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S. Alfonso Maria de Liguori
Sermoni compendiati

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SERMONE XXXV. - PER LA DOMENICA VI. DOPO PENTECOSTE

 

Della vanità del mondo.

Nec habent quod manducent. (Marc. 8. 2.)

 

Era tale l'attrattiva del nostro divin Salvatore e la dolcezza colla quale accoglieva tutti, che si tirava la gente a migliaia dietro di sé. Un giorno videsi circondato da una gran moltitudine di uomini, che avendolo seguitato, per tre giorni erano stati senza mangiare. Onde essendosene mosso a compassione, Gesù Cristo disse a' suoi discepoli: Misereor super turbam, quia ecce iam triduo sustinent me, nec habent quod manducent. Compatisco questa povera gente, che da tre giorni mi viene appresso, e non ha di che cibarsi. Pertanto


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fece il miracolo di moltiplicare sette pani e certi pochi pesci che vi erano, e così saziò tutti. Questo è il senso letterale; ma il senso mistico è che in questo mondo non vi è cibo che possa saziare le anime nostre. Tutti i beni della terra, le robe, gli onori, i piaceri allettano i sensi del corpo, ma non possono saziare l'anima che è creata per Dio, e solo Dio può contentarla. Quindi voglio oggi parlarvi della vanità del mondo, e dimostrarvi quanto vivono ingannati gli amanti del mondo, mentre su questa terra fanno una vita infelice, e si mettono in gran pericolo di far poi una vita più infelice nell'eternità.

 

Esclama il profeta regale contro i mondani: Filii hominum, usquequo gravi corde? Ut quid diligitis vanitatem, et quaeritis mendacium1? O uomini, dice, o pazzi, sino a quando terrete il cuore attaccato alla terra? Perché amate le vanità, le bugie, quali sono tutti i beni del mondo? Voi credete di trovar pace, coll'acquisto di tali beni? Ma come volete trovar pace, se lasciate la via della pace, e camminate per le vie dell'afflizione e dell'infelicità? Ecco come ve lo manifesta lo stesso Davide: Contritio et infelicitas in viis eorum, et viam pacis non cognoverunt2. Voi sperate ottener la pace dal mondo; ma come il mondo può darvi la pace che cercate, mentre dice s. Giovanni: Mundus totus in maligno positus est3? Il mondo è pieno d'iniquità, onde i mondani vivono schiavi sotto la potestà del maligno, cioè del demonio. Il Signore ha dichiarato che non vi è pace per gli empj che vivono privi della sua grazia: Non est pax impiis4.

 

I beni del mondo sono beni apparenti che non possono saziare il cuore dell'uomo: Comedistis, et non estis satiati5. In vece di saziar la nostra fame, dice s. Bernardo, più presto l'accrescono: Haec potius famem provocant, quam extinguunt. Se i beni di questo mondo contentassero l'uomo, i potenti, i ricchi sarebbero appieno felici; ma la sperienza dimostra tutto il contrario, fa vedere che questi sono i più infelici, sempre oppressi dai timori, dalle gelosie o dalle tristezze. Udiamo il re Salomone, che abbondò di questi beni; che dice? Et ecce universa vanitas et afflictio spiritus6. Dice che ogni cosa di questo mondo è vanità, bugia, inganno: e non solo è vanità, ma anche afflizione, tormento della povera anima, che in tutti i beni terreni non trova cosa che la contenti, ma ogni cosa l'affligge e le apporta amarezze. Giusta pena di coloro, che in vece di servire al loro Dio con gaudio, vogliono servire al nemico, cioè al mondo, che loro fa patire la penuria d'ogni bene: Eo quod non servieris Domino Deo tuo in gaudio... servies inimico tuo in fame, et siti, et nuditate, et omni penuria7. Sì perché l'uomo pensa con questi beni di terra di contentare il suo cuore, ma essendo che per quanti ne ottenga non resta mai contento, perciò sempre più ne dimanda, e sempre resta scontento. Oh beato chi non vuole altro che Dio, perché Dio, come dice Davide, saprà ben contentare tutte le dimande del di lui cuore: Delectare in Domino, et dabit tibi petitiones cordis tui8. Onde poi scrisse s. Agostino:

 


