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Sant'Alfonso Maria de Liguori
Storia delle Eresie

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§. 2. Che la divina legge non è impossibile ad osservarsi.

 

5. Avendo perduto l'uomo il libero arbitrio, dicono i settarj essergli impossibile l'osservanza dei precetti del decalogo e specialmente del decimo e del primo. Parlando del decimo precetto non concupisces, dicono che questo non può da noi osservarsi, e perché? Perché suppongono in ciò una falsità. Dicono che la concupiscenza in se è peccato; onde poi insegnano esser peccati mortali, non solo i moti di concupiscenza in atto secondo, che prevengono il consenso, ma anche i moti in atto primo che prevengono la ragione, o sia l'avvertenza. Ma i cattolici giustamente insegnano che i moti di concupiscenza in atto primo che prevengono l'avvertenza, non sono peccati, né mortaliveniali, ma solamente difetti naturali secondo la nostra natura corrotta, e che Dio non gl'imputa a colpa. I moti poi che prevengono il consenso, al più son peccati veniali quando noi trascuriamo di scacciarli dalla nostra mente, dopo che li abbiamo avvertiti, siccome dicono il Gersone ed i Salmaticesi con s. Tommaso: perché in tal caso il pericolo del consenso, che vi può essere al cattivo desiderio nel non resistere positivamente, e scacciare quel moto di concupiscenza, non è prossimo, ma solamente rimoto. Ma comunemente poi i dottori ne eccettuano i moti di dilettazione carnale, mentre a questa sorta di moti non basta negative se habere, come parlano i dottori, ma dobbiamo noi positivamente resistere; altrimenti, se essi sono alquanto veementi, posson facilmente attrarsi il consenso della volontà: del resto trattandosi di altra materia, il solo consenso, come si è detto, del desiderio di un male grave, è peccato mortale. Ora il precetto così inteso, chi mai può dire che sia impossibile ad osservarsi, coll'aiuto della divina grazia, la quale non mai ci abbandona? Se l'uomo avvertendo il mal desiderio vi consente, o si diletta morosamente in pensarvi, giustamente si fa reo di colpa grave, o almeno leggiera, giustamente avvertendoci il Signore: Ne sequaris in fortitudine tua concupiscentiam cordis tui5: Post concupiscentias tuas non eas6: Non ergo regnet peccatum in vestro mortali corpore, ut obediatis concupiscentiis eius7. Si è detto di sopra, o almeno leggiera, perché altra è la dilettazione dell'oggetto malo, altra del pensiero di un oggetto malo; questa dilettazione del pensiero per sé non è mortalmente mala, ma solo leggermente, ed essendovi giusta causa, può essere affatto innocente. Intendesi


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ciò nondimeno, purché si abbomini l'oggetto malo; ed inoltre purché la cogitazione non fosse inutile, e la dilettazione di tal cogitazione recasse ad alcuno pericolo di dilettarsi dello stesso oggetto malo; poiché allora, se il pericolo fosse prossimo, tale dilettazione sarebbe gravemente colpevole. Quando poi all'incontro la concupiscenza ci assalta senza nostra volontà, allora non vi è colpa, perché Dio non ci obbliga a fare ciò che non possiamo. L'uomo è composto di carne e spirito, che sempre tra loro naturalmente pugnano; onde non è in nostra potestà di non sentire spesso moti ripugnanti alla ragione. Non sarebbe crudele quel padrone il quale imponesse al servo che non abbia sete? Che non senta freddo? Nell'antica legge mosaica era imposta la pena ai soli delitti attuali esterni, dal che poi gli scribi e farisei perversamente ne deduceano che i peccati interni non eran proibiti; ma il nostro Redentore nella nuova legge ha spiegato che anche i desideri pravi sono vietati: Audistis, quia dictum est antiquis: Non moechaberis. Ego autem dico vobis: quia omnis qui viderit mulierem ad concupiscendum eam, iam moechatus est eam in corde suo1. E con ragione, poiché se non si ributtano i mali desiderj, difficilmente possono evitarsi i peccati attuali esterni. Ma i desiderj ributtati son più presto materia di merito, che di castigo. Gemea s. Paolo molestato da stimoli carnali, e cercava di esserne liberato; ma Dio gli rispose che dovea bastargli la sua grazia: Datus est mihi stimulus carnis meae... propter quod ter Dominum rogavi ut discederet a me; et dixit mihi: Sufficit tibi gratia mea; nam virtus in infirmitate perficitur2. Nota virtus perficitur; sicché tali concupiscenze rigettate non infettano, ma accrescono la nostra virtù. E qui bisogna anche avvertire quel che scrive l'apostolo, che Dio non permette che noi siamo tentati oltre le nostre forze: Fidelis autem Deus est, qui non patietur vos tentari supra id quod potestis, sed faciet etiam cum tentatione proventum3.

