- CAPO V - Del pericolo in cui sta di perdersi una religiosa imperfetta che poco teme delle sue imperfezioni.
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CAPO
V - Del pericolo in cui sta di perdersi una religiosa imperfetta che poco teme
delle sue imperfezioni.
1.
Per formare un bel giardino bisogna prima sradicarne le spine e le erbe
cattive, e poi mettervi le piante che portano buon frutto. Ciò appunto
significò il Signore a Geremia, allorché gl'impose il grande impiego di
coltivar la sua Chiesa: Ecce constitui te
hodie super gentes et super regna, ut evellas et destruas et aedifices et
plantes (Ier. I, 10).1 Acciocché dunque una religiosa si faccia
santa, bisogna che prima attenda a sbarbicare dall'anima sua i difetti, e poi a
piantarvi le virtù. La
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prima divozione, dicea S. Teresa, consiste in
togliere i peccati.2 Io non parlo qui de' peccati gravi, de' quali
suppongo già libera la religiosa che legge questo mio libro: voglio sperare
ch'ella non mai in sua vita abbia perduta la divina grazia, o almeno che
appresso l'abbia già ricuperata, e stia risoluta prima di morir mille volte che
di nuovo perdere Dio. E per evitare una tal disgrazia, la prego a tener sempre
avanti gli occhi quella gran sentenza insegnata da S. Basilio, S. Girolamo, S.
Agostino e altri santi Padri e tanto fondata sulle divine Scritture, che Dio ha
determinati a ciascuna persona i peccati che vuol perdonare;3 onde, non
sapendo noi questo numero, ciascuno dee temere che aggiungendo un altro peccato
alle colpe commesse, Dio l'abbandoni, e resti perduto per sempre. Oh che gran
freno è questo pensiero per rimuovere l'inganno col quale il demonio induce i
peccatori a ricadere nel peccato colla speranza del perdono, dicendo loro: Poi
te lo confesserai. Oh se ogni cristiano avesse avanti gli occhi questo giusto
timore, cioè che quel nuovo peccato forse non gli sarà più perdonato, quanti si
asterrebbero dal ritornare al vomito! mentre molte anime, colla falsa speranza
del perdono, si sono già miseramente perdute, senza esservi più rimedio alla
loro eterna ruina.
2.
Neppure parlo qui de' peccati veniali non pienamente volontari, commessi per
mera fragilità umana. Non v'è nel mondo chi sia esente da questa sorta di
colpe: In multis offendimus omnes
(Iac. Ep. III, 2). Tutti gli uomini, anche i santi, hanno commessi difetti. Se
diciamo, scrisse l'apostolo S. Giovanni (I Ep. I, 8), di non avere in noi
alcuna colpa, noi c'inganniamo e mentiamo.4 Portiamo con noi, per causa
della natura infetta dal peccato, una tale inclinazione al male, che ci rende
impossibile, senza una specialissima grazia - che solamente alla divina Madre è
stata concessa - l'evitare per tutta la vita tutte le colpe veniali, anche non
pienamente avvertite.
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Iddio permette tali macchie anche ne' suoi
servi, che si son tutti dedicati al suo amore, per conservarli umili e far loro
intendere che siccome essi cadono in quelle colpe leggiere con tutt'i loro
buoni propositi e promesse, così caderebbero nelle gravi, se non vi fosse la
sua divina mano che li mantiene. Pertanto, allorché ci vediamo caduti in tali
mancanze, bisogna che ci umiliamo, e, confessando la nostra debolezza, procuriamo
di accrescere e moltiplicar le preghiere, cercando a Dio che ci tenga le mani
sovra, e non permetta che inciampiamo in difetti più gravi.
3.
Qui dunque voglio solamente parlare de' peccati veniali deliberati e pienamente
volontari. - Questi col divino aiuto ben possono tutti evitarsi, come ben
l'evitano l'anime sante che vivono sempre colla risoluzione ferma di patire
prima la morte che commettere un peccato veniale ad occhi aperti. Dicea S.
Caterina da Genova che ad un'anima che ama Dio con amor puro, qualunque minima
colpa è più intollerabile che lo stesso inferno: ond'ella poi si protestava che
prima di fare un peccato veniale a posta, si sarebbe gittata in un mare di
fuoco.5 E con ragione così diceano i santi, poich'essi, illuminati
dalla luce divina, ben san conoscere esser più male qualunque offesa di Dio che
la morte e la distruzione di tutti gli uomini e di tutti gli angeli. Quod peccatum, scrisse S. Anselmo, peccator audebit dicere parvum? Deum enim exhonorare quando est parvum?6
Chi mai avrà ardire di dire: Questo peccato non
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è gran male, perch'è
leggiero? Come mai, dice il santo, può dirsi leggier male il disonorare un Dio?
Se un suddito dicesse al re: Io vi ubbidirò in altre cose, ma in questa non voglio
ubbidirvi, perch'è di poco momento; qual rimprovero e qual castigo non
meriterebbe? Perciò dicea S. Teresa: Piacesse
a Dio che avessimo timore, non del demonio, ma d'ogni peccato veniale, che può
farci più danno che tutt'i demoni dell'inferno!7 Quindi esortava la
santa le sue figlie: Da peccato
avvertito, per picciolo che sia, Dio vi liberi.8 E specialmente ciò
dee dirsi ad una religiosa, a cui dice di più S. Gregorio Nazianzeno: Non ignores rugam tibi unam turpiorem esse
quam maxima vulnera iis qui in mundo vivunt (Orat. de fuco):9
Sappi, dice il santo, che una sola crespa nell'anima ti renderà più deforme che
le gran piaghe non deformano i secolari. Se una serva di cucina comparisce
innanzi al re piena di macchie, il re non molto la riprende, e la compatisce,
perch'è serva di cucina; ma se vede la regina sua sposa con una sola macchia
sulla veste, si sdegna e molto se ne lagna. Lo stesso avviene con Gesù Cristo
per le colpe che fanno le secolari, e per quelle che commettono le sue spose.
