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S. Alfonso Maria de Liguori
Degli abusi nel prender le messe

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Testo


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Ultimamente in questo anno 1768. si è ristampato in Napoli un libro di un autore anonimo, intitolato: Dissertazione sull'onorario delle messe. Tutto l'intento dell'autore è di far vedere i gran disordini e peccati di simonie, sacrilegi, e scandali, che nascono dall'uso di prendere i sacerdoti gli onorari, o siano stipendi da' fedeli in particolare, coll'obbligo di applicar le messe specialmente secondo la loro intenzione.

Non ha dubbio, che ne' primi secoli della chiesa non vi era il pericolo degli abusi, che poi si sono introdotti coll'uso degli onorari; poiché allora uno era che celebrava, il vescovo o altro sacerdote, e tutti i fedeli nel dirsi la messa faceano le loro oblazioni di pane e di vino, ed anche di cose comestibili; ed appresso cominciarono ad offerire ancor danari, che si riponevano in tanti cassettini, e poi si presentavano. Indi i ministri del celebrante (il diacono nella chiesa greca, ed il suddiacono nella latina) facean consapevole il sacerdote sull'altare delle persone offerenti, acciocché le nominasse sull'altare, o pure le raccomandasse a Dio per li loro bisogni; e 'l Signore secondo la sua divina volontà, e secondo la disposizione degli offerenti, compartiva loro le grazie in virtù di quel sagrificio, di cui ciascuno participava, per quanto n'era capevole giusta il suo merito, e giusta i divini giudizi.

Ma verso l'ottavo secolo cominciarono ad introdursi le messe manuali, o siano prezzolate, come le chiama l'anonimo, colle quali si conveniva, che colla retribuzione di qualche somma il sacerdote si obbligasse di applicare il frutto medio di quella messa a beneficio di colui che quella somma pagava.

Con questo nuovo costume andò di mano in mano cessando quello delle obblazioni; e tuttavia crescendo l'uso di queste messe dette in particolare per coloro che davano la limosina, avvenne, che nel secolo XII. si trovò affatto cessato l'uso delle obblazioni; poiché tutte le messe ordinariamente non si diceano più in comune, ma si applicavano a coloro che davano lo stipendio.

Con ciò non si nega, che cominciarono ad introdursi molti abusi, ora per parte de' preti, ed ora per parte di coloro che davano a celebrar le messe. Molti preti per cupidigia di lucrare cercavano di prendere a celebrare quante messe poteano. Alcuni giungeano a dir molte messe in un solo giorno, non già per divozione, e neppure per necessità, ma solo per ansia di guadagno. Altri obbligavano i loro penitenti, e gl'infermi a cui assistevano, a far loro, o lasciare più stipendi di messe. Altri giunsero, come scrive il card. Bona, ad esigere più limosine per la stessa messa, con dire avanti l'offertorio tre o quattro introiti, più epistole, più evangeli, orazioni, e collette; e queste messe erano chiamate bifaciate, o trifaciate, ac si vellent vendere rem profanam imprudenter, come disse il concilio toletano.

E ciò fu causa di molte sollecitudini nella chiesa, sì per evitar l'avarizia de' preti, sì per evitar quella de' secolari ed ancora acciocché non restassero defraudate le intenzioni di coloro che davano la limosina. Onde la s. sede sempre vigilante e provida ad estirpar gli abusi che s'intromettono nelle cose sagre, ha cercato sempre di abolire specialmente gli abusi, che per le false opinioni di alcuni si sono introdotti in questa materia delle messe prese colla limosina.

Sotto Urbano VIII. dalla s.c. del concilio con più decreti fu ordinato, che chi avea ricevuta una limosina colla promessa di celebrar la messa, fosse tenuto ad applicarla per quella persona, ancorché la limosina fosse stata inferiore alla stabilita nella diocesi. Di più fu ordinato, che ricevendo il prete da più persone varie picciole limosine per dirne messe, fosse tenuto a celebrarne tante, quante ne capissero secondo la tassa stabilita. Di più fu ordinato, che chi ricevesse una limosina pingue, fosse tenuto darla tutta al celebrante senza ritenerne alcuna parte, ancorché il celebrante se ne contentasse. E ciò fu confermato poi da Benedetto XIV. colla sua bolla Quanta cura, dove fu imposta


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la scomunica a' laici, e la sospensione a' chierici, che ritenessero parte della limosina data; vedi il card. Lambertini notif. 56. tom. 2. num. 6.

Di più ne' decreti di Urbano VIII. fu ordinato, che gli amministratori delle chiese non potesser ritenere alcuna parte delle limosine di messe date a celebrare, per riguardo delle spese della celebrazione, se non quando le chiese non avessero modo da supplire, per essere affatto povere. Si veda Lambertini nella citata notif. 56. num. 12. In oltre dalla s.c. del concilio a' 6. di luglio 1726. fu disposto, che gli arcipreti non fossero tenuti a somministrare gli utensili a' celebranti nelle loro chiese, ancorché quelli dovessero ivi celebrare per obbligo di cappellania. In quanto poi alle messe avventizie, che i rettori delle chiese neppure eran tenuti a dar gli utensili, se non quando essi acconsentivano, che quei sacerdoti venissero nelle loro chiese a celebrare. Vedi Lambertini nel luogo citato num. 13.