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Quid quaeris, homuncio, quaerendo bona? Quaere unum bonum in quo sunt omnia bona. Ed avendo il santo a sue spese imparato che i beni di questo mondo non contentano i nostri cuori, ma più li affliggono, rivolto a Dio poi dicea: Dura sunt omnia, et tu solus requies. Quindi avveniva che il serafino s. Francesco, benché fosse spogliato di ogni cosa, nondimeno si trovava il più ricco e contento di tutti i mondani nel ripetere che facea: Deus meus et omnia. Sì, perché la pace che gode chi non vuole altro che Dio supera tutto il diletto che possono dare le creature, le quali dilettano il senso, ma non posson contentare il cuore dell'uomo: Pax Dei quae exsuperat omnem sensum1. Questa è la differenza, dice s. Tommaso, che passa tra il sommo bene che è Dio, ed i beni di questa terra; che Dio quanto più si possiede, tanto più si ama, perché sempre più allora si conosce la sua infinita grandezza, e perciò si disprezzano le altre cose: ma i beni temporali quando si ottengono si disprezzano; perché allora si conosce la loro picciolezza, e si desiderano altre cose che possano contentarci: Summum bonum quanto perfectius possidetur, tanto magis amatur, et alia contemnuntur. Sed in appetitu temporalium bonorum, quando habentur contemnuntur, et alia appetuntur2.

 

Ci avverte il profeta Osea che il mondo tiene in mano una bilancia che inganna: Chanaan, cioè il mondo, in manu eius statera dolosa3. Bisogna dunque che pesiamo i beni nella bilancia di Dio, non già in quella del mondo che ci fa apparire le cose diverse da quelle che sono. Che sono in somma i beni di questa vita presente? Dies mei, dicea Giobbe, velociores fuerunt cursore, pertransierunt quasi naves poma portantes4. Le navi sono le vite degli uomini, che presto passano e corrono alla morte; ma se questi uomini hanno atteso a solamente provvedersi di beni terreni, tali beni non sono che pomi, i quali marciscono in punto di morte, e nulla di essi potranno seco portare nell'altro mondo. Falsamente, dice s. Ambrogio, noi chiamiamo beni nostri quelli che non possiamo condurre con noi nell'eternità; ove dovremo vivere per sempre, ed ove la sola virtù ci accompagnerà: Non nostra sunt quae non possumus auferre nobiscum; sola virtus nos comitatur. E s. Agostino scrive: tu stai a vedere solamente ciò che possedea quel ricco, ma dimmi, or che sen muore, che cosa di tutti i suoi averi si porta? Quid hic habebat attendis, quid secum fert attende5. Appena questi tali in morte porteranno seco una misera veste, che con essi ha da infracidirsi nella sepoltura. E se vivendo hanno avuto un gran nome, presto dopo la loro morte si perderà la di loro memoria: Periit memoria eorum cum sonitu6.

 

Oh se avessero sempre gli uomini avanti gli occhi quella gran sentenza di Gesù Cristo: Quid enim prodest homini, si mundum universum lucretur, animae vero suae detrimentum patiatur7? Certamente lascerebbero tutti di amare il mondo. Che gioverà in punto di morte l'avere acquistati tutti i beni del mondo, se


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l'anima dovrà andare a penar per tutta l'eternità all'inferno? Questa sentenza quante persone ha mandate a chiudersi ne' chiostri, ad intanarsi ne' deserti, ad abbracciarsi co' tormenti e colla morte, come han fatto i santi martiri! Nell'istoria d'Inghilterra leggonsi da trenta re e regine, che lasciarono il mondo, e si fecero religiosi per accertare una buona morte. Questo pensiero ben anche della vanità del mondo fece lasciare il mondo a s. Francesco Borgia, il quale a vista dell'imperatrice Isabella, morta nel fiore di sua gioventù, risolse di voler servire solo a Dio dicendo: «Così dunque finiscono le grandezze e le corone di questo mondo? Voglio dunque da oggi innanzi servire ad un padrone che non mi possa morire». Il giorno della morte si chiama Dies perditionis (iuxta est dies perditionis1), giorno della perdita, perché in tal giorno tutti i beni del mondo, ricchezze, onori, piaceri, tutti si han da perdere e lasciare. L'ombra della morte oscura tutti i tesori e le grandezze terrene, oscura anche le porpore e le corone. Dicea suor Margarita di s. Anna, carmelitana scalza, figlia dell'imperator Ridolfo II.: «A che servono i regni nell'ora della morte? Malitia horae oblivionem facit luxuriae magnae2». L'ora funesta della morte fine a tutte le delizie e pompe della terra. Dice s. Gregorio che sono fallaci tutti quei beni che non possono persistere con noi, né sollevarci dalle nostre miserie: Fallaces sunt quae nobiscum permanere non possunt: fallaces sunt, quae mentis nostrae inopiam non expellunt3. Ecco quel peccatore che faceva invidia agli altri per le sue ricchezze ed onori acquistati; ma al meglio delle sue pompe gli è sovraggiunta la morte, ed egli non è più quello che era: Vidi impium superexaltatum et elevatum sicut cedros Libani, et transivi, et ecce non erat4.