Povera quella religiosa che non fa conto de' difetti leggieri! Non si farà mai
santa e non troverà mai pace. S. Teresa, quando menava vita imperfetta, niente
si avanzava nello spirito, e faceva una vita afflitta, senza consolazione né
dello spirito né del corpo.10 E questa è la ragione
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che tante
monache menano una vita infelice, senza trovar pace nel loro stato: poiché da
una parte son prive de' divertimenti del mondo, e dall'altra non provano mai
consolazioni spirituali; mentreché, andando elle scarse con Dio, Dio
giustamente va scarso con esse. Diamoci tutti a Dio, e Dio si darà tutto a noi:
Ego dilecto meo, et ad me conversio eius
(Cant. VII, 10).
4.
Ma dirà taluna: I peccati veniali, per
quanti sieno, mi priveranno sì di farmi santa, ma non mi faranno mai perdere la
divina grazia, e con tutti quelli pure mi salverò; ed a me basta il salvarmi.
Ma chi parla così, senta quel che le dice S. Agostino: Ubi dixisti: Sufficit, ibi periisti:11 Dici bastarti che ti
salvi? Dove dicesti, basta, ivi ti perderai. - Per intendere ciò e vedere il
pericolo che portano seco i peccati veniali, almeno quando son deliberati ed
abituati, bisogna intendere che l'abito delle colpe leggiere inclina l'anima
alle colpe gravi;
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per esempio, l'abito di piccioli odi inclina ad odi
gravi, l'abito di furti minuti inclina a furti grandi, l'abito di affetti
carnali veniali inclina ad affetti mortali. Dice S. Gregorio: Numquam illic anima, quo cadit, iacet
(Moral., Lib. 21):12 L'anima non resta dove cade, ma sempre va più a
basso. Molte infermità mortali non provengono da disordini gravi, ma spesso da
piccioli disordini; e così parimente molte gravi cadute spesso hanno l'origine
dai peccati veniali. Dice il P. Alvarez: Quelle
picciole maldicenze continuate, quelle picciole avversioni, curiosità
colpevoli, impazienze, intemperanze, non uccidono già l'anima, ma la rendono
talmente debole che, sopravvenendo poi l'insulto di qualche morbo grave, cioè
di qualche forte tentazione, ella non avrà forza di resistere e caderà.13
I peccati veniali non separano già l'anima da Dio, ma l'allontanano, e con ciò
la pongono in gran pericolo di perderlo. S. Pietro, allorché Gesù Cristo fu
preso nell'orto, non volle già abbandonarlo, ma si pose a seguirlo da lontano: Petrus autem sequebatur eum a longe
(Matth. XXVI, 58). Molti non vogliono separarsi da Gesù Cristo con peccati
mortali, ma vogliono nondimeno seguitarlo da lungi, non volendo astenersi dalle
colpe leggiere; ma a quanti di costoro avviene poi la disgrazia che avvenne a
San Pietro, il quale, giunto nella casa del pontefice, appena che fu accusato
per discepolo del Redentore, lo rinnegò più volte con ispergiuro. Dice S.
Isidoro che Dio giustamente permette che coloro i quali non fan conto de'
peccati veniali, in pena della loro trascuraggine e poco amore che gli portano,
cadano poi ne' mortali.14 E prima lo disse l'Ecclesiastico: Qui
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spernit modica, paulatim
decidet (Eccli. XIX, 1): Chi disprezza le picciole cadute, a poco a poco
caderà ne' precipizi.
5.
Non dite dunque, avverte S. Doroteo, che quell'abito di colpe veniali sia poco
male, ma guardate le conseguenze: la mala consuetudine è un ulcere che infetta
il cuore; e siccome lo rende debole a resistere alle picciole tentazioni, così
gli va togliendo la forza di resistere alle grandi.15 E S. Agostino
scrive: Noli illa contemnere quia minora
sunt, sed time quia plura sunt: timenda est ruina multitudinis, etsi non
magnitudinis:16 Non disprezzare, dice il santo, i tuoi difetti
perché sono piccioli, ma temi perché sono molti; poiché il numero delle tue
colpe potrà recarti quella ruina che ora non ti cagiona il loro peso. Tu
attendi, dice il santo in altro luogo, a non restare oppressa dal peso di
qualche gran sasso; ma guardati di non restare affogata da un mucchio
d'arene:17 s'intende delle colpe leggiere,
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le quali, allorché
son molte ed abituate, e non v'è pensiero d'emenda, ci fan perdere il timore di
commetter le gravi. Chi non molto teme il peccato, non molto sta lontano dal
cadervi. E perciò arriva a dire S. Gio. Grisostomo che in certo modo dobbiamo
più temere de' peccati veniali abituati che degli stessi mortali; poiché i
mortali naturalmente apportano orrore, ma i veniali si disprezzano, e questi
rendono poi l'anima talmente trascurata, che siccome ha fatto l'uso a non far
conto de' mali minori, così non farà conto de' maggiori.18 Quindi dice
lo Spirito Santo: Capite nobis vulpes
parvulas quae demoliuntur vineas (Cant. II, 15). Dice: Capite nobis vulpes parvulas;
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non dice prendeteci i
leoni, i pardi, ma le picciole volpi: de' leoni e dell'altre fiere si teme, e
perciò si prendono i provvedimenti per guardarsene ed evitarne il danno: ma
delle picciole volpi non si teme, e frattanto queste rovinano le vigne, perché
vi fanno cave, e con ciò fan seccare le radici. Così le colpe continuate e
volute ad occhi aperti, benché picciole, fanno elle seccare i buoni desideri,
che son le radici della vita spirituale, e con ciò mandano l'anima in ruina.
6.
Sicché i peccati veniali volontari ed abituati mettono l'anima in pericolo di
perdersi, per 1. perché molto la inclinano a cadere ne' peccati mortali e la
rendono debole a resistere alle tentazioni: e questo già l'abbiam veduto. -Per
2. perché fanno mancare gli aiuti divini. Noi continuamente abbiamo bisogno del
lume divino alla mente, atto a muovere la volontà al bene, e del divino aiuto
alla volontà, per renderla pieghevole e ubbidiente a' movimenti della grazia.