Di più così da Urbano VIII., come da Alessandro VII. nella propos. 10. da lui dannata, fu proibito il ricevere lo stipendio per più messe, e poi offerirne una sola. Sotto lo stesso Alessandro VII. dalla s.c. a' 13. di dicembre 1659. fu proibito il ricevere per una messa due limosine, una per l'applicazione del frutto soddisfattorio, e l'altra del frutto impetratorio. Di più lo stesso papa Alessandro VII. per la congregazione del s. officio a' 7. di settembre 1665. condannò fra l'altre questa proposizione: Duplicatum stipendium potest sacerdos pro eadem missa licite accipere, applicando petenti partem etiam specialissimam fructus ipsimet celebranti correspondentem. Sotto Innocenzo XI. dalla s.c. si proibì a' cappellani d'applicare la messa per altri ne' giorni di lecita vacanza, fuorché per li fondatori. Di più fu proibito a' cappellani obbligati, ma senza l'obbligo di soddisfare per se stessi, l'astenersi qualche volta dal celebrare, e non soddisfare all'obbligo.

Essendosi poi osservato, che il concilio di Trento1 proibisce il dare doni per le messe novelle, ed essendosi disputato, se fosse lecito al sacerdote novello il ricevere qualche obblazione nella stessa messa, Gregorio XIII. udito il parere della s.c. nel 1573. decretò: Licere se vertere in medio altaris ad populum, et accipere oblationes, non autem circumire ecclesiam.

Di più fu stabilito ne' decreti di Urbano, che dove il testatore non avesse per le messe da lui lasciate determinata alcuna certa limosina, quella dovesse determinarsi dal vescovo, secondo il costume della città, o della provincia. Di più da alcuni si asseriva, non potersi dare da' laici per la messa una limosina maggiore della stabilita dal vescovo, ancorché fosse offerta di loro spontanea volontà; ma dalla s.c. del concilio in una risoluzione fatta a' 16. di gennaio 1649.2 si legge, che fatto il dubbio se possa il vescovo proibire sotto pena di censura a' laici il dare a' sacerdoti una limosina più pingue della tassa, e se i sacerdoti potessero riceverla; si rispose dalla s.c., prohiberi non posse. Fu dubitato ancora, se il vescovo possa proibire a' preti l'accettare messe per lo stipendio minore d'un giulio, e dalla s.c. fu risposto, che ben può proibirlo, ed imporre la pena a' celebranti per minor quantità. Vedi presso Lambertini3.

Fu dubitato, se chi non fosse obbligato che alla sola celebrazione, possa ricevere un'altra limosina per l'applicazione della messa; il p. Passerino dicea che sì, e lo stesso sente l'autore dell'Istruzione per li confessori novelli stampata in Roma4. Ed in conferma di ciò il p. Gavanto5 sulle rubriche riferisce la seguente risoluzione della s.c. del concilio a' 13. di luglio 1630., ove si disse: Quod quando in fundatione beneficii cautum est, non teneri celebrantem ad applicationem sacrificii, eo casu poterit accipere novum stipendium. All'incontro il p. Diana, come scrive il card. Lambertini6 dice, che la s.c. sempre sentì, non esser mai lecito ne' termini suddetti a' sacerdoti ricever doppio stipendio; ed in favor di ciò portasi un'altra risoluzione della stessa s.c. del concilio delli 9. di gennaro 1627., in cui sta scritto: An omnes sacerdotes qui nulla alia obligatione in confraternitatibus, vel monasteriis monialium celebrant, quam pro ornatu ecclesiae, vel ut confratres, vel moniales satisfaciant praecepto audiendi missam, possint ultra stipendium quod recipiunt a confraternitate,


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vel monialibus, aliud recipere? S.C. concilii 9. ianuarii et 6 februarii anni 1627. in Traguriensi respondit, non posse. Il lodato card. Lambertini, parlando di tal punto, scrive così: «Ma sapendo noi per esperienza, quanti sono gli errori, e gli equivoci, che si prendono dagli autori in ciò che riguarda le risoluzioni delle sagre congregazioni; e sapendo altresì quali siano quegli autori, a' quali in ciò può darsi fede; non essendo a noi in tanti anni di segretariato della s.c. passata mai per le mani veruna delle risoluzioni su questo punto, lascieremo il punto in quel grado in cui è, sinché avremo lumi più sicuri. E poi soggiunge: Tanto più che non è così facile il caso di chi sia obbligato alla sola celebrazione, e non all'applicazione, bastando per l'applicazione l'ordine di celebrare; ed è peso di chi pretende escluder l'applicazione, mostrarlo con prove chiare, che il fondatore abbia voluta la sola celebrazione, lasciando al celebrante la sola libertà dell'applicazione.» E ciò dice esser conforme al decreto della s.c. del concilio nella causa Tinen. a' 18 di marzo 1668.1, al quale attesta essersi sempre aderito, ove essendo appunto il caso, che dal testatore era fondata la cappellania col peso di celebrare, ma senza dichiararsi in benefizio di chi dovesse applicarsi la messa, la s.c. rispose, doversi applicare per l'anima del testatore.

Il maggiore abuso che regnava, e volesse Dio che oggidì anche non regnasse, al quale bisognò rimediare, fu l'attrasso di messe che i sacerdoti accumulano sempre l'une sopra l'altre, senza mai soddisfarle: onde ne' decreti di Urbano VIII. fu proibito di non prender limosine cotidiane di messe, se prima non si fossero adempiti i pesi antecedenti. Fu spiegato non però il detto decreto, dicendosi, che poteano riceversi nuove limosine, dummodo infra modicum tempus possent omnibus satisfacere. Indi a' 17. di luglio 1655. spiegò la s.c., modicum tempus intelligi infra mensem, come si legge nel lib. 19. dei decreti pag. 497. presso Lambertini cit. not. 56. num. 14.

Ma il zelante anonimo non soddisfatto di tali rimedi va cercando altri mezzi, affin di veder tolti questi abusi, che avvengono per causa degli onorari. Riferisce in primo luogo il mezzo progettato da Pietro Cantore, il quale mezzo non so come possa accordarsi colla pietà, mentre dice, che dovrebbe diminuirsi il numero delle chiese, e de' preti, di modo che in ogni paese vi fossero i soli ministri, che sono assolutamente necessari.

