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Sant'Alfonso Maria de Liguori
Confessore diretto…campagna

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PUNTO II. Come debba portarsi il confessore con diverse sorti di penitenti.

 

§ I. Domande da farsi a' rozzi.

 

4. L'obbligo di esaminar la coscienza è proprio del penitente; ma quando v'è motivo di credere che egli non si è bene esaminato (come accade per lo più coi vetturali, tavernari, servidori, garzoni, e simili), è tenuto il confessore ad interrogarlo prima de' peccati che ha potuto commettere, secondo l'ordine dei precetti: e poi della specie, e numero. E dice il p. Segneri nella sua istruzione, essere un errore intollerabile il licenziare questi poveri rozzi, per mandarli meglio ad esaminarsi; mentre per quanto eglino si affatichino, sempre meglio l'esaminerà il confessore; ed all'incontro, se sono licenziati, v'è gran pericolo che non ritornino.

 

5. Circa dunque il 1. precetto dimandi al penitente per 1., se sa le cose della fede; e se lo ritrova ignorante, come dice saviamente il ven. p. Leonardo da Porto-Maurizio, esso confessore dee istruirlo, almeno circa i quattro misteri principali, che debbono sapersi necessariamente da ognuno prima di ricevere l'assoluzione, cioè dell'esistenza di Dio, dell'eternità del paradiso e dell'inferno, del mistero della ss. Trinità, e del mistero della passione e morte di Gesù Cristo: obbligandolo a farsi istruire poi degli altri misteri meno principali, ma anche necessari a sapersi. Per 2., dimandi, se ha fatte cose di superstizione, e se per far quelle si è servito d'altri. Per 3., se ha lasciato mai qualche peccato per vergogna; e questa dimanda procuri di farla sempre a' rozzi, ed alle donne, che poco frequentano i sagramenti; dicendo loro: Hai forse qualche scrupolo della vita passata? Fatti mo una buona confessione. Non aver paura, levati tutti gli scrupoli. Diceva un buon operario, che con questa dimanda avea salvate molte anime dalle confessioni sacrileghe. E questa dimanda giova che si faccia a principio, acciocché si pigli una sola volta il numero de' peccati presenti e passati, e così si minori il tedio al penitente. Se poi il confessore trova già tali sacrilegi commessi, dimandi quante volte si è confessato e comunicato, avvertendo già al sacrilegio; e se avvertiva di più, che con tali confessioni sacrileghe trasgrediva ancora il precetto pasquale. Per 4., dimandi, se ha fatta la penitenza, o se l'ha dimenticata, o l'ha differita per adempirla appresso, o per farsela commutare. Per 5., dimandi, se ha dato scandalo, incitando altri a peccare, e se si è servito d'altri per commettere qualche peccato, o ha cooperato al peccato altrui. Dimandi alle zitelle, se han mai ricevuti regali fatti loro da uomini a mal fine, e se mai han dato loro scandalo col parlare o coll'immodestia del petto ecc.

 

6. Circa il II. precetto dimandi per 1., se ha trasgredito qualche voto. Per 2., se ha giurato colla bugia; e se giurando così, ha creduto di commettere colpa grave. Dico ciò, perché molti rozzi, quando non v'è danno, non la credono grave. Per 3., se ha bestemmiati santi, o giorni santi, e come ha detto, se mannaggia santo N., oppure atta, o potta di S., e se vi ha soggiunto subito, se l'ho fatt'io. Di più se ha bestemmiato avanti a figli, o garzoni, perché allora vi è ancora il peccato dello scandalo.

 

7. Circa il III. precetto dimandi per 1., se ha perduta la messa, e se avvertiva che la perdeva, o ne dubitava; perché talvolta alcuni si riducono a sentirla così tardi, che benché poi la ritrovino, anche peccano per lo pericolo a cui s'espongono di perderla. Per 2., dimandi, se ha faticato nelle feste, e per quanto tempo, e quante volte ha creduto di faticare in materia grave.

 

8. Circa il IV. precetto, se si confessano i figli, dimandi loro, se han perduto il rispetto a' genitori, se han portato loro odio, e se gli han disubbiditi in materia grave; vedi quel che si è detto al capo VII. n. 1. Alcuni confessori poi impongono per penitenza ai figli il baciar le mani o i piedi a' loro padri, ma quelli per lo più tal penitenza non l'adempiono, e fan nuovo peccato. Meglio è, ch'essi prima dell'assoluzione vadano a cercar loro perdono, e se ciò comodamente da loro non si può esigere prima dell'assoluzione, non se gl'imponga per obbligo, ma solo per consiglio; poiché ben si presume, che i padri rimettano a' figli quest'obbligo per liberarli dal peccato. Se poi si confessano i genitori, dimandi loro, se mandano i figli alla dottrina, se attendono a non farli praticare co' mali compagni e con persone di diverso sesso, se gli han corretti ne' loro peccati, e specialmente ne' furti, se han permesso


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di fare entrare in casa i giovani che pretendevano le loro figlie, se han tenuti bambini nel letto con pericolo di morir soffocati, o figli grandi con pericolo di scandalo, e se fanno dormire insieme maschi e femine loro figli. Si dimandi ancora a' padroni, se correggano i loro garzoni, che bestemmiano, o parlano disonestamente, specialmente in tempo di vendemmia, e se attendono a far loro sentir la messa, e a soddisfare il precetto pasquale; a' mariti, se han mancato in alimentar la famiglia col giuocar nelle taverne; alle mogli, se han provocati i mariti a bestemmiare i santi, quando quelli stavano in collera. Di più, se han renduto il debito coniugale; ma ciò si domandi con modestia; v. gr. Sei ubbidiente a tuo marito anche nel matrimonio? m'intendi, che voglio dire? E questa dimanda per lo più si faccia alle maritate, perché molte per questo capo stanno in peccato, e son causa di far stare in peccato anche i mariti, i quali, negandosi loro il debito, fanno mille scelleraggini.