Inoltre abbiam bisogno della continua protezione di Dio contra le forze
dell'inferno; altrimenti tutti soccomberessimo19 alle tentazioni del
demonio, alle quali da per noi non abbiamo forza di resistere. Iddio è quello il
quale o ci somministra questa forza o pure impedisce il demonio dall'assalirci
con quelle tentazioni, da cui noi resteressimo superati; che per ciò Gesù
Cristo c'insegnò a pregare: Et ne nos
inducas in tentationem, cioè che Dio ci liberi da quella tentazione, dalla
quale noi saressimo vinti. Ora i peccati veniali che fanno? Ci fan mancare
questi lumi, questi aiuti e questa protezione divina, in modo che l'anima,
restando ottenebrata, debole ed arida, perderà il gusto alle cose divine e
s'invoglierà delle cose terrene, con gran pericolo di rinunziare per quelle
alla grazia di Dio. - Di più i peccati veniali fanno che Dio permetta al
demonio che si avanzi a dar tentazioni più forti. Ben merita quell'anima che va
scarsa con Dio, che Iddio vada scarso con essa: Qui parce seminat, parce et metet (II Cor. IX, 6): Chi poco semina
è giusto che poco raccolga. Il B. Errico Susone nella visione ch'ebbe delle
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Rupi (Vita, cap. 12), nella prima Rupe vide molti che vi stavano;
domandò chi fossero, e Gesù Cristo gli rispose così: Questi sono i tepidi, a cui basta il vivere senza peccato mortale, e di
ciò solamente si contentano.20 Dimandò poi il B. Errico se quelli
si sarebbero salvati; rispose il Signore: Se
moriranno senza colpa grave, si salveranno; ma stanno questi in maggior
pericolo che non credono, perché si danno a credere di poter servire a Dio ed
al senso, il che appena è possibile; ed il perseverare cosi in grazia di Dio è
molto difficile.21
7.
De propitiato peccato noli esse sine metu
(Eccli. V, 5). Ci avverte lo Spirito Santo a restar con timore del peccato
perdonato; e perché questo timore, quando già ne abbiamo ricevuto il perdono?
Sì, dobbiamo restare sempre con timore, perché non ostante il perdono della
colpa, ci resta sempre l'obbligo di pagarne la pena temporale; e tra queste
pene, spesso suol'essere la sottrazione degli aiuti divini. Perciò i santi non
cessavano mai di piangere i loro peccati, benché leggieri, quantunque fossero
stati lor perdonati; poiché temeano sempre che in castigo di quelli, Dio li
punisse colla sottrazione delle grazie, che loro bisognavano per l'acquisto
della salute eterna. Quel favorito del principe, quando gli ha dato qualche
disgusto, anche dopo il perdono, non ritornerà nel primiero posto della di lui
grazia, se prima non dà gran segni del suo pentimento e del voler compensare
con maggiori ossequi il disgusto dato. Lo stesso avviene con Dio, quando
l'anima gli fa qualche offesa; s'ella non la piange di cuore e non cerca di
compensarla con altri atti buoni, giustamente il Signore ritira la sua mano e
lascia di comunicarsele con quella familiarità, come prima soleva. Quanto più
l'anima poi accrescerà
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questi disgusti, tanto più si ritirerà il
Signore; in modo che la misera, trovandosi da una parte più debole e più
inclinata al male, come di sopra si è detto, e dall'altra parte ritrovandosi
meno assistita dall'aiuto divino, facilmente caderà in colpe gravi e si
perderà.
8.
E se sta in pericolo di perdersi ogni persona che commette abitualmente peccati
veniali deliberati, con dire che le basta il salvarsi, come abbiam veduto;
maggiormente si mette in questo pericolo una religiosa che si rilascia a
commetter molte colpe leggiere ad occhi aperti, senza pensiero di emenda e
senza pigliarsene pena, con dire: Basta
che mi salvo.22 La religiosa, essendo chiamata alla religione, è
chiamata a salvarsi da santa. Or dice S. Gregorio che chi è chiamato a salvarsi
da santo, se non si fa santo, neppure si salverà.23 Disse un giorno il
Signore alla B. Angela da Foligno: Quei
che sono da me illuminati a camminare per la perfezione, ed essi, ingrossando
l'anima, vogliono camminare per la via ordinaria, saranno da me abbandonati.24
È certo ch'ogni religiosa è stata chiamata ed è obbligata a camminare per la
via della perfezione; ed a tal fine Iddio l'ha favorita con molte grazie e lumi
speciali. Or se ella vuol esser abitualmente trascurata col viver tra' difetti,
senza pensiero di emendarsene, giustamente sarà privata degli aiuti che le
bisogneranno per adempire gli obblighi del suo stato; e così non solamente non
si farà santa, ma neppure si salverà. Dice S. Agostino che Dio è solito di
abbandonare queste anime negligenti, che mancano ad occhi
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aperti alle
loro obbligazioni, mentre le conoscono e non ne fan conto: Deus negligentes deserere consuevit.25
9.
E ciò significa quel che disse il Signore a S. Pietro: Si non lavero te, non habebis partem mecum (Io. XIII, 8). Non
intese certamente Gesù Cristo, dicendo ciò, parlare della lavanda materiale, ma
della spirituale de' peccati veniali, da' quali l'anima, ch'è chiamata alla
perfezione, se non si purga, corre gran rischio di perdersi. S. Geltrude vide
il demonio che raccoglieva tutt'i fiocchi di lana che lasciava ella perdere,
come difetti di povertà.26 Un altro religioso, il quale lasciava cadere
contro la regola le molliche di pane che avanzavano a mensa, vide in morte il
demonio che gli dimostrava un sacco di quelle e che per ciò pretendea di farlo
disperare.27 Eh che ben sa il nemico quanto è più stretto il conto che
Dio esige
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da' religiosi che da' secolari. E qui si avverte di
passaggio che alle superiore molte trasgressioni della regola, che saranno
colpe leggiere alle suddite, come dicono comunemente i Dottori, diventeranno
gravi ad esse superiore, se non le correggono e non vi pongono quel riparo che
possono, quando i difetti sono molti e tali che possono rilasciar la disciplina
comune: come sono specialmente le trasgressioni circa il silenzio, circa la
povertà, circa i digiuni, circa le grate e cose simili. E tali mancanze non
solamente son tenute le superiore a correggerle, ma sono obbligate ancora ad invigilare
e spiare se vi sieno, per darvi rimedio.