Riferisce l'altro mezzo di Giovan Gersone, il quale vorrebbe, che ogni sacerdote vivesse con qualche onesto mestiere, come vivea s. Paolo, senza esiger alcuna limosina dalle messe che celebra. Lo stesso anonimo nonperò non approva questo mezzo, dicendo così: «Pare, che non sia molto praticabile, poiché alla fine non tutti i sacerdoti hanno la scienza, i lumi, e molto meno lo zelo di s. Paolo: tutti non possono nel medesimo tempo guadagnarsi il vitto col lavoro delle mani, e far le funzioni di un ministero, che gli ricerca tutti interamente. L'applicazione, lo studio, e l'orazione sono assolutamente necessari a questo formidabile impiego: chi vuol fare il suo dovere, com'è necessario, e come dee, non ha molto tempo che gli avanzi. In oltre qual arte, qual genere di professione potrebbe abbracciarsi in una età già avanzata, e in niuna maniera capace di tali lezioni? Qualunque commercio è proibito da' santi canoni agli ecclesiastici; s. Paolo proibisce loro le occupazioni secolari, come contrarie al raccoglimento, alla gravità, e santità del loro stato. Nemo militans Deo implicat se negotiis secularibus, ut ei placeat, cui se probavit2. La distrazione e dissipazione sono di ostacolo allo studio ed all'orazione, tanto pubblica, che particolare. Aggiungete a tutto ciò la mancanza de' soccorsi per perfezionarsi e riuscire, la difficoltà della vendita delle loro manifatture, finalmente il poco vantaggio che ne trarrebbero: se gli artigiani di un villaggio, e qualche volta anche quelli delle città durano gran fatica a procurarsi il bisognevole semplicemente, e frugalmente; qual guadagno potrà fare un vicario, o un paroco di campagna, col tornio, col pennello, colla vanga, e cogli altri strumenti di una profession conveniente? Non è dunque possibile, che un uomo occupato ad istruir se stesso, e gli altri, possa contribuire col suo lavoro al proprio mantenimento. Questo è quanto potrebbero fare alcuni sacerdoti senza occupazioni,


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o religiosi esclusi dalle funzioni del santo ministero, e poco dediti allo studio

L'autore di poi accenna qualche altro mezzo pensato da altri, ma che neppure gli soddisfa; onde finalmente conclude, che per metter fine a tanti sconcerti, sacrilegi, ed abusi, il vero ed unico mezzo è di abolire le messe manuali, o siano prezzolate, com'egli le chiama; e perciò esorta di riprender l'uso de' secoli antichi, ne' quali i vescovi, o pure uno de' sacerdoti dicea la messa, ed i fedeli assisteano, e vi faceano le loro offerte, che poi servivano per lo mantenimento de' sacerdoti, delle chiese, e de' poveri. Qui bisogna esaminare, se tal mezzo meditato dall'autore sarebbe per riuscire utile, o nocivo al profitto spirituale de' fedeli.

È certo, che sono ben lecite le messe private, checché dicansi i novatori, che le riprovano, sul principio, ch'essi negano farsi nella messa l'obblazione di un vero sacrificio, dicendo, che la messa è istituita a solo fine, che i fedeli ricevano la comunione nella messa comune; onde dicono, che tutte le altre messe private sono state introdotte dai sacerdoti per solo fine di guadagnare. Ma su questo punto hanno scritto contra di loro a lungo molto gravissimi autori1.

Ed in verità per niun capo mai possono dirsi illecite le messe private; né vi è stato mai alcun precetto della chiesa, con cui si fosse ordinato, che solo pubblicamente si celebrasse. Anzi dall'istoria ecclesiastica si ha, che molti santi anche anticamente usavano le messe private. Dagli atti di s. Lucina si sa, che in sua casa celebrò s. Marcello papa. S. Gregorio Nazianzeno scrive2, che s. Gregorio suo padre celebrava privatamente nella sua camera. S. Ambrogio anche celebrò in Roma in una casa di dal Tevere, come scrive Paolino. Uranio attesta, che s. Paolino di Nola poche ora prima di morire celebrò in un altare preparato avanti il suo letticello. Narra Filostorgio3, che s. Luciano martire, stando lacerato dalle ferite, e moribondo, e non avendo altare, disse la messa sovra il suo medesimo petto. Scrive s. Gregorio4, che Cassio Narniese celebrava ogni giorno, benché alla sua messa non vi fossero astanti. Il p. Giovanni Mabillon5 dimostra, che s. Goar anacoreta, s. Geremaro, e Licinio vescovo andegavense, ed altri molti nel secolo VI. e VII. celebravano ogni giorno; sicché in quei tempi era grande il numero delle messe private.

Quindi Carlo V. ed altri principi, parlando di quell'articolo della confessione augustana, nel quale si proibivano le messe private, dissero: Hac enim abrogatione missarum, cultus Dei minuitur, sanctis subtrahitur honor, defuncti debitis spoliantur suffragiis, et vivorum devotio aufertur et frigescit. Similmente il card. Bona dimostra, che anche anticamente nello stesso giorno si celebrava un gran numero di messe. Presso Onorio e Teodosio leggesi, che nella chiesa costantinopolitana furono costituiti 950. sacerdoti decani, come costa anche dalla l. Non plures, cod. Iust. de sacros. eccl. In oltre al principio della chiesa vi fu l'uso di promuovere altri sacerdoti fuori de' curati, i quali sarebbero stati inutili, se avesse dovuto celebrarsi la sola messa pubblica, che da' soli curati si celebrava. Si aggiunge quel che scrive Allazio, che anche i greci spesso celebravano privatamente, senza che vi fosse chi si comunicasse.