6. Tanto più dicono poi esser impossibile ad osservarsi il primo precetto: Diliges Dominum Deum tuum ex toto corde tuo. Come è possibile, dice Calvino, vivendo noi nella natura corrotta, il tenere occupato continuamente tutto il cuore nell'amore divino? Così l'intende Calvino. Ma non l'intende così s. Agostino4. Il santo consiglia che tal precetto in questa vita da noi non può adempirsi in quanto alle parole, ma solo in quanto all'obbligo; e si adempisce coll'amare Dio sopra ogni cosa, cioè preferendo la divina grazia ad ogni bene creato. Lo stesso insegna s. Tommaso l'Angelico5, dicendo che il precetto di amare Dio con tutto il cuore si osserva con amarlo sovra ogni cosa: Cum mandatur quod Deum ex toto corde diligamus, datur intelligi quod Deum super omnia debemus diligere. Sicché la sostanza del primo precetto consiste nell'obbligo di preferire Dio ad ogni cosa; onde disse Gesù Cristo: Qui amat patrem aut matrem plus quam me... non est me dignus6. E ciò anche dicea s. Paolo confidato nella divina grazia, che per qualunque bene creato non si sarebbe mai separato dal divino amore: Certus sum enim, quia neque mors, neque vita, neque angeli, neque principatus..., neque creatura alia poterit nos separare a caritate Dei7. Lo stesso poi che del primo e decimo precetto, dicea Calvino8 degli altri precetti, asserendo tutti essere impossibili.

 

7. Oppongono per 1. quel che disse s. Pietro nel concilio di Gerusalemme: Nunc ergo quid tentatis Deum, imponere iugum super cervices discipulorum, quod neque patres nostri, neque nos portare potuimus9? Ecco che lo stesso apostolo dichiarò impossibile la legge. Ma si risponde che non parla s. Pietro della legge morale del decalogo, ma


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della cerimoniale, e dice non doversi imporre a' cristiani, mentre era stata così difficile agli ebrei ad osservarsi, che pochi l'aveano adempita; benché tra essi non fossero mancati altri che l'adempirono, come attesta s. Luca già di s. Zaccaria e s. Lisabetta: Erant autem iusti ambo ante Deum, incedentes in omnibus mandatis etc.1.

8. Oppongono per 2. quel che disse di se stesso l'apostolo: Scio enim quia non habitat in me, hoc est in carne mea, bonum. Nam velle, adiacet mihi; perficere autem bonum, non invenio2. Dice dunque: Non habitat in me bonum; sicché si dichiara inosservante della legge. Ma bisogna a queste unire le altre parole, hoc est in carne mea. Vuol dire s. Paolo che la carne ripugnava allo spirito, e quantunque conservasse la buona volontà, non poteva esentarsi da ogni moto cattivo di concupiscenza; ma questi moti, come dicemmo, non gl'impedivano l'osservanza della legge.

 

9. Oppongono per 3. quel di s. Giovanni: Si dixerimus, quoniam peccatum non habemus, ipsi nos seducimus3. Si risponde: con ciò l'apostolo non dichiara esser a noi impossibile osservare il decalogo, sì che niuno sia esente da' peccati mortali, ma dice che secondo la presente debolezza della natura corrotta, niuno è esente da' peccati veniali, come dichiarò il concilio di Trento4: Licet enim in hac mortali vita, quamtumvis sancti et iusti in levia saltem et quotidiana, quae etiam venialia dicuntur, peccata, quandoque cadant, non propterea desinunt esse iusti.