10.
Ma torniamo al nostro proposito, parlando dell'obbligo che ha ogni religiosa di
tendere alla perfezione e di fuggire anche le colpe leggiere. Nella Compagnia
di Gesù a tempo di S. Ignazio v'era un fratello servente molto trascurato nel
servizio divino; un giorno se lo chiamò il santo e gli disse: «Dimmi, fratello
mio, che sei venuto a fare nella religione?» Rispose quegli: «Son venuto a
servir Dio.» - «Oh fratello, che hai detto! ripigliò il santo; se avessi detto
che sei venuto a servire un cardinale, un principe di terra, saresti più
scusabile; ma dici che sei venuto a servir Dio, e così lo servi?»28 -
Bisogna intendere che per fare un religioso o una religiosa santa, vi bisognano
grazie particolari ed abbondanti; ma come Dio vuol essere abbondante con quella
religiosa la quale, entrata nel monastero per servire Dio, più lo disonora che
l'onora? mentre colla sua vita negligente e piena di imperfezioni dà ad
intendere che Dio non merita d'essere servito con maggior attenzione; sicché
col suo modo di vivere imperfetto dichiara che nel servire il Signore non si
trova già quella felicità che si predica e che basta a render contenta
un'anima; dichiara in somma che sua divina Maestà non è degna di tanto amore
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che ci obblighi a preferire il suo gusto ad ogni nostra propria
soddisfazione.
11.
È vero, dice il P. Alvarez, che anche le anime spirituali e che si son dedicate
al divino amore, non sono esenti da' difetti; ma queste procurano sempre di
andare emendando la loro vita con diminuire i difetti. Ma quella che
abitualmente li commette e siegue a commetterli, senza prendersene fastidio e
senza pensiero d'emenda, come mai può liberarsene ed evitare il pericolo di
cadere in colpe più gravi?29 Dicea il Ven. P. Luigi da Ponte: «Io ho
commessi molti difetti, ma non ho fatta mai pace co' difetti.»30 Guai a
quelle religiose che commettono difetti, li conoscono e fan pace con essi. Sin
tanto, dice S. Bernardo, che una manca e detesta le sue mancanze, vi è speranza
che un giorno si emendi e si metta nella buona via; ma quando le commette e le
lascia nell'anima in riposo, senza neppure abborrirle, anderà miseramente
sempre da male in peggio.31 - Muscae
morientes perdunt suavitatem
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unguenti
(Eccl. X, 1). Queste mosche che muoiono, dice il Cartusiano, sono appunto
quelle colpe che restano nell'anima, cioè quei rancori abituati, quelle
affezioni disordinate, vanità, golosità, immodestie d'occhi o di parole che si
commettono e non si detestano.32 Or queste che male fanno? fanno
perdere la soavità dell'unguento, cioè la divozione alle comunioni,
all'orazione, alle visite del Sagramento; sicché l'anima non vi trova più
unzione né consolazione.
12.
Tali difetti abituati, dice S. Agostino, sono come una scabbia che tolgono
dall'anima ogni bellezza, e la rendono talmente schifosa che l'allontanano
dagli abbracci dello sposo divino: Sunt
velut scabies, et nostrum decus ita exterminant ut a sponsi amplexibus separent
(S. Aug., Hom. 50, cap. 3).33 Onde poi facilmente, non trovando più
ella in quegli esercizi divoti pabolo e conforto, li trascurerà ed abbandonerà,
e così, tralasciando i mezzi della sua eterna salute, facilmente si perderà. Ed
ancorché seguiti le comunioni, l'orazione, le visite al Venerabile, poco o niun
frutto ne caverà. Si avvererà in lei quel che dice lo Spirito Santo: Seminastis multum, et
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intulistis parum... et qui mercedes
congregavit, misit eas in sacculum pertusum (Aggaei I, 6). Tale appunto è
la monaca tepida ed imperfetta: tutt'i suoi spirituali esercizi li ripone ella
in un sacco bucato, in modo che non gliene resta alcun merito; anzi, facendoli
con tanti difetti, si rende sempre più rea d'esser castigata e privata di
quegli aiuti abbondanti che il Signore le avea preparati, se avesse ella
corrisposto alle ispirazioni ricevute: Omni
habenti dabitur, et abundabit; ei autem qui non habet, et quod videtur habere,
auferetur ab eo (Matth. XIII, 12).34 A chi conserva colla sua
corrispondenza il guadagno fatto delle grazie e talenti donatigli da Dio, gli
sarà accresciuta la grazia e la gloria; ma a chi malamente si sarà servito del
suo talento, lasciandolo ozioso, senza aumentarlo, quello gli sarà tolto da
Dio, e sarà privato delle grazie apparecchiate.
1 Ecce
consituite hodie super gentes et super regna, ut evellas, et destruas, et
disperdas, et dissipes, et aedifices, et plantes. Ier. I, 10.
2 «Ya sabèis que la primera piedra ha de
ser buena conciencia y con todas vuestras fuerzas libraros aun de pecados
veniales, y siguir lo màs perfeto.» S. TERESA, Camino
de perfecciòn, cap. 5. Obras, III,
32.
3
Di questa dottrina del numero dei peccati, e delle autorità patristiche su cui
si appoggia, vedi qualche cosa nell' Appendice,
4.
4 Si
dixerimus quoniam peccatum non habemus, ipsi nos seducimus, et veritas in nobis
non est. I
Io. I, 8.