Oppongono i novatori, che Gesù Cristo dopo aver celebrato nel giorno della cena, disse: Hoc facite in meam commemorationem. Ciò importava (dicono), che i sacerdoti avessero celebrato, come celebrò Gesù Cristo, con distribuir la comunione. Si risponde, che quell'Hoc facite riguardava la sostanza, e la sostanza del celebrare importa solo, che si faccia il sagrificio, e che non si nieghi la comunione a chi la domanda, purché non ne sia indegno.

Oppongono inoltre quel che dice l'apostolo nell'epistola 1. ad Cor. 10. 16., dove chiama la messa, participationem Corporis Domini. E ciò che dice al cap. II. della stessa epistola: Manducari dominicam coenam. Ma da questi testi altro non ne siegue, che non sia proibito di ricever il sagramento dell'altare ad ognuno che vuole parteciparne. Del resto


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sappiamo, che quantunque nella messa niuno si comunichi, pure il sacerdote dice quelle parole: ut quotquot ex hac altaris participatione etc. Poiché molti se non realmente, almeno spiritualmente ne partecipano; dal che si ricava ancora, che per ragion del frutto generale ogni messa è sacrificio pubblico, il cui frutto vien partecipato ad ogni fedele che sta in grazia.

In quanto poi alle messe prezzolate, cioè applicate, non gratis, ma colla retribuzione della limosina, dice l'anonimo, che per undici secoli queste non furono usate nella chiesa, poiché celebravasi la sola messa delle obblazioni. E con ciò asserisce insieme per certo1, che il celebrarsi in pane azimo cominciò solo verso lo stesso secolo XI., e che prima sempre si celebrò in fermentato. Ma io trovo, che molti gravissimi autori indotti da forti argomenti stimano, esser probabile, che per li primi secoli indiscriminatamente celebravasi ora in azimo, ed ora in fermentato; anzi Giovenino2 dice assolutamente: Per sex priora secula latinos fermentatos et azymos indifferenter consecrasse. Circa septimum aliquas ecclesias adhibere coepisse solum azymum; deinde illarum ecclesiarum usum alias occidentales ante nonum seculum ubique amplexas fuisse.

Onorato Tournely3 scrive, che s. Tommaso4, Alexander Alensis5, ed altri antichi scolastici stimarono, che così la chiesa greca, come la latina nei primi secoli usarono sempre di celebrare in azimo; e ciò sino ad Ebione eretico, che volle metter l'osservanza unitamente della legge vecchia e nuova. Dice, che vi furono altre opinioni antiche, che poi nelle scuole non hanno avuti difensori. Scrive poi, che tre sono oggi le opinioni più rinomate. La prima è di Giacomo Sirmondo in disquis de azymo in tom. 4. eius operum; dice ivi, che la latina per 800. e più anni adoperò il fermentato; ma dall'886, sino al 1053. a tempo di Michele Cerulario si servì dell'azimo. La seconda è del p. Mabillon in diss. de pane azymo et ferment., dove coll'autorità di Cristiano Lupo6 vuole, che fin dal tempo degli apostoli la latina si è servita sempre dell'azimo; e lo stesso tennero il card. Uberto, Ruperto, Giacomo de Vitriaco, Innocenzo III. ed altri. La terza è del card. Bona7, che dice, che i greci sempre hanno usato il fermentato, ma i latini ne' primi secoli usarono or l'azimo, ed ora il fermentato, secondo l'opportunità de' tempi, e de' luoghi, e che non prima del secolo X. usarono comunemente l'azimo. Onde Tournely così da queste autorità, come da altri documenti conclude, potersi probabilmente giudicare, che ne' primi secoli anche i greci usassero l'azimo secondo la sentenza di san Tommaso: e che i latini ne' primi secoli sino al nono si servissero promiscuamente così dell'azimo, come del fermentato. Sicché da tutte le autorità di questi eruditissimi autori altro non si ricava in questa sì dibattuta quistione, che le opinioni accennate sono tutte incerte.

In quanto poi al principio delle messe date a celebrare colla limosina, io trovo, che il loro uso cominciò molti secoli prima del secolo XI. Il card. Bona scrive, che in tempo di s. Pier Damiani principiarono a dirsi le messe prezzolate, credendo i fedeli, che facendo celebrar la messa specialmente per essi, quella specialmente loro giovasse; ed indi in poi cominciò a cessare l'uso delle obblazioni nelle messe comuni. Si sa ancora dall'istoria, che in mezzo al secolo VIII. s. Grodegando, stimato il ristauratore della vita comune de' chierici, permise a' sacerdoti del suo clero di ricevere, e servirsi ciascuno in particolare di quanto gli era offerto per la propria messa; e dice il p. Mabillon, che ciò si fece poi universale verso il secolo XII. Di più il Tommasino8 scrive, che sin dal tempo di Pipino e di Carlo Magno, si diceano le messe collo stipendio: At Pipini et Caroli Magni aevo iam coeperant fideles singuli suam privatim praesbitero cuipiam stipem erogare, ut eis sacrificii exuberantem fructum in se derivarent, in proximos, vel amicos vitae compotes adhuc, vel defunctos. Anzi presso il card. Lambertini nella cit. notif. 56. n. 1. il p. Francesco Berlendi teatino nella sua dotta dissertazione delle oblazioni dell'altare9 pretende, che l'uso di tali onorari fu più antico del detto secolo VIII.


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L'anonimo dice, esser una temerità il dire, che la messa applicabile ad uno non giovi egualmente a tutti. E porta l'autorità di Gersone, il quale scrive: «Una chiesa che abbia il costume di soddisfare con una sola messa a molti anniversari, ben può continuare senza aver bisogno del consenso di coloro che gli hanno richiesti.» Io per me non intendo, come questa dottrina di Gersone possa esser approvata dagli altri. E così anche non intendo, dove consista la temerità, di cui condanna l'anonimo chi dice, che la messa applicata particolarmente all'offerente giovi più a lui, che agli altri.