 

9. Circa il V. precetto dimandi per 1., se ha portato odio con desiderar male al prossimo, e mandargli imprecazioni. Ma per sapere, quando tali imprecazioni sono mortali, dimandi, se in quell'atto desiderava di vederle adempite. E ciò non basta; per far meglio il giudizio bisogna dimandare di più, se l'ha mandate ad estranei, o congiunti, perché a' congiunti di rado vi è l'animo pravo. In oltre si dimandi la cagione per cui l'ha mandate, s'è stata grave, o leggiera. Del resto non basta a scusare il penitente il dire, che in quell'atto volea vederle, ma non appresso; perché in quell'atto che ardea la passione potea peccarvi gravemente. Ed in tal caso il confessore ne prenda il numero, e le prenda come stanno avanti a Dio. Ma chi trova recidivo in tali imprecazioni dette con animo pravo, non l'assolva, se non vede prima l'emenda. Per 2., dimandi, se ha poste discordie, cioè con riferire quel che ha inteso da una parte all'altra. Se poi il penitente è stato offeso, e l'offensore cerca la remissione, si osservi quel che dice s. Tommaso, cioè che può prendersi il castigo per frenare l'insolenza dell'offensore, o per la quiete degli altri: Si vero (son le parole del santo) intentio vindicationis feratur ad peccantis emendationem, vel ad cohibitionem eius, et quietem aliorum, et ad iustitiae conservationem, potest esse vindicatio licita1. Ma circa la conservazione della giustizia dee avvertirsi, che facilmente un tal amore della giustizia si unisce col desiderio della vendetta illecita; vedi quel che si è detto al capo IV. n. 9. Si dimandi per 4. a tali rozzi, se mai si sono ubbriacati, e se bevendo prevedeano già, o dubitavano, che sarebbono giunti a perder l'uso della ragione, ed a commettere altri mali; e differisca l'assoluzione a tali uomini, che frequentano le taverne, dove sogliono peccar gravemente.

 

10. Circa VI. praeceptum. I. Circa cogitationes pravas interrogetur poenitens, an plane consenserit in turpia desideria, aut delectationes morosas. Deinde, an concupierit aliquam mulierem virginem, viduam, an nuptam; et cum virgine quid turpitudinis intenderit se acturum. De his autem cogitationibus sumatur numerus si haberi potest; sin autem, exquiratur quoties in die, vel hebdomada, vel mense consenserit. Item an concupierit singulas mulieres aspectui occurrentes, aut in mentem venientes, vel tantum aliquam particularem feminam; et an continue eam concupierit, aut tantum cum illam aspexit.

 

11. II. Circa verba obscoena interrogetur 1., quaenam verba protulerit, et an nominarit pudenda, atque actus turpes. 2. Coram quibus ita sit locutus, viris aut feminis, et an puellis, aut pueris (facilius enim puellae et pueri scandalum patiuntur); et an talia verba protulerit ex ira, vel ioco; ex ioco enim facilius praebetur scandalum, ideoque recidivi in turpia colloquia non facile absolvantur, quamvis asseverent, ea ex ioco protulisse. 3. An se iactaverit de peccato turpi; in hoc enim ut plurimum tria peccata patrantur, scil. iactantiae de turpitudine peracta, scandali audientium, et complacentiae de peccato narrato; quapropter interrogetur etiam, de quo peccato iactatus sit. 4. Interrogetur insuper, an delectatus sit de turpibus, audiendo alios obscoene loquentes.

 

12. III. Circa opera interrogetur 1., cum quibus feminis rem habuerit, et an alias cum eisdem peccarit, et ubi (ad occasiones removendas). 2. Quoties


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peccatum consummarit, et quot actus fuerint interrupti sensim a peccato consummato. 3. Num ante consummationem peccati diu illud meditaverit; tunc enim actus interni interrumpuntur et multiplicantur iuxta dicta capo III. n. 10. Item cum poenitens confitetur, se polluisse, interrogetur 1., an in actu pollutionis delectatus sit tamquam de copula habita cum aliqua, aut cum pluribus feminis, aut pueris; tunc enim tot peccata distincta committit. Advertendo insuper, quod tunc ut plurimum delectationi annectitur desiderium copulae, quod est distinctum peccatum a peccato delectationis. 2. Interrogetur de tactibus pudendorum separatis a pollutionibus; et moneatur, omnes illos tactus esse mortales.

 

13. Circa il VII. precetto dimandi, se ha prese robe d'altri; e se in una o in più volte in materia grave; e se avendo consumato quelle robe, si è fatto diziore.

 

14. Circa l'VIII. precetto dimandi per 1., se ha detto male del prossimo in materia grave; e se di cosa vera o falsa; ed essendo vero il fatto, se era segreto o pubblico; ed essendo segreto, a quante persone l'ha detto. Per 2., se ha provocati altri a mormorare; ed innanzi a quante persone. Per 3., se ha dette ingiurie gravi al prossimo; e se innanzi ad altri; e se con apporgli di più qualche infamia falsa, oppure segreta, perché allora vi è il peccato della mormorazione, e quello della contumelia; onde non solo si ha a restituire la fama, ma anche l'onore tolto; vedi quel che si disse al capo XI. n. 2. ed 8.

 

15. Circa poi i giudizi temerari non occorre farne molto caso, per quel che si disse ivi stesso al n. 1.; mentre per lo più tali giudizi non sono temerari, oppure non sono giudizi, ma sospetti. Anzi alle volte bisogna disingannare, per esempio, le madri che sospettano male delle figlie che praticano cogli sposi, o co' parenti larghi in segreto; oppure i mariti che sospettano delle mogli, vedendole conversare troppo famigliarmente con altri: dica loro, che in ciò non solo non peccano, ma anzi sono obbligati a sospettare quando se ne ha giusto motivo, per impedire il male che può succedere.

 

16. Circa i precetti della chiesa dimandi, se ne' venerdì e sabati si è cibato di carne, o di latticini nelle quaresima, e vigilie: se poi la persona è obbligata al digiuno, dimandi se l'ha fatto, e come l'ha fatto; perché molti si astengono bensì da' cibi vietati, e di cibarsi più volte il giorno, ma poi nella colazione della sera passano le otto oncie, ed anche le dieci.

 

§ II. Domande da farsi a persone di diverse condizioni, ma di poco timorata coscienza.

 

17. Quando il confessore vede, che il penitente è di coscienza trascurata, oppure ha giusto sospetto, che quegli manchi a' suoi obblighi, allora non basta dimandargli in generale, se tiene qualche altro scrupolo oltre di quelli che si confessa, ma bisogna che gli faccia le dimande in particolare di quelle cose in cui verisimilmente ha potuto mancare. Per esempio, se viene un sacerdote di poco timorata coscienza, gli dimandi specialmente se ha soddisfatte le messe prese a celebrare fra lo spazio dovuto, cioè di due mesi, se le messe erano di vivi: e di un mese, se di morti. Oimè e quanti sacerdoti vivono in peccato per questi obblighi di messe non soddisfatti! Di più gli dimandi quanto spazio di tempo mette a celebrare la messa, se giuoca a giuochi proibiti, se tiene danaro a negozio. A' beneficiati dimandi, come impiegano i frutti del beneficio. A' sacerdoti confessori dimandi, come si portano cogli occasionari e recidivi. A' parrochi, se attendono a proibir le male pratiche, specialmente degli sposi che entrano nelle case delle spose. Se nel tempo pasquale esigono la cartella del precetto adempito anche dalle persone di riguardo. Come attendono a predicare e ad insegnare la dottrina cristiana.