5
«Io comprendo chiaramente (diceva) che quando l' amor puro vede una quantunque
minima imperfezione, se Dio non gli provvedesse, non solo il corpo, ma ancora
l' anima, se non fosse immortale, si convertirebbe in polvere... Dice (il
divino amore) far più stima d' una quantunque minima imperfezione, che di
quanti inferni sia possibile immaginarsi.» Cattaneo
MARABOTTO, confessore della Santa, e Ettore
VERNAZZA, spirituale di lei figliuolo, Vita,
Padova, 1743, cap. 15, n. 1, 4. - «Sappi certo, che se l' uomo vedesse
quello che importa un sol peccato, più presto si eleggerebbe essere in una
accesa fornace, ed ivi star vivo in anima ed in corpo, che sopportar in sé esso
peccato: e se il mare fosse tutto fuoco, vi si getterebbe nel mezzo sino al
fondo, e giammai non ne uscirebbe, se sapesse di dover vedere nella uscita in
sé esso peccato.» Op. cit., cap. 12,
n. 3. - «Più presto ella (la Santa) averia eletto quanti inferni si potessero
immaginare, che vedere macula di peccato sopra di sé, per minimo che fosse;
quantunque ella dicesse che appresso Dio non si può dir cosa minima ad alcun
peccato; anzi ogni peccato dee chiamarsi non sol grande, ma grandissima cosa,
per esser contra la tanta bontà sua.» Op. cit., cap.
10, n. 1.
6 «Forsan parvum quid putas aliquod
peccatum: utinam districtus Iudex parvum existimaret aliquod peccatum! sed eheu
me! nonne omne peccatum per praevaricationem Deum exhonorat? Quid ergo? Peccatum peccator
audebit dicere parvum? Deum enim exhonorare, quando parvum est?» S. ANSELMUS, Meditatio 2, ML
158-723.
7
Dopo aver detto non temer essa i demoni più che se fossero mosche, né poter
essi recar danno se non a chi si arrende, soggiunge la Santa Madre: «Pluguiese
a Su Majestad temièsemos a quien hemos de temer, y entendièsemos nos puede
venir mayor daño de un pecado venial que de todo el infierno junto, pues es
ello ansi.» S. TERESA, Libro de la Vida, cap.
25. Obras, I, 200.
8 «Mas pecado muy de advertencia, por
chico que sea, Dios nos libre de èl.» S. TERESA, Camino
de perfecciòn, cap. 41. Obras, III,
198.
9
«Ruga tibi turpior est, id certo scias, quam maxima - Vulnera in mundo
viventibus. Revereare professionem.- Neque enim in sordidis
maacula perinde atque- In puris apparet vestibus et unius coloris.» S.
GREGORIUS NAZIANZENUS, Carmina, lib.
1, sectio 2, XXIX (Adversus mulieres se
nimis ornantes), versus 325-328. MG 37-908.
10 «Pasè este mar tempestuoso casi
veinte años con estas caidas, y con levantarme y mal, pues tornaba a caer; y en
vida tan baja de perfeciòn, que nigùn caso casi hacia de pecados veniales, y
los mortales, aunque los temìa, no como habìa de ser, pues no me apartaba de
los peligros. Sé decir que es una de las vidas penosas que me parece se puede
imaginar; porque ni yo gozaba de Dios, ni traia contento en el mundo. Cuando estaba en los
contentos de el mundo, en acordarme lo que debia a Dios, era con pena; cuando
estaba con Dios, las afeciones del mundo
me desasosegaban; ello es una guerra tan penosa, que no sé còmo un mes la pude
sufrir, cuanti màs tantos años.» S, TERESA, Libro
de la Vida, cap. 8. Obras, I,
55.- Questa tiepidezza però non fu né continua, né totale, come la stessa Santa
Madre, pur più pronta, nei fatti propri, a ricordarsi del male che del bene, è
costretta a confessarlo ingenuamente: «Verdad es que en estos años hubo muchos
meses, y creo alguna vez año, que me guardaba de ofender a el Señor, y me daba
mucho a la oraciòn, y hacia algunas y hartas diligencias para no le venir a
ofender. Porque va todo lo que escribo dicho con toda verdad, trato ahora esto.
Mas acuèrdaseme poco de estos dias buenos, y ansi debian
ser pocos y muchos de los ruines. Ratos grandes de oraciòn pocos dias se
pasaban sin tenerlos, si no era estar muy mala y muy ocupada. Cuando estaba
mala, estaba mijor con Dios; procuraba que las personas que trataban conmigo lo
estuviesen, y suplicàbalo a el Señor; hablaba muchas veces en El. Ansi que, si
no fuè el año que tengo dicho, en ventiocho que ha que comencè oraciòn, mas de
los deciocho pasè esta batalla y contienda de tratar con Dios y con el mundo.» L. c., 56.- Quel che dice S.
Alfonso è vero, nel senso in cui l' intende, degli «intervalli» di tiepidezza
per cui passò la Santa Madre. Come si vede dal Libro de la Vida, cap. 7, anche in quel tempo, erano pronti e
profondi i suoi sentimenti di pentimento, e così vivi da diventar un vero
supplizio; sinceri erano i suoi propositi e desideri; grandi i favori ricevuti
da Dio: nuovo e più duro supplizio, più duro che ogni castigo, per il suo cuore
gentile e generoso. Mancavano per altro quella luce e quella perseveranza nei
proponimenti, che l' avessero, come successe poi, allontanata per sempre dalle
occasioni.-Però se non avesse finalmente rotto ogni legame che non era di gusto
di Dio, mai avrebbe raggiunta la perfetta unione con Dio, né quella santità a
cui era destinata. Anzi vi era pericolo che l' anima sua fosse andata di male
in peggio, fino all' ultima rovina. (Libro
de la Vida, cap. 32).
11 «Si autem dixeris: «Sufficit», et
peristi.» S. AUGUSTINUS, Sermo 169,
cap. 15, n. 18. ML 38-926.
12 «Numquam quippe illic anima quo
ceciderit, iacet, quia voluntarie semel lapsa, ad peiora pondere suae
iniquitatis impellitur, ut in profundum corruens, semper adhuc profundius
obruatur.» S.
GREGORIUS MAGNUS, Moralia in Iob (Iob
XXXIX, 18), cap. 15, n. 28. ML 76-589.
13
«Qui spernit modica..... ex loquacitate in detractionem, ex nimia familiaritate
forte in obscoenitatem, ex curiositate in cordis duritiem, et ex ambitiuncula
in apertam superbiam et magnam ambitionem corruet.... (Levia peccata) sunt
velut irremissae aegrotatiunculae, quae vitam quidem non dissolvunt, sed ita
corpus extenuant ut, accedente aliquo gravi morbo, statim corpus, vires non
habens resistendi, succumbat.» Iacobus ALVAREZ
DE PAZ, S. I., De vita sprituali eiusque
perfectione (Operum tom. 1, Lugduni, 1608, 1ª editio), lib. 5, pars 2, cap.