L'anonimo parla colla sentenza, che il frutto della messa sia d'infinito valore; così per altro tengono il Gaetano, Melchior Cano, ed altri; nondimeno è più comune la contraria di s. Tommaso1, s. Bonaventura2, Scoto3, Suarez4, Soto5. E lo stesso dicono Bellarmino, Gabriele, Durando, Maggiore, ed altri. Dicono questi, che altro è il valore del sacrificio, che significa la dignità della cosa oblata; altro è l'effetto del sacrificio, il quale effetto non si appartiene alla sufficienza, ma alla efficacia che Gesù Cristo ha voluto dargli limitatamente secondo la sua volontà. Ciò par che lo tenga per certo il p. Natale Alessandro, mentre assolutamente scrive: Non aeque prodest singulis, ac si pro uno solum offerretur; virtus enim illius (sacrificii) secundum hanc rationem spectata, finita est. Quod autem est finitum, si dividatur inter plures, non aeque prodest singulis, ac si uni tantum applicaretur6. Il cardinal Bona dice, esser comune la sentenza, che il frutto medio, di cui parliamo, non sia estensivamente infinito: De hoc fructu medio communis sententia est non esse infinitum extensive7.

Domenico Soto, parlando dell'opinione contraria, scrive, ch'egli non solamente sempre l'ha stimata falsa, ma di più opposta alla pratica antichissima della chiesa: Semper sum arbitratus, non solum falsam esse, verum antiquissimo ecclesiae usui contrariam8. Lo stesso scrive Du-Hamel9, dicendo, che la messa vim habet bona impetrandi pro quibus offertur; e dice, che id probat perpetuus ecclesiae usus. Indi soggiunge, che sebbene la messa è di valore infinito a riguardo della cosa oblata, nondimeno il Signore ha voluto, che l'effetto fosse finito secondo la sua disposizione: e ciò per più ragioni, ma specialmente, ut per reiteratas oblationes frequentius recoleremus memoriam mortis, quam pro nobis passus est in cruce. Lo stesso scrive Tournely10. Studium, laborem, ac vigilantiam nostram hac ratione Deus excitare voluit, nempe, ut pro mensura nostrae pietatis ac religionis, maiorem vel minorem sacrificii fructum perciperemus. Ed in ciò rapporta la dottrina di s. Tommaso11 che scrisse: Quamvis haec oblatio ex sui quantitate sufficiat ad satisfaciendum pro omni poena, tamen fit satisfactoria pro illis, pro quibus offertur, vel etiam offerentibus secundum quantitatem suae devotionis, et non pro tota poena.

vale il dire, che la messa è lo stesso sacrificio che quello della croce, solo nel modo di offerirlo diverso, come insegna il tridentino; onde essendo l'uno e l'altro d'infinito valore, tanto giova una messa, quanto dieci. Si risponde, che il sagrificio della croce fu per soddisfare i peccati degli uomini, ed essendo già fatta, o sia apparecchiata questa soddisfazione, non vi è più bisogno di replicarla; ma il frutto della messa non opera per soddisfazione, ma per applicazione del sacrificio della croce, e perciò si riceve di nuovo, sempreché si rinnova.

L'uso di applicar le messe agli offerenti, affinché specialmente loro giovino, non può difficultarsi che sia approvato dalla chiesa, come scrive il card. Lambertini nel principio della sua notif. 56., dicendo: La limosina, che secondo l'universal disciplina della chiesa si a' sacerdoti per l'applicazione del frutto medio del sagrificio a pro dell'offerente ec. E perciò nel messale vi sono notate le messe per più persone particolari, pro episcopo, pro infirmo, pro uno defuncto. Nel concilio di Costanza can. 19. fu condannata fra l'altre la proposizione di Wicleffo, che diceva:


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Speciales orationes applicatae uni personae per praelatos vel religiosos, non plus possunt eidem prodesse, quam generales ceteris partibus. In oltre il concilio di Trento ordina, che nella riduzione delle messe vi sia l'obbligo di farsi sempre appresso special memoria degli antichi benefattori; dunque secondo il tridentino questa special memoria giova più a' benefattori, che l'applicazione generale.

L'anonimo1 dice, che appartenendo l'eucaristia alla carità, e contenendo in sé l'oggetto della carità, ch'è Gesù Cristo, i suffragi che si fanno per carità nella messa tanto giovano a tutti, quanto ad uno; ed in ciò rapporta un testo di s. Tommaso: Si valor suffragiorum consideretur secundum quod valent ex virtute caritatis unientis membra ecclesiae, suffragia pro multis facta tantum singulis prosunt, ac si pro uno tantum fierent2. Così trovo notato presso l'anonimo. All'incontro il medesimo autore soggiunge nello stesso luogo, che il s. dottore scrive appresso, che questa specie di soddisfazione offerta per li morti, rispetto all'intenzione di coloro che desiderano procurare il suffragio più presto ad alcuni che ad altri, a riguardo di tale intenzione giova più a coloro, per cui è fatta, che per gli altri; ed ivi riferisce l'altro testo di s. Tommaso: Tunc magis valet suffragium alicui, quod pro eo singulariter fit, quam cum fit pro eo communiter, et multis aliis. Ma all'autore non piace questo discorso di s. Tommaso, e dice, che sarà sempre difficile, per non dire impossibile, il determinare il minore o il maggior frutto che ne può ricevere il particolare. Del resto s. Tommaso dice: Tunc magis valet suffragium alicui, quod pro eo singulariter fit, quam cum fit cum eo communiter, et multis aliis. Almeno scrivendo ciò s. Tommaso non potrà più stimarsi come temerità, come di sovra l'ha chiamata l'autore, il dire che una messa applicata singolarmente ad uno, non giova egualmente agli altri.