 

18. Se viene un medico, gli dimandi, se secondo la bolla di san Pio V., per la cui osservanza i medici dan giuramento, ha procurato che i suoi infermi si fossero confessati fra tre giorni, quando l'infermità è stata pericolosa, oppure v'era dubbio che si facesse pericolosa di morte; vedi quel che sta scritto su di ciò nell'istruz. al capo ult. n. 33. Di più gli dimandi, se ha data licenza di mangiar carne ad alcuno nella quaresima senza necessità, ma solo per rispetto umano. Di più, se ha mandato a prendere i rimedi da qualche speziale suo amico poco pratico, e poco fedele. Di più, se ha atteso alla cura de' poveri, come dovea.


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19. Se viene a confessarsi un negoziante, o mercadante di robe, gli dimandi, se ha mancato nel peso o nella misura; se ha venduto più del prezzo supremo. Se viene un sartore, se ha faticato la festa, e se si ha ritenuti i ritagli de' panni, e se ha fatti mali pensieri, o avute compiacenze carnali nel prender la misura alle donne. Se viene un sensale, o una venditrice, se si ha ritenuto niente del prezzo esatto della roba data a vendere. Come poi debba portarsi udendo la confessione d'una monaca, o di un giudice, o d'uno scrivano, vedi all'Istruzione1. Come debba portarsi co' muti, e sordi, e co' moribondi, o co' condannati a morte, vedi ivi2. Come debba portarsi poi cogl'infestati da' demonii, praesertim cum iis qui turpibus visionibus, aut motibus, aut etiam tactibus vexantur a daemone, qui aliquando se exhibet succubus vel incubus ad carnale commercium, et aliquando, permittente Deo, absque hominis consensu, manus illius admovet ad se turpiter tangendum, usque ad pollutionem, v. ivi3.

 

§ III. Come debba portarsi il confessore co' fanciulli, e colle zitelle.

 

20. Co' fanciulli bisogna usare tutta la carità, quando vengono a confessarsi. Primieramente bisogna interrogarli, se sanno le cose della fede. E se non le sanno, bisogna instruirli per allora, come meglio si può, almeno nelle cose assolutamente necessarie a sapersi prima dell'assoluzione, come si disse al n. 5. Venendo poi alla confessione, prima si faccian dir loro i peccati che si ricordano, ed indi si potranno lor fare le seguenti dimande secondo l'ordine de' precetti. Per 1., se han taciuto mai qualche peccato per vergogna. Per 2., se han bestemmiati i santi, o i giorni santi. Se han giurato colla bugia. Per 3., se han lasciata la messa, o dentro quella han parlato; e se han faticato la festa. Per 4., se han perduto il rispetto a' genitori con alzar le mani contro di loro, o con dire loro qualche ingiuria, o far loro beffe in presenza, o con mandar loro imprecazioni con fargliele sentire; il che è certamente peccato mortale. Come e quando poi si ha da imporre a' fanciulli il cercar perdono a' genitori, vedi quel che si è detto al n. 8. Per 5., se han commessa qualche disonestà. Ma in ciò sia molto cautelato il confessore. Dimandi a principio al fanciullo, se ha dette male parole, o ha avuti pensieri brutti. Dimandi poi, se ha burlato con altri figliuoli, o figliuole; e se quelle burle sono state di nascosto con toccarsi colle mani. Indi (rispondendo il fanciullo di sì) dimandi, se han fatte cose brutte, o male parole: così chiamano i figliuoli i congressi turpi. E benché il fanciullo dica di no, giova fargli interrogazioni suggestive, per vedere se nega per rossore, v. gr. È bene quante volte hai fatte queste cose brutte? dieci, quindici volte? Di più dimandi a' fanciulli, con chi dormono, se con fratelli o sorelle, e se con essi in letto si son toccati burlando colle mani. Se mai il fanciullo dorme nel letto de' suoi genitori, vada scorgendo il confessore con prudenza, se ha fatto qualche peccato, aspiciendo aut audiendo genitores coeuntes. Per 6. Dimandi, se ha pigliate robe d'altri. Se ha fatto danno portando gli animali a pascere. Se ha tagliate le piccole piante degli alberi. Per 7. Dimandi, se ha detto male d'altri. Se ha mangiate carni ne' venerdì e sabati, o latticini in tempo di quaresima. Se si sono confessati e comunicati nella pasqua.

 

21. Circa poi l'assoluzione da darsi a questi fanciulli, vi bisogna molta prudenza. Nel caso ch'essi sono recidivi nei peccati gravi, e si scorge, che hanno già il bastante intendimento in comprendere l'offesa fatta a Dio, e l'inferno meritato, debbono allora trattarsi come gli adulti; onde, se non danno segni straordinari di dolore, dee lor differirsi l'assoluzione, finché si vedano emendati, e ben disposti. Se poi si dubita del loro uso perfetto di ragione, come quando si confessano burlando colle mani, o ridendo, o girando gli occhi, o frapponendo nella confessione cose impertinenti, allora dicono comunemente i dd., che tali fanciulli debbono assolversi, stando in pericolo di morte, ed in tempo del precetto pasquale, ma sotto condizione. Sempre però che si confessano di qualche peccato grave, o dubbio grave, diciamo con Laymann, Sporer ecc., che debbono assolversi sotto la stessa condizione; quantunque sieno recidivi, e dubbiamente disposti; poiché a' fanciulli, che non hanno ancora il perfetto discernimento, niente giova il differir loro l'assoluzione. E come dicono


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probabilmente altri dd., tali fanciulli, benché adducano materia solamente veniale, pure debbono assolversi sotto condizione ogni tre o quattro mesi. Bisogna poi suggerir loro l'atto di dolore a questo modo; per esempio: Vuoi bene a Dio sommo bene, che è morto per te? Ora questo Dio tu l'hai disgustato, l'hai ingiuriato. Orsù spera mo, che Gesù Cristo ti perdoni per la sua passione. Ma tu ti penti d'averlo offeso? e per averlo offeso t'hai meritato l'inferno. Te ne penti? Dio mio, mai più, ecc. La penitenza poi da imporsi a' fanciulli sia leggiera, e facile quanto si può. E se nella loro casa si dice il rosario, quello vaglia per penitenza. A tutti essi esorti, che fuggano i mali compagni. Inoltre, che ogni mattina dicano tra Ave, aggiungendo: Mamma mia, liberami oggi da' peccati mortali.