16.
14
«Experimento minorum peccatorum maiora committi peccata, ut durius feriantur
pro magnis sceleribus, qui de parvis corrigi noluerunt. Iudicio autem divino in
reatum nequiorem labuntur qui distringere minora sua facta contemnumt. Multi a
crimine in crimen coruunt, qui Dei cognitionem habentes, timorem eius
negligunt; et quem noverunt per scientiam, per actionem non venerantur. Ideoque
caecantur divino iudicio punienda committere, et in poenam commissi facinoris
facinus deterius addere.» S. ISIDORUS, Hispalensis episcopus, Sententiarum lib. 2, cap. 19, n. 1, 2.
ML 83-621.
15
«Studeamus igitur custodire conscientiam nostram.... neque conculcemus illam in
aliquo, etsi id minimum sit. Ut enim videre facile est, ex
his minimis et vere vilibus, ad magna contemnenda delabimuir. Cum enim coeperit
quis dicere: «Quid est, si verbulum hoc unicum locutus fuero? Quid est, si modicum hoc
comedero? Quid, si in rem hanc intendero?» ex hoc, quid id, quid illud,
admittitur mala et amara esca, et sensim incipit quis pedetentim in maiora et
graviora prolabi; et sic deinceps per partes proruens periclitatur, atque in
perfectam insensibilitatem decidit. Quapropter advertite, fratres, ne parva
negligatis, illa contemnere ut mullius momenti cavete: non sunt parva
contemnenda: ulcus depascens est consuetudo. Sobrii estote, curate levia quoad
levia sunt, ne graviora fiant. Et virtutes et peccata a parvis
incipiunt, et ad magna, vel bona vel mala, perducunt.» S. DOROTHEUS, Abbas, Doctrina III, De conscientia, n. 2. MG 88-1654,1655.
16
«Noli illa contemnere quia minora sunt; sed time quia plura sunt. Attendite, fratres mei. Minuta sunt, non sunt magna. Non est bestia quasi leo, ut uno morsu guttur frangat: sed et
plerumque bestiae minutae multae necant. Si proiiciatur quisquam in locum
pulicibus plenum, numquid non moritur ibi? Non sunt quidem maiores: sed infirma
est natura humana, quae etiam minutissimis bestiis interimi potest. Sic et
modica peccata: attenditis quia modica sunt: cavete quia plura sunt. Quam
minutissima sunt grana arenae: si arenae amplius in navem mittatur, mergit
illam ut pereat. Quam minutae sunt guttae pluviae: nonne flumina implent, et domos
deiiciunt?... Quotidiana sunt ista quae dico: sed tamen peccata sunt; et non
sunt levia, quia plura. Quia vero quotidiana et plurima, timenda est ruina
multitudinis, etsi non magnitudinis.» S. AUGUSTINUS, Sermo 9, cap. 11, n. 17, 18. ML 33-88, 89.
17 «Multiplicatae
sunt (iniquitates meae) super
capillos capitis mei. Capillos capitis ad numeri multitudinem revocat. Qui numerat capillos
capitis sui? Multo minus peccata, quae excedunt numerum capillorum. Minuta
videntur, sed multa sunt. Praecavisti magna; iam non facis adulterium, iam non
facis homicidium, non rapis res alienas, non blasphemas, non dicis falsum
testimonium; moles istae sunt peccatorum. Magna praecavisti, de minutis quid
agis? An non times minuta? Proiecisti molem, vide ne arena obruaris.Multiplicatae sunt super capillos capitis
mei.» S. AUGUSTINUS, Enarratio in Ps.
XXXIX, n. 22. ML 36-447, 448.- «Ista omnia (peccata levia) si colligantur
contra nos, num ideo non premunt, quia minuta sunt? Quid
interest utrum te plumbum premat an arena? Plumbum una massa est, arena minuta grana sunt, sed
copia te premunt. Minuta sunt peccata: non vides de guttis minutis flumina
impleri, et fundos trahi? Minuta sunt, sed multa
sunt.» IDEM, Sermo 56, cap. 9, n. 12.
ML 348-383.
18 «Gravis certe, gravis res est
pravis.... passionibus dare locum: quapropter aditum illis omnino intercludere
par est. Cum enim emel animam invaserint et occuparint, quasi ignis in ligna
delapsus, sic solent maximam accendere flammam. Quamobrem rogo, nihil non
faciamus, ut illis aditum intercludamus; neque hoc frigido ratiocinio nos
consolantes, omnem introducamus nequitiam dicentes: «Quid hoc est, et quid
illud?» nam infinita mala hinc scaturiunt. Diabolus enim scelestus cum sit, multa utitur
versutia, perseverantia et attemperatione ad hominum perniciem, et a minimis
statim congreditur. Repellenda ergo initia sunt; cum maxime, etiamsi illa prima
peccata non ultra progrederentur, non ideo tamen spernenda illa essent: nunc
autem ad maiora ascendunt, si negligentior sit animus. Ideo nihil non agendum
est ut principia praecidantur. Ne peccati naturam ut parvam, sed perpende ipsum
maioris esse radicem si negligatur. Nam si quid admirandum dicere oporteat, non
tantam diligentiam requirunt maiora illa peccata, quam minima. Illa namque ipsa
peccati natura ut aversemur efficit; minora vero vel quod minora sint in
negligentiam coniiciunt, neque sinunt fortiter ad ipsa tollenda surgere; ideo
nobis dormientibus cito magna flunt. Hoc ipsum in corporibus quoque accidere
videas.... Habeat certe, habet anima quemdam nobis insitum mali pudorem bonique
verecundiam, nec fieri potest ut, ad impudentiam repente declinans, omnia simul
abiiciat; sed sensim corrumpitur negligendo.... Risit
quis intempestive, alius reprehendit;
alius metum repulit dicens: Nihil hoc est. Quid enim est ridere? Quid hinc mali oriatur? Hinc scurrilitas oritur, inde turpiloquium, et actio turpis. Rursum alius
incusatus quod proximum calumnietur, quod convicietur ei, quod maledicat, id
neglexit, dixitque: Maledicere nihil est. Hinc odium partum est ingens,
inimicitia irreconciliabilis, convicia infinita; ex conviciis plagae: ex plagis
saepe caedes.» S. IO. CHRYSOSTOMUS, In
Matthaeum, hom. 86 (al. 87), n.