Si aggiunge a tutto ciò quel che si disse nel concilio di Lambert su questo punto: Absit enim, ne a quocumque catholico credatur, tantum intentione prodesse missam unam devote celebratam pro mille hominibus, pro quibus forsan dicitur, quantum si multae missae pro eis devotione simili canerentur. Così leggo presso lo stesso anonimo, il quale risponde, che questa è una distinzione metafisica, che non la trova ne' concili; ma non perché egli non la trova, sarà ella falsa. Se non trova espressa questa distinzione, la troverà almeno accennata; almeno certamente non troverà ne' concili detto il contrario, che tanto vale una sola messa applicata per uno, quanto vagliono mille: cosa difforme al senso comune de' fedeli.

Da tutto ciò nondimeno che si è detto conclude il p. Colet continuatore di Tournely, parlando dell'onorario della messa: Citra summam temeritatem, aut quid temeritate peius, culpari non potest, quod tota per orbem frequentat ecclesia3. Ed ivi riferisce, che nel 1521. la facoltà parigina condannò sei proposizioni, che riprovavano lo stipendio della messa. Parimente dice il card. Lambertini4, essere una temerità troppo sfacciata il condannare le messe prese colla limosina: ecco com'egli parla: «Essendo introdotta nella chiesa universale l'usanza di dare o ricevere la limosina della messa, non essendovi cosa più equa, che chi serve all'altare, viva dell'altare, sarebbe una troppo temeraria sfacciataggine il condannarla» come pare che voglia condannarla l'anonimo. Egli dice che il citato testo, Qui altari servit, de altari vivit, non s'intende dello stipendio della messa dato in particolare; ma così l'intende il suo Gersone5, ove così scrive: Sufficere debet ad consensum unius veritatis usus totius communis ecclesiae, qui sic habet, et recipit; cui si quis detrahit, imprudenter se decipit etc. Nihil aequius secundum omnem legem esse deducit apostolus6, quam qui altari servit, de altari vivat. E lo stesso insegna s. Tommaso, come appresso vedremo, e tutti i teologi.

Né è vero, che tutti i patti che si fanno circa gli stipendi della messa, siano illeciti, come simoniaci, o turpi, secondo dice l'anonimo. Egli adduce in prova di ciò le parole del tridentino7, ove si legge: Atque ut multa paucis


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comprehendantur, in primis, quod ad avaritiam pertinet, cuiusvis generis mercedum conditiones, pacta, et quidquid pro missis novis celebrandis datur, necnon importunas atque illiberales eleemosynarum exactiones, potius quam postulationes, aliaque huiusmodi, quae a simoniaca labe, vel certe a turpi quaestu non longe absunt, omnino prohibeant. E con ciò l'anonimo conclude, che tutte le limosine delle messe, che si convengono con patto, sieno simoniache, o infette di turpe lucro. Ma bisogna considerare le parole del concilio da parte a parte. Dice ivi il concilio primieramente: Quod ad avaritiam pertinet, cuiusvis generis mercedum conditiones, pacta, et quidquid pro missis novis celebrandis datur. Vuole dunque il concilio, che si proibiscano tutte le condizioni e patti, che appartengono all'avarizia: l'avarizia è peccato contra la giustizia: differisce il cupido dall'avaro: il cupido è quegli che anela di sempre accumular ricchezze; l'avaro è quegli che si prende o vuol prendersi ciò che non è suo: sicché s'intendono proibiti tutti quei patti e condizioni, che si appartengono all'avarizia, cioè che sono ingiusti. Seguita: Et quidquid promissis novis celebrandis datur. S'intende di quel che si nelle messe novelle: per intelligenza del che bisogna sapere, che fu fatto il dubbio, se poteva il sacerdote novello ricevere le obblazioni che gli si davano in dir la prima messa. Dalla sagra congregazione, come si legge nel decreto presso Lambertini1, e come notammo di sovra al n. 10. fu risposto, che sì, ma che non potesse andar girando per la chiesa a raccoglier le dette obblazioni. Seguita: Nec non importunas, atque illiberales eleemosynarum exactiones, aliaque huiusmodi, quae a simoniaca labe vel a turpi quaestu longe non absunt. Sicché quelle sole esazioni sono simoniache, o turpi, che sono importune, o non libere, ma non già le altre che sono libere e spontanee.

Molto notabili son le parole che soggiunge qui il lodato card. Lambertini: «Dovendo ciascun sacerdote aver presente la massima, che la limosina della messa non è prezzo della consecrazione dell'eucaristia, ma un aiuto pel sostentamento, giusta la dottrina di s. Tommaso.» Ed ecco quel che insegna s. Tommaso2: Dispensantur autem sacramenta per ecclesiae ministros, quos oportet a populo sustentari, secundum illud3: Nescitis, quoniam qui in sacrario operantur, quae de sacrario sunt edunt; et qui altari deserviunt, cum altari participant? Sic ergo dicendum est, quod accipere pecuniam pro spirituali sacramentorum gratia est crimen simoniae; accipere autem aliqua ad sustentationem eorum qui sacramenta Christi ministrant, secundum ordinationem ecclesiae et consuetudines approbatas, non est simonia neque peccatum; non enim sumitur tanquam pretium mercedis, sed tanquam stipendium necessitatis. E citasi ivi s. Agostino4: Accipiant sustentationem necessitatis a populo.

E parlando s. Tommaso specialmente della limosina della messa5 dice: Sacerdos non accipit pecuniam quasi pretium missae decantandae (hoc enim esset simoniacum), sed quasi stipendium suae sustentationis.

Nell'articolo poi terzo il santo stende la ragione di tale stipendio, dicendo: Oportet (sacerdotem) a populo sustentari, cui spiritualia administrat, secundum illud6: Quis militat suis stipendiis unquam? quis pascit gregem, et de lacte gregis non manducat? Et ideo vendere aut emere, quod spirituale est, simoniacum est; sed accipere aut dare aliquid pro sustentatione ministrantium spiritualia, secundum ordinationem ecclesiae, et consuetudinem approbatam, licitum est: ita tamen, quod desit intentio emtionis vel venditionis: et quod ab invitis non exigatur per spiritualium subtractionem quae sunt exhibenda.