 

22. Alle zitelle poi, che sono di maggior età, dimandi, se han fatto l'amore con giovani, e se vi sono stati mali pensieri, parole, o atti, e dalle risposte s'inoltri con prudenza ad indagare i peccati consumati, che han potuto esservi: sed abstineat ab exquirendo apertis verbis a puellis, vel a pueris, an tangendo se adfuerit seminis effusio. Mentre con tali fanciulle o fanciulli, come si è detto di sovra, è meglio che si manchi all'integrità materiale della confessione, che metterli a pericolo di apprendere quel che non sanno, oppure metterli in curiosità di saperlo. Parlando poi generalmente di coloro che fanno all'amore, è vero che non tutti debbono condannarsi di peccato grave, ma ordinariamente non sono fuori dell'occasione prossima di peccar mortalmente. Di cento appena si troveranno due o tre esenti da peccati gravi; e se non al principio, almeno nel progresso: poiché la passione, quando è radicata, accieca tale amoreggianti, e li fa precipitare in mille oscenità. Perciò il card. Pico della Mirandola, vescovo di Albano, avvertì i confessori a non assolvere questi amoreggianti, se dopo essere stati ammoniti per due o tre volte non si fossero affatto corretti; e specialmente se amoreggiassero da lungo tempo, o di notte, oppure occultamente, o con iscandalo, come se amoreggiassero in chiesa, o con coniugati, o claustrali, o chierici in sacris, o dentro la casa con pericolo facile di toccamenti. Sovra tutto avverta il confessore a non assolvere gli sposi, che vanno in casa delle spose, e le spose, ed i loro genitori che gli ammettono; perché facilmente tali sposi in tale occasione peccano mortalmente, almeno co' pensieri, o colle parole, mentre tutti gli aspetti e colloqui tra essi sono incentivi ad appetire quegli atti turpi che dovranno succedere in tempo del matrimonio.

 

§ IV. Come debba portarsi il confessore colle donne, e specialmente colle donne che fanno vita spirituale.

 

23. Ma prima di tutto bisogna qui avvertire, che il confessore non dee essere così addetto a confessar le donne, che sfugga di sentire gli uomini quando vengono. Che miseria è vedere tanti confessori spender tutta la mattina a sentire bizzoche e devotelle, e poi se si accosta un povero faticatore, o una povera maritata che a stento avrà lasciata la casa o la fatica per confessarsi, gli licenziano: Io ho che fare, andate ad altri! E da qui ne avviene, che quelli poi, non trovando chi li confessi, vivono per molti mesi senza sagramenti, e senza Dio. Ma questo modo di confessare non è confessare per Dio, né per salvare anime, ma solo per genio. I buoni confessori, quando viene qualche anima bisognosa, lasciano tutto per sentirla, poiché non mancherà tempo appresso per sentir le divote.

 

24. Parlando poi delle donne, il confessore nell'udire le loro confessioni dee usare gran cautela e prudenza, per non metter a rischio l'anima sua, e quella delle sue penitenti. Per 1., osservi il decreto della s.c., di non porsi senza necessità precisa a udir le loro confessioni prima dell'aurora, e dopo l'Ave Maria. Per 2., colle giovani sia più austero che avvenente, come praticava s. Filippo Neri; non permettendo mai, che gli bacino la mano, o gli parlino davanti, o fuori del confessionario, se non con qualche breve parola. Per 3., si astenga di prendere da esse regali, e di andare alle loro case, fuorché in tempo di grave infermità; ed allora usi tutta la cautela con tener le porte aperte, e stare a vista della gente di fuori; e udendo la confessione, non guardi mai la penitente, ma tenga la faccia rivolta all'altra parte: cosa che dee sempre praticarla di non guardar mai le penitenti, e non trattar mai con esse con


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confidenza. Né si faccia ingannare dal pensiero, che quelle sien sante, perché il demonio spesso si avvale di tal pretesto per accender la passione, acciocché entrato poi l'attacco passi l'affetto dalla virtù alla persona. O quanti ne ha ingannati così il demonio, rendendo poi suoi schiavi il confessore e la penitente!

 

25. Del resto io non dico, come dicono alcuni (i quali danno nell'altro eccesso), che sia tempo perduto l'attendere a coltivare le donne divote; anzi dico, esser opera molto grata a Dio il guidare l'anime alla perfezione; e perciò esorto e prego i confessori della mia diocesi, che quando trovano qualche persona (sia uomo o sia donna) che vive lontana da peccati mortali, ed è inclinata alla pietà, facciano quanto possono per incamminarla alla perfezione del divino amore, in cui consiste tutta la santità. E perciò qui soggiungo un breve metodo de' mezzi necessari per guidare quell'anime alla vita perfetta. Tre sono i mezzi principali per una tal guida, l'orazione mentale, la mortificazione, e la frequenza de' sagramenti.

 

26. Ed in primo luogo parlando dell'orazione mentale, questo è un mezzo che dal confessore dee insinuarsi a tutti i penitenti, ma specialmente alle persone spirituali. Ad ogni anima per conservarsi in grazia di Dio è necessaria la preghiera, cioè il raccomandarsi sempre a Dio. Perciò il confessore attenda ad esortare i suoi penitenti, che spesso ricorrano a Dio, e specialmente in tempo di tentazioni. Or chi non fa orazione mentale, ossia la meditazione, difficilmente prega, o molto poco prega, perché, non meditando, poco vede i bisogni dell'anima sua, ed i pericoli in cui si trova; e perciò è moralmente necessaria ad ognuno l'orazione mentale per non cadere in peccati gravi, ed anche per infiammarsi nel divino amore. La meditazione è la fornace, ove arde questo divino fuoco: In meditatione mea exardescet ignis1.

 

27. Incominci dunque il confessore ad introdurre la penitente nell'orazione. A principio le faccia fare l'orazione per mezz'ora, e le assegni la materia da meditare, cioè la morte, il giudizio, l'inferno, o la passione di Gesù Cristo. Indi come cresce lo spirito, così avanzi il tempo dell'orazione. Se la penitente dice, che non ha luogo, né tempo da ritirarsi, le dica, che faccia l'orazione in chiesa, oppure in casa, quando vi è più quiete; almeno la faccia nel tempo che fatica. Le insegni poi a farla nel seguente modo, ch'è facile e breve. L'orazione contiene tre parti, la preparazione, la meditazione, e la conclusione. Nella preparazione si fanno tre atti, di fede della presenza di Dio, di umanità coll'atto di pentimento, e di domanda di luce. E si dice così: Per 1. Dio mio, vi credo a me presente, e vi adoro. Per 2. Signore, a quest'ora dovrei stare all'inferno, mi pento d'avervi offeso ecc. Per 3. Eterno Padre, per amore di Gesù e di Maria, datemi luce in questa orazione, acciocch'io ne ricavi profitto. Indi si preghi la divina Madre per questa luce, e l'angelo custode, e subito si passi alla meditazione.