3. MG 58-766,
767.
19
L' uscita in «essimo» del
condizionale è un regionalismo familiare ai prosatori ascetici del meridionale
nel '600. S. Alfonso, come altri pii scrittori coevi, l' accolse nei suoi
libri. Così abbiamo: «Soccomberessimo- resteressimo- saressimo-
dovressimo.....» Queste forme trovansi nell'edizioni napoletane e in quelle
strettamente dipendenti dalle medesime (per es. Pezzana di Venezia). Il
Remondini restituì di suo arbitrio la forma grammaticale.
20 «Homo:
Quales igitur sunt infimae rupis huius habitatores? Deus: Homines sunt tepidi, desides et frigidi, nullisque magnis
praediti exercitiis, quorum propositum est, numquam in aliquod grande
consentire peccatum, atque hoc ipso ad mortem usque contenti sunt, et in hac
simplicitate vitam exigunt suam, putantque se nihil scire melius. Sed quia non
procul a laqueis demorantur, periculose certe cum illis agitur.» B. HENRICUS
SUSO, Libellus de novem rupibus (interprete
Laurentio Surio), cap. 23: De prima rupe
eiusque incolis.
21
«Homo: Servabunturne isti, Domine? Deus: Si diem suum sine mortiferis
obierint peccatis, salvi erunt; sed maiori in discrimine versantur atque ipsi
putent. Persuasum namque habent se Deo pariter et naturae posse obsequi,
inservire, ac vivere, quod tamen difficile, imo vix possibile est, et aegre admodum
perseverare poterunt.» IDEM, op. cit., l. c.
22
Ediz. Renondiniane..... che mi salvi.
23 S. GREGORIUS MAGNUS, Epistola 65, ad Mauricium Augustum. ML
77, col. 662-664. Homilia 36 in
Evangelia, a num. 10 ad finem. ML 76, col. 1272-1274.- Vedi Appendice, 5.
24
«Quadam vice (parla la stessa Beata) dum orarem in cella mea, dicta sunt mihil
ista verba: «Omnes qui docentur a Deo, illuminantur ut intelligant viam Dei, et
in isto lumine et documento quod fit eis spiritualiter a Deo, claudunt aures ne
audiant et oculos ne videant, nec volunt attendere, nec volunt audire illud
quod loquitur eis Christus in anima, sed omnino ingrossantur et sequuntur
doctrinam aliam a documento, quod intelligunt sibi factum a Deo, et volunt
tenere viam communem contra conscientiam, illi habent maledictionem a Deo
omnipotente.» Multoties autem dictum est mihi istud verbum
quod praedictum est. Ego autem horrebam illud audire, cum videretur mihi valde
grave, et timebam esse deceptionem.... Tunc... praeceptum est mihi frequenter
quod facerem scribi.» B. ANGELAE FULGINATIS Vita (scritta
da Fr. ARNALDO, suo confessore), lib. 1, pars 8, cap. 3. Fulginae, 1714.- B. Angelae de Fulginio Vita, auctore Arnaldo, cap. 10, n. 142, inter Acta Sanctorum Bollandiana, die 4
ianuarii.
25
«Negligentes Deus deserere consuevit.» S. AMBROSIUS (non già S. Agostino), Expositio in Ps. CXVIII, sermo 20, n. 35. ML 15-1343.
26
«Dum fusando festinans, parvos filos lanae proliceret a se, et inter haec opus
suum devota intentione Domino commendaret, vidit daemonem ipsos filos
recolligentem, quasi in testimonium culpae illius.» S. GERTRUDIS MAGNA, Legatus divinae pietatis, lib. 3, cap.
32. Editio Monachorum Solesmensium, 1875.- Si aggiunge subito: «Super quo dum
Dominum invocaret, ipse daemonem expellens increpavit, quod operi sibi in
principio commisso se ingerere praesumpsisset.»
27
Il monaco Giovanni (Vita Sancti Odonis, Abbatis
Cluniacensis secundi (+942), scripta a IOANNE monacho, eius discipulo, lib. 1,
num 30, 31: ML 133-56, 57), parlando delle costumanze di Cluni nel tempo in cui
vi entrò il Santo, scrive: «Tempore vero refectionis numquam deerat lectio
utrisque mensis: micas vero quae ex sectione panum flebant, unusquisque ante se
diligenter recolligens, priusquam lectio finiretur, cum gratiarum actione
sumebant. Finita itaque lectione, nec eas, nec cibum
alium sumere ultra aliquis audebat. Has autem micas sacratiores aliis cibis
esse fatebantur. Tale namque ferebant miraculum ex eis claruisse in eisdem
annis. Frater quidam in eodem monasterio fuit valde idoneus, et omnibus carus. Qui ad mortem usque
perveniens, circumstantibus fratribus qui eius venerant orando commendare
Domino spiritum, subito emissa voce clamavit dicens: «Adiuvate, obsecro,
domini, propter Deum; modo, inquit, sum raptus ad iudicium, ibique protulit
accusator humani generis diabolus contra me ad testimonium de micis panum
plenum sacculum, quas comedere secundum consuetudinem nolui, et de mensa
ceciderunt.» Atque post pusillum iterum terribiliter clamare coepit et dicere:
«Ecce de quo dixi vobis adest diabolus, deferens praedictum sacculum.» Nam cum
territi fratres mirarentur, adiecit rursum: «Illo in loco adest, an non videtis
eum?» Deinde signo crucis totum se munivit, et inter verba orationis spiritum
reddidit. Ab illo ergo die omni cum diligentia sunt collectae.» Piacque al
Signore di approvare questa diligenza in così minuta osservanza, con un grande
miracolo, succeduto nei primi anni della dimora di S. Odone in Clunì, e da lui
spesso raccontato ai suoi cioè delle miche, in mano di un osservantissimo
monaco, «in margaritarum species conversae.» Ibid., n. 35, col. 58.