Ed altrove7 dice il santo, parlando de' patti: Facere pactionem de missa celebranda, est simonia etc. Ma quando? eccolo: Si tamen non habet alios sumtus, et non tenetur ex officio missam cantare, potest accipere denarios, sicuti conducti sacerdotes faciunt, non quasi pretium missae, sed quasi sustentamentum vitae. Sicché peccano di simonia solamente quei sacerdoti, ch'essendo provveduti già di rendite dalla chiesa con obbligo per causa del lor officio


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di cantar la messa, o di amministrare i sagramenti, e vogliono esigere altro stipendio; ma quando non son tenuti a tal peso, ben possono esigerlo, non come prezzo del sagrificio, ma come aiuto per la loro sostentazione. E così risponde Tournely1 a coloro che dicono: Omnis pactio in rebus sacris reprobanda est, cum datur spirituale pro temporali, quod redolet simoniam: risponde colla dottrina di s. Tommaso: Stipendium non datur tamquam pretium sacrificii, sed tamquam sustentatio operantis.

Posto dunque che le messe dette coll'onorario sono per sé certamente lecite, ed anche approvate dalla pratica della chiesa universale, essendo elle esenti da ogni vizio di simonia, e di lucro turpe, sempre che le limosine diansi affatto spontaneamente, come di sovra si è provato con s. Tommaso, Gersone, Giovenino, Tournely, Tommasino, Lambertini, Bellarmino, ecc., il mezzo insinuato dall'anonimo di abolirle, e d'introdurre di nuovo le messe pubbliche colle obblazioni comuni de' fedeli, secondo le presenti circostanze pare indubitato che riuscirebbe cosa molto più nociva, che utile. Scrive il Tommasino nella sua opera, che se si mettesse in piede questo mezzo, voluto dall'anonimo, vedrebbesi nella chiesa una moltitudine di sconcerti e di danni più gravi degli stessi abusi dall'anonimo descritti. Ed in verità al presente ch'è cessata l'antica carità, ed anche l'antica necessità di mantener le chiese, che ben sono state provvedute da' fedeli, se fosse proibito l'uso degli onorari, non vi sarebbero più certamente le obblazioni antiche; ed all'incontro i tanti sacerdoti che vivono al presente colle limosine delle messe, quanti disordini e scandali commetterebbero, ed a quali offici e mestieri, per vili che fossero, non si darebbero, costretti dalla necessità di vivere, se mancassero le limosine delle messe!

Anche l'approvatore del libro dell'anonimo, nell'approvazione che ne fa, riprova questo mezzo così da lui esagerato: Ma questo costume (dice, cioè delle messe pubbliche colle obblazioni) difficilissimo a ristabilirsi, non potrebbe esser sufficiente per lo mantenimento di molti parochi, e sacerdoti secolari, e regolari.

Il miglior mezzo è pertanto di rimediare agli abusi delle messe prezzolate sembra quello di s. Tommaso l'angelico, cioè che i vescovi attendano ad osservare quel che prescrive il conc. di Trento, di non ordinare in sacris, se non quei chierici che han vera intenzione d'impiegarsi in servire Dio, e non già di procacciarsi per mezzo dell'ordine onori e comodità terrene, per vivere più adagiatamente: Accurate investigandum, num videlicet Dei causa tantum, aut potius suae commoditatis gratia ad ordines capessendos aspirent, quaerentes quae sua sunt, non quae Iesu Christi; lucris inhiantes, et honores ab hominibus expetentes; quisquis talis est, non Dei filius, nec ovilis Christi idoneus pastor futurus, sed mercenarius est2.

Qui nonperò dice l'anonimo: ma qual vescovo potrà esser sicuro di tal buona intenzione? ed ancorché per allora ne fosse certo, come potrà assicurarsi della perseveranza di tale intenzione? Dunque (conclude) è impossibile in ciò non restare ingannato. Dunque, io ripiglio, da oggi avanti non dovranno ordinarsi più sacerdoti, mentre non può aversi la sicurtà della loro buona intenzione, e tanto meno della loro perseveranza? Ma in questa terra di tenebre ognuno sa, che dagli uomini non può operarsi che a modo umano. Della detta buona intenzione non potrà aversi sicurtà fisica, ma ben può aversi la morale, e questa basta per quietare le coscienze de' vescovi; lo stesso dicesi della perseveranza.

Non si è negato, né si nega, che colla moltiplicità delle messe stipendiate siansi introdotti molti abusi; ma dee considerarsi, che in tutte le specie delle umane faccende, in tutti gli offici, magistrature, commerci, quantunque stabiliti con santissime leggi, sempre col tempo vi si sono introdotti gli abusi. La malizia umana gli rende inevitabili; anzi le cose più sante nel mondo sono spesso le più abusate; ma questo non fa ch'elle non sieno più sante. Onde bisogna procurar quanto si può d'impedire il male, ma non già di abolire il tutto. Scrive s. Agostino, che in ogni stato, in ogni condizione si trovano de' buoni e cattivi cristiani, de' buoni


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e cattivi religiosi: ve ne sono, e ve ne saranno sempre.