 

28. Per la meditazione, a chi sa leggere, giova sempre il servirsi di qualche libro, leggendo, e fermandosi dove lo spirito trova più pascolo. Chi poi non sa leggere, scelga a meditare quella materia, ove trova più divozione; ma per lo più procuri di meditare i novissimi, e sovra tutto la morte, e quel momento nel quale lascerà questa terra, ed entrerà nell'eternità. Mediti anche spesso la passione di Gesù Cristo, la quale dovrebbe essere la nostra meditazione più ordinaria. Avverta poi alla penitente, che 'l profitto della meditazione non tanto consiste nel meditare, quanto nel fare affetti, nel pregare, e nel risolvere: questi sono i tre frutti della meditazione. Dopo dunque che avrà meditata qualche massima di fede, per 1. faccia affetti, o sieno atti di adorazione, di ringraziamento, d'umiltà, di confidenza, e simili, ma sovra tutto eserciti atti di contrizione e d'amore. L'amore è quella catena d'oro che stringe l'anime con Dio. Ogni atto d'amore ci assicura della divina grazia, dicendo Dio, ch'egli ama chi l'ama: Ego diligentes me diligo2. Di più dice s. Tommaso, che ogni atto d'amore ci fa meritare il paradiso, oppure un grado maggiore di gloria: Quilibet actus caritatis meretur vitam aeternam. Atti d'amore sono il dire: Dio mio, v'amo con tutto il cuore. Vi stimo sopra ogni


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cosa. Mi dono tutto a voi (quanto piacciono a Dio questi atti d'offerte! S. Teresa si offeriva a Dio cinquanta volte il giorno). Fate di me, Signore, quel che vi piace. Fatemi conoscere quel che da me volete, ch'io tutto voglio farlo. Godo che voi siete infinitamente beato. Vorrei vedervi amato da tutti gli uomini. Avverta poi alla penitente, che quando si sente tirata a Dio, lasci di meditare, e dia luogo agli affetti. Per 2., si eserciti in pregare, e questo è l'esercizio forse il più utile nel far l'orazione, il replicar le preghiere, domandando a Dio con confidenza il suo aiuto, la sua luce, la buona morte, e sovra tutto la perseveranza nella sua grazia, il suo santo amore, e l'uniformità alla sua divina volontà, dove consiste la perfezione dell'amore; e quando l'anima stesse in grande aridità, replichi spesso: Signore, aiutatemi, abbiate pietà di me. E domandiamo sempre le grazie per amore di Gesù Cristo; perché così riceveremo ogni grazia, come Gesù medesimo ci ha promesso: Amen amen dico vobis, si quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vobis. Per 3., in fine della meditazione bisogna far le risoluzioni: e non solo in generale, ma in particolare, come di evitare qualche difetto più usuale, di mortificarsi meglio in qualche cosa, di soffrire con più pazienza qualche persona o qualche tribulazione e cose simili. In fine si fa la conclusione, che consiste 1., in ringraziare Dio de' lumi ricevuti: 2., in propor di osservare le risoluzioni fatte: 3., in cercare l'aiuto a Gesù ed a Maria per eseguirle. E prima di finir l'orazione non si lasci mai di raccomandare a Dio l'anime sante del purgatorio, ed i poveri peccatori.

 

29. Ammonisca poi il confessore fortemente le sue penitenti a non lasciar l'orazione in tempo di aridità. Molte anime seguitano l'orazione, finché durano le dolcezze sensibili; ma quando mancano queste, lasciano tutto; perciò dica loro, che l'orazione fatta in aridità, e tedio, le renderà più care a Dio, e le stabilità nella buona vita. Dicea s. Francesco di Sales: Vale più un'oncia di orazione fatta in aridità, che cento libbre di orazione fatta in mezzo alle consolazioni. Dicea inoltre il santo, che se nell'orazione non si facesse che discacciare distrazioni e tentazioni, pure sarebbe quella ben fatta. Sì, perché, sebbene allora ci parrà di perdere il tempo, il Signore però sarà contento di vederci per qualche tempo stare a' piedi suoi per dargli gusto. Ma no, che non sarà tempo perduto, perché sempre si farà qualche atto buono o qualche preghiera; e ben verrà il tempo poi che Iddio ci consolerà. Inculchi spesso il confessore questo punto alle principianti, che non lascino l'orazione solita, quando si sentono desolate. Ed a tali principianti non tralasci il confessore di spesso chieder loro conto, se han fatto l'orazione. E quando trova che l'hanno trascurata, le sgridi, e le penitenzi, e le animi a ripigliarla. Con questa sola dimanda: Hai fatta l'orazione? Perché l'hai lasciata? i confessori possono far sante molte anime con poco fastidio. Io l'incarico a' miei sacerdoti quanto posso. Chi poi volesse una general notizia del modo di guidare qualche anima sollevata da Dio alla contemplazione, legga quel che sta scritto nell'Esame degli ord.1, ove troverà dichiarati in breve tutti i gradi dell'orazione sovrannaturale.

 

30. In secondo luogo, parlando della mortificazione, bisogna avvertire, che quando l'anime cominciano la vita spirituale, suole Iddio allettarle con molte consolazioni sensibili, ed allora vorrebbero elle in quel primo fervore uccidersi (per dir così) co' digiuni, cilizi e discipline. Ma spesso questa è arte del demonio, acciocché quando poi cessano quelle dolcezze, sembrando loro troppo dura la vita spirituale, lascino le mortificazioni, e l'orazione, e tutto. Dee pertanto il confessore esser parco a principio in concedere tali mortificazioni a chi le domanda. Dico, dee esser parco, ma non dee affatto negarle. Vi sono alcuni direttori imprudenti, che non fanno altro che caricar le penitenti di digiuni, catenelle, e discipline a sangue, e pare che in ciò facciano consistere tutto il loro profitto. Altri poi non meno imprudenti negano, e proibiscono ogni sorta di mortificazione esterna, dicendo, che tutta la perfezione sta nell'interno, e nel mortificare la propria volontà. Ma questi anche errano, perché la mortificazione esterna aiuta l'interna, ed è anche necessaria a raffrenare gli appetiti sensuali;


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e perciò vediamo, che tutti i santi hanno atteso ad esercitarla sui loro corpi, quanto più poteano. Scrive s. Francesco di Sales: Se la carne non è mortificata, non mai l'anima si solleverà a Dio. È vero che la mortificazione interna delle passioni è la principale per avanzarsi nella perfezione, cioè non cercare cose di stima propria, non rispondere alle ingiurie, cedere nelle contese, ubbidire alla cieca a' superiori; ma il dire che le mortificazioni corporali niente, o poco servono, dicea s. Giovanni della Croce, esser ciò un grande errore.