 

Questa verità ben la confessano, ma senza frutto, i miseri dannati nell'inferno, ove esclamano piangendo: Quid profuit nobis superbia aut divitiarum iactantia?... transierunt omnia illa tanquam umbra5. Che ci han giovate, dicono, le nostre pompe e le ricchezze, se ora tutto è passato come un'ombra, ed altro non ci è restato che pena e disperazione eterna? Cristiani miei, apriamo gli occhi, ed attendiamo a salvarci l'anima ora che possiamo: perché nell'altra vita, se si perde, non potremo più salvarla. Aristippo, filosofo, viaggiando una volta per mare naufragò colla nave e perdette tutte le sue robe; ma perché egli per la sua scienza era molto stimato, giunto che fu al lido, da' paesani di quel luogo fu provveduto di tutto ciò che avea perduto. Ond'egli poi scrisse una lettera agli amici della sua patria, ove gli esortò che attendessero a provvedersi di quei beni che non si perdono col naufragio. Or questo appunto ci mandano a dire dall'altro mondo i nostri parenti ed amici i quali son passati all'eternità, che attendiamo a provvederci nella presente vita di quei beni che non si perdono colla morte. Altrimenti in quel punto, se avremo atteso ad accumulare solamente beni di terra, saremo chiamati pazzi, e sentiremo dirci come fu detto a quel ricco mentovato da san Luca, il quale avendo fatta una buona raccolta da' suoi campi,


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diceva a se stesso: Anima, habes multa bona posita in annos plurimos; requiesce, comede, bibe, epulare1. Ma Dio gli disse: Stulte, hac nocte animam tuam repetent a te; quae autem parasti cuius erunt2? Disse repetent, perché a ciascun uomo non è data l'anima in dominio, sì che possa disporne a sua voglia, ma gli è data in deposito, acciocché la tenga fedele a Dio, e tale poi la renda, quando sarà ella presentata al tribunale del supremo giudice; e poi conclude il vangelo: Sic est qui sibi thesaurizat, et non est in Deum dives3. Ciò avviene a chi cerca di farsi ricco di beni terreni e non di amore divino. Quindi disse s. Agostino: Quid habet dives, si caritatem non habet? Pauper, si caritatem habet, quid non habet? Chi ha tutti i tesori della terra, ma non ha Dio, egli è il più povero del mondo; ma il povero che ha Dio ha tutto, benché nulla avesse de' beni di questa terra.

 

Gran cosa! Disse Gesù Cristo: Filii huius saeculi prudentiores filiis lucis in generatione sua sunt4. I mondani che vivono fra le tenebre del secolo, come sono prudenti per le cose della terra! Intueamur, dice s. Agostino, quanta homines sustineant pro rebus quas vitiose diligunt. Quanto faticano per acquistare quella roba, per avere quel posto! Quanta attenzione mettono a conservarsi la sanità del corpo! Si consigliano col miglior medico, prendono le migliori medicine. E poi per la salute dell'anima i figli della luce, quali sono i cristiani, sono così trascurati, e non vogliono soffrir niente! Oh Dio che alla luce della candela della morte, allora, in quel tempo che si chiama tempo di verità, si conosce e si confessa da' mondani la loro pazzia. Allora ognuno dice: oh mi fossi fatto santo! Oh avessi lasciato tutto ed amato solo Dio! Filippo II. re di Spagna, stando per morire, fece chiamarsi il figlio, e gittando la veste reale, gli fece vedere il petto roso da' vermi e poi gli disse: Figlio, vedi come si muore e come finiscono le grandezze del mondo? Indi si fece legare al collo una croce di legno, e dispose le cose per la sua morte, e finalmente rivolto al figlio gli disse: ho voluto, mio figlio, che ti fossi ritrovato presente a questo atto, acciocché intendi come il mondo in fine tratta ancora i monarchi. E morì dicendo: oh fossi stato laico di qualche religione e non re! Così parlano in punto di morte anche i grandi della terra, quei che dagli uomini sono chiamati i fortunati del mondo. Ma che servono questi desiderj e questi sospiri allora, se non per accrescere la pena ed il rimorso agli amanti del mondo in punto di morte? Cioè quando sta per chiudersi la scena.