Resta solamente a dir qui qualche cosa degli altari privilegiati, de' quali l'anonimo ingiustamente parla con qualche disprezzo; mentre parlando egli degli abusi che si commettono per causa degli onorari, dice: Alcuni vogliono, che quelle messe si dicano ad un altare privilegiato, come se la sorgente delle grazie ne scorresse con maggior abbondanza. Ma rispondiamo, che l'abbondanza delle grazie non nasce già da quell'altare, ma dalla concessione del sommo pontefice, che per ragione della suprema potestà a lui data da Gesù Cristo nella chiesa universale, come dichiarò il concilio di Trento1, dicendo, pro suprema potestate sibi in ecclesia universa tradita, ben può applicare dal tesoro de' meriti di Gesù Cristo, e de' santi, tanta parte, quanta ne bisogna per cancellare le colpe di quell'anima, per cui si applica la messa. Udiamo quel che ne scrive il dottissimo card. Lambertini2. È d'uopo (egli dice) il supporre, esser sentenza certa e comune de' teologi, giovare a' morti le indulgenze, non per modo di potestà giudiziaria, com'è nelle indulgenze per li vivi, ma per modo di suffragio; ed a questo principio appoggiasi la concessione, che si fa dal papa, dell'altare privilegiato, applicando per modo di suffragio nella messa, che in quello si celebra per l'anima di un defunto, tanta soddisfazione dal tesoro della chiesa, quanta basta per liberare quell'anima dalle pene del purgatorio, secondo piacerà a Dio: Eum a poenis purgatorii, quantum divinae bonitati placuerit, per modum suffragii liberari possit. Parole di Gregorio XIII. nella concessione di un altare privilegiato. Osserva il card. Bellarmino3, che sin dal tempo di Pasquale I. (scrive il Bellarmino) indulgentiam istam concessit, ut qui pro anima alicuius particularis personae defunctae tot missas celebraverit in capella s. Zenonis in ecclesia s. Praxedis, animam illam de purgatorii poenis eripiat.

Il suddetto poi cardinal Lambertini nel luogo citato avverte più cose degne di notarsi su questi altari privilegiati, ch'io non voglio lasciare. Scrive, che sotto Clemente XI. da una congregazione di cardinali fu introdotto lo stile di concedere per un giorno della settimana l'altare privilegiato a quelle chiese, in cui vi fossero almeno cinque messe cotidiane fisse: per due giorni poi alle chiese, in cui vi fossero dieci messe fisse: e per tre giorni poi, ove vi fossero quindici messe: ma che per l'altare privilegiato cotidiano fosser necessarie quaranta messe fisse: e secondo il decreto d'Innocenzo XII. col consiglio della s.c. determinato a' 5. di giugno 1694., che necessaria omnino sit singulis diebus celebratio missarum praefinitarum. E tal decreto fu di nuovo approvato dal papa. Di più la S.C. sotto Clemente XI. decise, che restassero sospese le indulgenze dell'altare privilegiato, se fossero mancate le messe, ancorché i religiosi si fossero trovati lontani per causa delle prediche in tempo di quaresima, o dell'avvento, o pure in occasion di feste, o funerali; dichiarò nondimeno, che corrono le indulgenze, se il numero delle messe mancasse per causa d'infermità de' religiosi, o de' preti destinati a celebrare le messe in quella chiesa.

 




1 Sess. 22. decr. de observ. etc.



2 L. 18. de' decreti p. 575. a tergo.



3 Cit. notif. 56. n. 11.



4 Part. 1. c. 12. n. 411.



5 L. 3. c. 12. n. 5.



6 Cit. notif. 56. n. 3.

1 L.26. decret. fol.61



2 2.Tim.2.

1 Cocleo in a. 3. conf. august. il card. Bellarmino de euchar. l. 6. c. 9. Estio in 4. dist. 12. p. 17. Il card. Bona l. rerum liturg. c. 14. Silvio in 2. p. quaest. 163. a 5., e 'l p. Gianlorenzo Berti theol. l. 33. de euch. c. 21. prop. 3. n. 12.



2 Or. 19.



3 Hist. eccl. l. 2.



4 Hom. 37. in ev.



5 Praef. in sec. II. Bened.

1 Pag. 6. a. 1.



2 Th. de euch. part. 8. c. 2.



3 Praelect. t. 9. de euch. q. 4. a 5.



4 In 4. sent. dist. 11. q. 1. qu. 3.



5 P. 4 de euch. qu. 10.



6 Tom. 4. in declar concilior. diss. de actis s. Leonis. IX. cap. 7.



7 L. 1. rerum liturg. c. 13.



8 Part. 3. c. 71. n. 8.



9 Par. 2. § 2.

1 In 4. sent. dist. 45. qu. 2. a. 4. q. 3. ad 2.



2 In 4. a. 1. qu. 3.



3 Quodib. 20.



4 In 3. part. d. 79. sect. 9. n. 981.



5 De iust. l. 9. q. 2.



6 Theol. dogm. etc. t. 1. l. 2. a. 6. propos. 1.



7 Tract. ascet. de sacr. miss. c. 1. § 4.



8 De iust. et iure l. 9. q. 2. a. 2.



9 Theol. t. 2. de euch. c. 5.



10 Compend. de sacram. t. 2. p. 297.



11 Sup. ad 3. p. q. 79. a 5.

1 C. 3. p. 134.



2 Sup. in 3. p. q. 71. a. 13.



3 To. 5. tract. de eccl. par. 2. c. 9. sect. 4.



4. Cit. notif. 56. n. 4.



5.Trat. de solitud. eccles. part.



6 1. Cor. 9.



7 Sess. 22. decr. de observ. in celeb. misse.

1 Cit. not. 56. n. 7.



2 2. 2. q. 100. a. 2.



3 1. Cor. 9.



4 Cap. 2. de pastore.



5 Cit. a. 2. ad 2.



6 1. Cor. 8.



7 4. sent. dist. 25. quaest. 3. a. 29. ad 4.

1 Praelect. de euch. a. 9. de honorario tom. 9. p. 414.



2 S. Thom. 2. 2. q. 189. a. 1. ad. 3.

1 Sess. 14. c.7.



2 Cit. notif. 59. al n.15.



3 Tract. de indulg. l.1. c. 14.




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