 

31. Sul principio dunque il direttore cerchi d'insinuare alla penitente l'amore a tali mortificazioni, dicendole, che tutti i santi ne han fatte assai; ma le precetti insieme, che non faccia niente senza la sua ubbidienza. Quando poi ella dimanda mortificazioni, il confessore glie ne conceda alcuna picciola a principio, e poi col tempo vada allargando la mano, secondo vedrà che l'anima si avanza nelle virtù. Ma abbia sempre la regola (ordinariamente parlando) di non concedere queste penitenze, se non richiesto; e quando è richiesto, conceda sempre meno di quel che gli si dimanda, acciocché la penitente resti sempre con fame di averne più. Queste mortificazioni consistono (come già si è detto) in digiuni, cilizi, e discipline. Il digiuno, quando è discreto, è la mortificazione più utile per l'anima e per lo corpo; poiché quasi tutte le infermità nascono dagli eccessi fatti nel mangiare. Procuri per tanto d'insinuarle più presto l'astenersi da' cibi soverchi o dannosi, che nel far molti digiuni in pane ed acqua. Del resto il digiuno in pane per una volta la settimana ben si può concedere ad ognuno, a cui non osta qualche particolare infermità. In quanto a' cilizi, può concedersi qualche catenella di ferro, ma non alla cintura de' fianchi, né cilizi di crini, che molto nuocono alla digestione. Più presto può allargarsi la mano alle discipline, ed all'astinenza dalle carni, da' frutti, e da' dolci.

 

32. In terzo luogo parlando della frequenza de' sagramenti, questo fra tutti è il mezzo più utile per camminare alla perfezione, quando si frequentano colla dovuta divozione. In quanto alla confessione procuri il direttore, che la sua penitente si faccia la confessione generale, se non l'ha fatta ancora: la quale (come dicea s. Carlo Borromeo) molto giova per fare una perseverante mutazione di vita. Per le confessioni poi ordinarie, chi frequenta la comunione basta che si confessi una o due volte la settimana; e quando non avesse comodità di confessarsi, allora, benché si trovasse aggravata di qualche colpa veniale, dice s. Francesco di Sales che non perciò dee lasciare la comunione, potendo ottenere la remissione di quella colla contrizione, o coll'atto d'amore. In quanto poi alla frequenza della comunione, in ciò similmente altri direttori errano per soverchia indulgenza, altri per soverchio rigore. Certamente che non può darsi la comunione frequente a chi di quando in quando cade in colpe gravi, e neppure a chi non di rado cade in colpe veniali deliberate. A costoro il più che può permettersi, è di comunicarsi una volta la settimana. Ciò per altro non solo può permettersi, ma dee esortarsi a tutti, checché si dica un certo autor moderno, nominato d. Cipriano Aristasio, il quale s'è impegnato a scrivermi contro su questo punto, dicendo, che s. Francesco di Sales, nella sua Filotea1, e 'l ven. p. m. Avila (benché Avila in un luogo scrive altrimenti, come vedremo appresso), la comunione d'ogni otto giorni l'hanno per frequente, onde non può concedersi ad ognuno che sta in grazia, ma che non cammina per la perfezione. A ciò rispondo per prima, che in quei tempi di s. Francesco di Sales la comunione d'ogni otto giorni si stimava frequente, a rispetto che allora l'uso comune era di comunicarsi appena tre o quattro volte l'anno; e dava ammirazione chi si comunicava ogni settimana. Rispondo per secondo, che s. Francesco di Sales disse ciò appoggiato all'autorità della sentenza di s. Agostino, che cita già nello stesso luogo, e che si rapporta nel can. Quotidie presso Graziano. La sentenza dice così: Quotidie eucharistiae communionem percipere, nec laudo, nec vitupero. Omnibus tamen dominicis communicandum suadeo et hortor, si tamen mens in affectu peccandi non sit. Ma bisogna primieramente riflettere, esser certo, come nol nega lo stesso Aristasio,


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che questa sentenza non è di s. Agostino, ma di Gennadio scritta da lui nel trattato de ecclesiast. dogmat. In oltre bisogna vedere, quelle parole, Si tamen mens in affectu peccandi non sit, come debbansi intendere; se dell'affetto al peccato mortale, o al veniale. Ed in ciò si è trovato, che comunemente la Glossa, s. Tommaso, e gli altri dottori lo spiegano del solo mortale, non già del veniale. Ecco come parla la Glossa in detto canone: Quaerebatur, utrum quotidie est communicandum? Augustinus (qual era stimato allora in vece di Gennadio) non vult praecise respondere ad hoc, sed monet omnes omni die dominico communicare, qui non sunt conscii peccati mortalis, nec habent propositum peccandi. Sed quando dicitur, quod mens est sine affectu peccandi? Credo, quod quando proponit firmiter abstinere a quolibet peccato mortali. Ecco quel che dice s. Tommaso: Non potest (homo) uniri Christo, dum est in affectu peccandi mortaliter, et ideo, ut in libro de ecclesiast. dogmat. dicitur, si mens in actu, alias affectu peccandi est, gravatur, magis eucharistiae perceptione, quam purificetur1. Ed in altro luogo scrive similmente: Tertio modo dicitur aliquis indignus ex eo quod cum voluntate peccandi mortaliter accedit ad eucharistiam. Unde in lib. de eccl. dogm. dicitur: Si mens in affectu peccandi non sit2. Così parimente lo spiegano Teofilo Rainaudo, Heterio, Icmaro, Albino Flacco, Alcuino, Tournely, Frassen ecc. E che lo stesso Gennadio non altro abbia inteso che dell'affetto al mortale, si argomenta con certezza dall'intento ch'egli ebbe nel fare quel suo libro de' dogmi ecclesiastici, cioè di confutare certi eretici, i quali diceano, che chi frequentava la santa comunione, non potea dannarsi, ancorché menasse vita scellerata. Di più scrive mons. Milante nella propos. dannata da Aless. VIII., che sino all'ottavo secolo non vi era l'uso di confessare che i soli peccati mortali. Si aggiunge, che dopo il V. secolo sino al X. non solo si permettea, ma era precettata la comunione di ogni otto giorni. Scrive l'autore de officiis, nella biblioteca de' padri: Postquam autem ecclesia numero augebatur, sed sanctitate minuebatur propter carnales, statutum est, ut qui possent, singulis dominicis communicarent3. Lo stesso scrisse Pietro Comestoro: In prima ecclesia quotquot intererant consecrationi eucharistiae, communicabant eidem. Postquam autem crevit numerus fidelium, nec omnes accedere ad eucharistiam visum est, statutum est, ut saltem diebus dominicis fideles communicarent4. Ed in fatti ne' capitolari de' vescovi confermati da Carlo Magno si ordinò: Ut omnes per dies dominicos et festivitates praeclaras sacra eucharistia communicent, nisi quibus abstinere praeceptum est5. Si notino quell'ultime parole: Nisi quibus etc. Dove mai stava scritto il precetto di non comunicarsi a chi tenea l'affetto a' veniali? Ed in altro luogo degli stessi capitolari si trova scritto: Si fieri potest, omni die dominico communicent, nisi (si noti) criminali peccato et manifesto impediatur; quia aliter salvi esse non possunt. E notò Teodoro arcivescovo di Cantorbery6, che nella chiesa greca ciascuno dovea comunicarsi ogni otto giorni sotto pena di scomunica. Or se la comunione d'ogni otto giorni un tempo fu di precetto a tutti, come ora può negarsi a chi la desidera per conservarsi in grazia di Dio? Si dirà: Ma allora anche vi bisognava il requisito d'esser libero dall'attacco a' veniali. Non signore, perché, come di sopra si è dimostrato, solamente era vietato il comunicarsi a chi tenea l'affetto a' mortali, non già a' veniali; ed in tutti i luoghi riferiti non si nomina affatto il peccato veniale.