 

E che altro è la nostra vita presente, se non una scena che presto finisce? E può finire quando meno ce lo pensiamo, come avvenne a Casimiro re di Polonia, che mentre un giorno stava a mensa co' suoi grandi, accostando la bocca ad una tazza per bere, morì e finì per lui la scena. Celso imperatore in capo a sette giorni che era stato eletto fu ucciso, e finì la scena per Celso. Ladislao re di Boemia, giovine di diciotto anni, mentre aspettava la sposa figlia del re di Francia e si apparecchiavano le feste, ecco in una mattina l'assalì un gran dolore e gli tolse la vita; onde


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si spedirono subito i corrieri ad avvisare la sposa che ritornasse in Francia, poiché per Ladislao era finita la scena. Ciò volle significar s. Paolo quando scrisse: Praeterit figura huius mundi1. Figura, cioè scena, commedia: Mundus est instar scenae, commenta Cornelio a Lapide, generatio praeterit, generatio advenit. Qui regem agit, non aufert secum purpuram. Dic mihi, o villa, o domus, quot dominos habuisti? In ogni secolo si mutano gli abitanti di questa terra. Le città ed i regni si riempiono sempre di gente nuova. I primi passano all'altro mondo, e succedono i secondi, ed a costoro succedono gli altri. Chi in questa scena ha fatta la parte di re, non è più re; il padrone di quella villa, di quel palagio, non è più padrone. Quindi l'apostolo ci consiglia: Tempus breve est... qui utuntur hoc mundo tanquam non utantur, praeterit enim figura huius mundi2. Giacché la nostra permanenza in questa terra è breve, e tutto ha da finire colla nostra morte, serviamoci di questo mondo solo per disprezzarlo,, come per noi non vi fosse; e procuriamo di acquistarci i tesori eterni del paradiso, ove, come dice il vangelo, non vi sono tignuole che li consumanoladri che ce li rubano: Thesaurizate autem vobis thesauros in coelo, ubi neque aerugo neque tinea demolitur; et ubi fures non effodiunt nec furantur3. Dicea pertanto s. Teresa: Non ha da farsi conto di ciò che finisce colla vita; la vera vita è vivere in modo che non si tema la morte. Non temerà la morte chi vive distaccato dalle vanità di questo mondo, ed attende a provvedersi di quei soli beni che verranno seco nell'eternità, e lo faranno per sempre beato.

 




1 Psal. 4. 3.

2 Psal. 13. 3.

3 Ioan. 5. 19.

4 Isa. 48. 22.

5 Aggaei 1. 6.

6 Eccl. 1. 14.

7 Deut. 28. 47. 48.

8 Psal. 36. 4.

1 Phil. 4. 7.

2 S. Thom. 1. 2. qu. 2. art. 1. ad 3.

3 Os. 12. 7.

4 Iob. 9. 25. et 26.

5 Serm. 13. de Adv. Dom.

6 Ps. 9. 7.

7 Matth. 16. 26.

1 Deut. 32. 35.

2 Eccl. 11. 29.

3 Hom. 15. in Luc.

4 Psal. 36. 35. et 36.

5 Sap. 5. 8. et 9.

1 Luc. 12. 19.

2 Ibid. v. 20.

3 Ibid. vers. 21.

4 Luc. 16. 8.

1 1. Cor. 7. 31.

2 1. Cor. 7. 29. et 31.

3 Matth. 6. 20.




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