 

10. Oppongono per 4. quel che scrisse s. Paolo5: Christus nos redemit de maledicto legis, factus pro nobis maledictum. Con ciò vogliono i settarj che Gesù Cristo pei meriti della sua morte ci ha liberati dall'obbligo di osservar la legge. Si risponde: altro è dire che Cristo ci ha liberati dalla maledizione della legge, mentre la sua grazia ci forza di osservarla, e così evitare la maledizione fulminata dalla legge contra i suoi trasgressori. Altro è dire che ci ha liberati dall'osservanza della legge, il che è affatto falso.

 

11. Oppongono per 5. un altro testo dell'apostolo: Sciens hoc, quia lex iusto non est posita, sed iniustis et non subditis, impiis et peccatoribus6. Ripetono con quest'altro passo quel che han detto di sovra, che il nostro Redentore ci ha liberati dall'obbligo della legge, e che quelle parole che disse a quel giovine7: Si autem vis ad vitam ingredi, serva mandata; le disse ironicamente; poiché sapendo esser impossibile a noi figli di Adamo l'osservare i precetti, disse così per deluderlo, come dicesse: Serva mandata si potes. Si risponde con s. Tommaso8 che la legge è data così a' giusti, come agl'ingiusti in quanto alla potestà direttiva, la quale dirige tutti gli uomini a fare quel che debbono; ma in quanto alla potestà coattiva, la legge non è posta a coloro che volentieri l'osservano, senza esser costretti ad osservarla, ma agli empj che voglion sottrarsi dalle leggi, poiché questi soli son quelli che debbon costringersi ad osservarla. Il dire poi co' novatori che Cristo volle deludere quel giovine, dicendogli: Serva mandata, questo è parlare da eretico che sconvolge le scritture come gli piace, e perciò non merita risposta. La verità è quella che insegna il concilio di Trento: Deus impossibilia non iubet, sed iubendo monet et facere quod possis, et petere quod non possis, et adiuvat ut possis9. Iddio a ciascuno la grazia ordinaria per osservare i precetti, e dove abbisogna una grazia più abbondante, cerchiamola noi a Dio, ed egli è pronto a darcela.

 

12. Questa fu la risposta che diede s. Agostino10 agli Adrometini, i quali gli opponeano: ma se dio non ci la grazia efficace per adempire la legge, perché tu ci riprendi se noi non l'adempiamo?


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Cur me corripis? et non potius ipsum rogas ut in me operetur et velle1? Il santo rispose: Qui corrigi non vult, et dicit: ora potius pro me, ideo corripiendus est, ut faciat (cioè oret) etiam ipse pro se. Rispose dunque s. Agostino che benché l'uomo non riceva da Dio la grazia efficace per adempir la legge, pure deve esser corretto, e pecca se non l'adempisce, perché potendo pregare, e colla preghiera ottenere l'aiuto più abbondante che gli faccia adempir la legge, lascia di pregare, e così non adempisce la legge. Altrimenti, se non fosse concesso a tutti il pregare, e colla preghiera ottener la forza di operare il bene, ma vi bisognasse un'altra grazia efficace per pregare, a mio sentimento, irragionevolmente avrebbe risposto s. Agostino agli Adrometini, che l'uomo dev'esser corretto quando non prega per sé, giacché avrebbero quelli potuto replicare, ma come vogliamo pregare, se non abbiamo la grazia efficace di pregare?

 




5 Eccl. 5. 2.



6 Eccl. 18. 30.



7 Rom. 6. 12.

1 Matth. 5. 27 et 28.



2 2. Cor. 12. 7.



3 1. Cor. 10. 13.



4 L. de Spir. et lit c. 1. et l. de perf. Iust. resp. 17.



5 2. 2. Q. 44. a. 8. a. 2.



6 Matth. 10. 37.



7 Rom. 8. 38. et 39.



8 In Antid. trid. sess. 6. c. 12.



9 Act. 15. 10.

1 Luc. 1. 6.



2 Rom. 7. 18.



3 1. Ioan. 1. 8.



4 Sess. 6. c. 11.



5 Gal. 3. 13.



6 1. Tim. 1. 9.



7 Matth. 19. 17.



8 1. 2. Q. 96. a. 5.



9 Sess. 6. c. 11.



10 De corrept. et grat. t. 10. c. 4. n. 6.

1 De corrept. et grat. t. 10. c. 5. n. 7.






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