 

33. Ma anche dopo il secolo X., ed anche ne' tempi che la comunione di ogni otto giorni era stimata frequente rispetto alla freddezza de' fedeli, troviamo innumerabili autori, che permettono e consigliano la comunione d'ogni settimana ad ognun che desidera preservarsi dalle colpe gravi. Giovanni Rusbrochio7 parlando prima de' fedeli imperfetti che desiderano comunicarsi, dice, che a costoro che non sono de magnis peccatis sibi conscii licebit eis dominicis, atque etiam aliis diebus, quando obtinere potuerunt, ad sacramentum accedere. Il p. Salazar, teologo molto stimato anche da Arnaldo, dice,


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che la comunione d'ogni otto giorni può consigliarsi omnibus etiam minimis omnium perfectis. Cum dico, omnes, intelligo eos, qui in gratia Dei manent fugiuntque (quoad fieri potest) occasiones Dei mortali peccato offendendi. Il p. Suarez scrive: Raro alicui consulendum, ut frequentius quam octavo die communicet. E poi soggiunge appoggiato sull'autorità di s. Bernardo: Non esse omittendam huiusmodi frequentiam propter sola peccata venialia; quia non est exiguus huius sacramenti fructus, quod in magnis peccatis impedit consensum1. Anche il ven. p. m. Avila nella lettera ad un predicatore2 (come si ha da quattro edizioni uniformi, e specialmente dalla spagnuola), accorda la comunione d'ogni otto giorni alle persone imperfette, e dice così: Dee dunque v. r. predicar loro (cioè alla gente maritata, di cui parla), che satisfacciano all'obbligo che hanno secondo lo stato dove si trovano, e che il tempo, che da questo avanzerà loro, lo spendano in qualche loro devozione, e che non faran poco a comunicarsi bene ogni otto giorni. Il che però non sia detto per tutte, perché alcune lo potranno fare anche più spesso; ché (come ho detto) non si può dare di ciò regola generale. Sicché il p. Avila in quanto alle maritate accorda loro generalmente la comunione d'ogni otto giorni: la più frequente poi dice, che non è per tutte, ma solo per le più divote.

 

34. Parlando poi de' tempi più moderni, comunemente gli autori accordano la comunione d'ogni settimana ad ognuno ch'è libero da' peccati mortali. Il p. Wigandt dottore dell'università di Vienna scrive: Qui mortalia vitant, semel in hebdomada, et interdum bis (nimirum occurrenti singulari festo) communicare possunt3. Il Clericato molto lodato da Bened. XIV. mette questa regola: Nullus est, cui menstrua communio consuli non possit. Pauci, quibus communis hebdomadaria sit prohibenda. Paucissimi, quibus quotidiana sit concedenda. Il p. Granata4, risponde al peccatore, che fa difficoltà di prendere la comunione per esser quella troppo frequente, dice così: E se tu mi dirai, che sei peccatore, a questo ti rispondo, che non trovandoti in peccato mortale, per la stessa ragione che ti discosti dal sagramento, ti dovresti muovere alla frequenza della comunione, perché questo sagramento è nutrimento de' fiacchi e medicina degl'infermi. Il p. Molina certosino5 dice: Ognuno, per gran peccatore che sia, non dee differire la comunione più di otto giorni. E soggiunge, che da questa non ha da ritardare né la moltitudine, né la gravezza de' peccati passati, né il ricadere ne' medesimi, purché non vi sia continuazione. Non sarebbe una gran crudeltà (e questo è un bel sentimento) il non dare la teriaca al morsicato la seconda volta dalla vipera, perché dopo la prima cura non si è saputo schermire dal veleno? Lo stesso scrive Turlotti6 esortando la comunione d'ogni otto giorni a tutti. Lo stesso scrivono Giovanni Lopez7, Casimiro Liborio8. Onde il p. Gio. Battista Scaramelli nel suo direttorio ascetico9, libro moderno e ristampato più volte, che ha ottenuto il gradimento comune de' dotti, scrive così: Può e dee il direttore conceder la comunione ogni otto giorni a quell'anima che trova disposta all'assoluzione del sagramento della confessione. E soggiunge: Questo è sentimento comune de' padri spirituali, e presentemente par che sia la pratica di s. chiesa. Lo stesso scrive il p. Cuniliati10. Lo stesso scrive anche il p. Francesco dell'Annunz. agostiniano. Ed io per me dico la verità, non saprei come senza scrupolo possa un confessore ad un'anima debole, che vuol conservarsi nella divina grazia, proibirle di comunicarsi ogni otto giorni, e privarla di questo grande aiuto a preservarsi dalle colpe gravi.