28
«Coadiutorem quemdam ex nostris qui negligentior in re quapiam fuerat, me
praesente, interrogavit Ignatius: «Quid spectas, quid quaeris in religione? Quem ad finem actiones tuae refuruntur?» Ille Deum se spectare respondit,
Deum se habere finem, cuius causa omnia faceret. Tum Ignatius: «Si Deus,
inquit, propositus tibi finis est, graviter certe mulctaberis. Nam mundo
servire ac vanitati indulgere, haud magnum sane crimen est: Deum vero
spectantem oscitanter aliquid facer atque ignave, intolerabile est. Maledictus,
inquit, qui opus Dei facit negligenter.» RIBADENEIRA, Vita,
lib. 5, cap. 10. (Inter Acta Sanctorum
Bollandiana, Id. op., cap. 37, n.
555: die 31 iulii).
29
«Aliud etiam perfecti et proficientes circa peccata levia faciunt, scilicet ea
quae per ignorantiam aut imbecillitatem contrahunt, in dies, postulatione
amplioris gratiae et diligentissima vigilantia, magis ac magis minuere.
Curantque ut haec minuta peccata, quae omnino vitare non possunt, sint saltem
pauciora numero, et malitia tenuiora, ut sic quotidie magis grati sint apud
Dominum et maiorem mentis suae puritatem obtineant.» Iacobus ALVAREZ DE PAZ, S. I., De
exterminatione mali et promotione boni (Opera, II, Lugduni, 1613), lib. 1,
pars 1, cap. 9.- «Est..... peccatum veniale... non quidem mors animae... sed
est adversa valetudo et infirmitas animae.... Sed si venialia peccata animae aegritudines
sunt, iam elucet quoniam ad mortem, id est ad peccata gravia et lethalia,
disponunt.» Id.
op. cap. 10.
30
«Quelli stessi leggierissimi difetti non furono che rari, e niuno abituale;
onde in una pubblica esortazione ebbe in buona occasione a protestar con
lagrime: «Ho avuto mancamenti, ma non mai consuetudine con loro, mai in mia
vita.» Di tanto neppur contento, arrivò 20 anni prima della sua morte a far
quel gran voto di mai peccar venialmente con avvertenza.» PATRIGNANI, Menologio di pie memorie d' alcuni Religiosi
d. C. d. G., I, 16 febbraio (1624).
31
«Aliquoties additur ut non modo impatienter ferat (delinquens) quod corripitur,
sed etiam id unde reprehenditur, impudenter defendat. Hoc
plane desperatio.... An non ex hac odiosa impudentia pullulabit mox impoenitentia, mater
desperationis? quem enim poeniteat super bono quod putat?» S. BERNARDUS, In Cantica, sermo 42, n. 4. ML 183-989.-
«Nemo dicat in corde suo: «Levia sunt ista, non curo corrigere; non est magnum
si in his maneam venialibus minimisque peccatis.» Haec est enim, dilectissimi,
impoenitentia, haec blasphemia in Spiritum Sanctum, blasphemia in Spiritum
Sanctum, blasphemia irremissibilis.» IDEM, In
conversione S. Pauli, sermo 1, n. 5. ML 183- 363.- «Homines enim aliquando
cadere necesse est, dum in hoc saeculo detinentur; sed alii colliduntur, alii
non... Hoc interest inter eorum casus, quod iustus suscipitur a Domino, ideoque
resurgit fortior: iniustus autem cum ceciderit, non adiicet ultra ut resurgat:
imo vero aut in pudorem noxium, aut in impudentiam cadit. Aut enim excusat quod
fecit, et hic est pudor adducens peccatum; aut fit ei frons meretricis, et iam
nec Deum timet, nec hominem reveretur, sed praedicat peccatum suum sicut
Sodomo. Iustus vero super manum Domini cadit, et... ipsum ei peccatum in
iustitia cooperatur... Nonne cooperatur nobis ille easus in bonum, unde
et humiliores efficimur et cautiores? Nonne Dominus cadentem illum suscipit,
qui ab humilitate suscipitur?» IDEM, In
Ps. «Qui habitat», sermo 2, n. 1, 2. ML 183-189.
32 «Spiritualiter, muscae morientes,
sunt cogitationes vanae, inutiles, affectiones illicitae, distractiones
morosae, praesertim in divino officio: quae perdunt suavitatem unguenti, id est
experimentalem dulcedinem spiritualium exercitiorum, quae sentiri solet in
orationibus, meditationibus, contemplationibus, psalmodiis, recollecta ac
stabili mente Deo oblatis. Imo in cunctis actibus virtuosis hanc utique tollit
et impedit muscarum istarum admixtio, hoc est misera et detestamda illa
distractio, ita quod homo sine sapore et gustu, vaga et vana mente orat,
psallit et meditatur, ac cetera bona exercet.» B. DIONYSIUS CARTUSIANUS, Enarratio in librum Ecclesiastae, art.
10, n. 1. Opera, VII, Monstrolii,
1898, pag. 271.
33 «Quam multa sunt.... peccata.... Piget cuncta colligere, quae
quisque in seipso certius comprehendit atque reprehendit, si divinarum
Scripturarum speculum non negligenter attendat. Quae quamvis singula non
lethali vulnere ferire sentiantur, sicuti homicidium et adulterium, vel cetera
huiusmodi: tamen omnia simul congregata velut scabies, quo plura sunt necant,
aut nostrum decus ita exterminant, ut ab illius sponsi speciosi forma prae filiis hominum (Ps. Xliv, 3) castissimis
amplexibus separent, nisi medicamento quotidianae poenitentiae desiccentur.» S.
AUGUSTINUS, Sermo 351, n. 5. ML
39-1541.
34
Qui enim habet, dabitur ei, et abundabit;
qui autem non habet, et quod habet auferetur ab eo. Matth. XIII, 12.- Omni enim habenti dabitur, et abundabit; ei
autem qui non habet, et quod videtur habere, auferetur ab eo. Matth. XXV,
29.
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