l'uomo quando commette un peccato mortale, se la piglia con Dio, e stende la mano contro di lui: Tetendit enim adversus Deum manum suam; et contra omnipotentem roboratus est5.

 

Dice s. Bernardo che chi pecca colla propria volontà, per quanto è di malizia in essa, toglie la vita a Dio: Quantum in ipsa est, Deum perimit propria voluntas6. E poi ne soggiunge la ragione: Vellet Deum peccata sua videre, et vindicare non posse7. Già sa il peccatore che facendo quel peccato Dio lo condanna all'inferno; onde, perché egli risolutamente vuol peccare, vorrebbe allora che Iddio non ci fosse; e per conseguenza vorrebbe torgli la vita, acciocché non potesse castigarlo: Cucurrit, siegue a parlare Giobbe, adversus eum erecto collo, et pingui cervice


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armatus est. Allora alza il collo, cioè la superbia, e corre ad offendere Dio, e perché se la prende con un gran potente, si arma, e di che si arma? Si arma pingui cervice, d'una testa grassa: il grasso è il simbolo dell'ignoranza, onde si arma d'ignoranza con dire: Questo non è gran peccato; Dio è di misericordia: siamo di carne, il Signore ci compatisce. Oh temerità! Oh inganno che ne porta tanti cristiani all'inferno!

 

Inoltre chi commette un peccato mortale che fa? Affligge il cuore di Dio: Ipsi autem ad iracundiam provocaverunt et afflixerunt Spiritum sancti eius1. Qual pena tu sentiresti, se sapessi che alcuno da te molto amato e beneficato, avesse procurato di levarti la vita? Iddio non è capace di dolore, ma se ne fosse capace, un solo peccato mortale basterebbe a farlo morire di malinconia, come dice il p. Medina: Peccatum mortale, si possibile esset, destrueret ipsum Deum, eo quod causa esset tristitiae in Deo infinitae. Fratello mio, dunque, allorché hai commesso un peccato mortale, se Dio avesse potuto morire, tu l'avresti fatto già morir di dolore, vedendo che tu lo ingiuriavi e gli voltavi le spalle, dopo ch'egli ti ha fatto tanto bene, ed è giunto a dare tutto il suo sangue e la vita per te. Atto di dolore ec.

 




1 Isa. 1. 2.

2 Isa. 40. 15

3 Isa. 40. 17.

4 Apoc. 3. 17.

5 S. Th. q. 3. q. 2. a. 2. ad 2.

1 S. Thom. part. 1. q. 24. a. 4.

2 Ier. 15. 6.

3 Rom. 2. 23.

4 Esther. 13. 9.

5 Matth. 8. 27.

6 Ps. 148. 8.

7 Ierem. 2. 20.

8 Exod. 5. 2.

9 Ps. 10. 13.

10 Ezech. 13. 19.

11 12. 7.

12 Ps. 34. 10.

13 Isa. 40. 25.

14 Ezech. 23. 25.

15 L. 5. adv. Avar.

1 Ierem. 2. 12. et 13.

2 Io. 18. 40.

3 Ps. 80. 10.

4 In ps. 80.

5 3. Reg. 12. 28.

6 Catech. 4.

7 23. 24

8 Isa. 65. 3.

1 Ier. 29. 23.

2 Psal. 50.

3 Ioan. 14. 23.

4 Iob. 21. 14.

5 Iob. 15. 25.

6 Serm. 3. de Res.

7 Ibid.

1 Isa. 63. 10.




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