 

35. Il signor Aristasio poi molto si scaglia contra i confessori, che danno la comunione frequente alle maritate, dicendo, ch'elle per tal causa disturbano la casa, e son cagione di molti sconcerti, mancando d'assistere alla famiglia per trattenersi in chiesa; e adduce su di ciò le autorità del p.m. Avila, e del p. Soto. Onde par che voglia togliere ogni speranza alle povere


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maritate di comunicarsi più spesso, che in ogni otto giorni. Aggiungendo, che gli stessi affari domestici, che sono per sé distrattivi, e specialmente l'uso coniugale, impediscono dalla frequente comunione. Ma vediamo, che cosa dicono gli altri. Il p. Concina dice, che gli affari della società umana, sempreché si esercitano per fine onesto, non impediscono, ma possono esser anche apparecchio alla comunione: Ipso negotia, occupationes, ministeria honesta, et humanae societati utilia, si ob finem rectum peraguntur, locum meditationis et praeparationis ad eucharistiam habere possunt1. Circa poi l'opposizione dell'uso coniugale, risponde per me lo stesso s. Francesco di Sales nel cap. 20. della sua Filotea, dove dice, che la legge antica vietava bensì di esigere il debito ne' giorni festivi, ma non già di pagarlo; ond'egli conclude, che 'l pagarlo non può esser impedimento alla comunione. Il decreto, che si oppone, parla della petizione, non già del rendimento. Né il santo per tutti gli altri riguardi, che si oppongono, fa difficoltà di concedere la comunione frequente anche alle maritate. È vero, che quando la frequenza della comunione apportasse disturbo a' mariti, o al governo della famiglia, certamente non si dee permettere; ma quando tal disordine non vi fosse, o pure la maritata è prudente e discreta, dice s. Francesco di Sales, che madre, né marito, né padre vi è, che possa impedirle di comunicarsi spesso.

 

36. Del resto circa la comunione che veramente oggidì può dirsi frequente, cioè di più volte la settimana, io non dubito col nominato mio contradditore, che debba seguirsi la regola di s. Francesco di Sales, cioè ch'ella non dee concedersi, se non a quell'anime che sono libere dall'affetto de' peccati veniali, ed anche evitano i veniali deliberati, e di più han superata la maggior parte delle loro male inclinazioni. Quando poi la penitente è giunta a tale stato, e di più fa molta orazione mentale, e desidera di sempre vie più avanzarsi nella perfezione, non dee negarsele la comunione quotidiana, eccettuato però (ordinariamente parlando) un giorno della settimana. Ma avverta il confessore a non regolarsi in ciò dal maggiore o minor fervore sensibile che prova la penitente nel comunicarsi, ma dall'avanzo che scorge colla sperienza far ella nel divino amore col comunicarsi più spesso. Questa appunto è la regola di s. Tommaso, che dice: Si aliquis experientia comperisset, ex quotidiana communione augeri amoris fervorem, et non minui reverentiam talis deberet quotidie communicari2. Che per ciò Innocenzo XI. in un suo decreto ordinò, che l'uso della frequente comunione si lasciasse in mano del confessore; il quale secondo il profitto della frequenza dovrà concederla spesso anche a' coniugati (come parla il decreto), dicendo, che i confessori, quod prospicient eorum saluti profuturum, id illis praescribere debebunt. E questa in verità è la vera regola di stringere, o allargar la mano nel dar le comunioni, il profitto che si vede ne' penitenti. Lo stesso p. Avila nella pistola 60. scrisse così: Il vero segno di ben comunicarsi è il profitto dell'anima: se questo vi è, sarà ben frequentarla: posto che non v'è, non farla sì spesso. Ma ancorché un'anima qualche volta commettesse alcuna colpa veniale, ma senza affetto, e subito se ne dolesse; se poi desiderasse la comunione per evitare le ricadute, ben dice il p. Cuniliati, che non se le dee negare la comunione frequente, ed anche la quotidiana. Si osservi l'Istruz. dove queste cose sono più distese; ma meglio sarà osservare la dissertazione a parte sopra questa materia fatta da' compagni della mia congregazione, che al presente sta per darsi alle stampe, dalla quale ho prese molte cose, che nella ristampa dell'istruzione ho scritte, e qui succintamente ho notate. Procuri per tanto il confessore d'infiammar quanto può l'anime che dirige nel desiderio di comunicarsi spesso, e poi si regoli secondo Iddio gl'ispira. Ma si assicuri, che quelle persone che non lasciano l'orazione, e frequentano la comunione fatta per ubbidienza, senza dubbio si avanzeranno sempre nella vita della perfezione.

 

37. Non lasci poi d'imporre con calore a chi frequenta la comunione, che dopo quella si trattenga nel ringraziamento per tutto quel tempo che può. Ma oh Dio che rari son que' direttori,


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che inculcano questo lungo ringraziamento alle anime che guidano, perché rari son que' sacerdoti che si fermano a ringraziar Gesù Cristo dopo la messa; e perciò si vergognano poi d'insinuare agli altri ciò che fan vedere non praticarsi da loro. Il ringraziamento dopo la comunione ordinariamente dovrebbe essere di un'ora; ma almeno sia di mezz'ora, in cui l'anima dee trattenersi in affetti e preghiere verso quel Dio, che s'è degnato di venire a posarsi nel suo petto. Il tempo dopo la comunione è tempo di guadagnar tesori di grazie. Dopo la comunione (dice s. Teresa), non perdiamo così buona occasione di negoziare. Non suole Sua Maestà mal pagare l'alloggio, se gli vien fatta buon'accoglienza. Le insinui ancora tra 'l giorno a fare più comunioni spirituali così lodate dal concilio di Trento. Dice s. Teresa, che da ciò fa prova il Signore, se un'anima l'ama.

 




1 2. 2. q. 108. a. 11.



1 Cap. ult. n. 33.-37.

 



2 N. 46-50.

 



3 N. 51-54.



1 Psalm. 38. 4.

 



2 Prov. 8. 17.



1 § II. Dal n. 6. al n. 25.



1 Cap. 20.



1 3. p. q. 79. a. 3.

 



2 1. Cor. 2. lec. 7.

 



3 Tom. 10. c. 66. p. 1198.

 



4 Serm. 16.

 



5 Lib. 5. capitular. c. 334.

 



6 Spicil. t. 9. c. 12.

 



7 Spec. aetern. sal. coll. 1552. p. 31. ne' capi 11-15.



1 T. 3. In 3. p. a. Thom. q. 80. a. 11. sect. 3.

 



2 P. 1. lett. 3.

 



3 Tr. 12. theol. ex. 4. de euch. casu 6. qu. 9.

 



4 Part. 1. tr. 3. c. 8.

 



5 Inst. de' sacerdoti tract. 7. c. 6.

 



6 Dot. crist. tom. 2. p. 4. lez. 22.

 



7 Luc. myst. p. 240.

 



8 Theol. myst. p. 2. n. 24.

 



9 Tom. 1. tr. 1. a. 10. c. 6.

 



10 Catechismo in pulpito ragion. 38. p. 228.



1 L. 3. de euch. dis. 1.

 



2 4. sent. dist. 12. q. 2. a. 1.






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