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S. Alfonso Maria de Liguori Dell'uso moderato dell'opinione probabile IntraText CT - Lettura del testo |
DELL'OPINIONE EGUALMENTE PROBABILE.
1. Avendo io data fuori nell'anno 1762 una dissertazione circa l'uso dell'opinione egualmente probabile, mi si oppose il molto rev. p. lettore fra Gio. Vincenzo Patuzzi, sotto il nome di Adelfo Dositeo, con un libro intitolato: La causa del probabilismo richiamata all'esame da monsignor De Liguori e novellamente convinta di falsità. Io con una apologia in difesa della mia dissertazione risposi alle di lui opposizioni; ma egli di nuovo mi si è opposto con un altro libro che va col titolo: Osservazioni teologiche di Adelfo Dositeo sopra l'apologia dell'illustr. e reverend. monsig. D. Alfonso De Liguori ec. Essendosi per tanto dovute ristampare le mentovate mie due operette, cioè la dissertazione e l'apologia, ho stimato bene di unirle insieme in questo libro per maggior comodo de' leggitori ed anche per dare miglior ordine alle cose, mettendo le opposizioni del mio avversario colle mie risposte,
prima date in diversi luoghi, ora unite ne' luoghi dove propriamente cadono. Coll'occasione di questa ristampa ho dovuto rispondere ancora all'autore anonimo che ha dato fuori un altro libro intitolato La regola de' costumi, infine del quale vi è di più un'appendice fatta direttamente contro la mia dissertazione.
2. Il p. Patuzzi si maraviglia nella sua seconda risposta ch'io non mi sia rivocato in legger la prima, e quindi dice aver rilevato che «certe prevenzioni col lungo corso degli anni prendono dell'uman cuore dominio tale e tale possesso che non v'ha forza bastevole di ragione per vincerle e sradicarle.» Io all'incontro mi maraviglio com'egli abbia potuto ciò scrivere, avendo letta la mia apologia, ove stimo aver fatto vedere con evidenza che le sue opposizioni sono tutte fallacie ed equivoci che facilmente si sciolgono da ognuno che intende. E da ciò io rilevo che quando gli uomini si attaccano a qualche proprio sentimento, la loro lusinga giunge a segno che lor fa parere che quanto dicono tutto debba esser approvato dagli altri e che le risposte di coloro che non si accordano al loro sposato sentimento sieno tutte inezie da non farne conto. Egli dice che la prevenzione ha preso tal possesso del mio cuore che non v'è forza che basti a
sradicarla: ma vorrei sapere perché io non potrei dir lo stesso di lui; tanto più ch'egli ha potuto essere più prevenuto di me in questa controversia, per cagione di tanti contrasti avuti sulla medesima co' padri della Compagnia.
3. Si scusa poi circa le tante invettive e contumelie di cui mi caricò nella sua prima risposta con dire due cose. La prima, ch'io l'ho calunniato con chiamar contumelie quelle ch'erano giuste riprensioni, ben meritate dalle mie inette ed insussistenti proposizioni e ragioni. La seconda, ch'egli ha dovuto parlare così per bene del pubblico e per difesa della verità. In quanto alla prima, rispondo: se tiene ch'io l'abbia calunniato a torto, che voglio dire? gliene cerco perdono. Povero me! dopo essere stato così malmenato, son diventato io il reo: del resto in ciò mi rimetto al giudizio di coloro che avran letto o leggeranno il suo libro. Ciò poco m'importa; quel che m'importa è di pregare i leggitori ad avvertire che quando il p. Patuzzi onora i suoi avversarj co' suoi soliti complimenti, non lo fa già per umiliarli (bisogna scoprire il suo disegno), ma lo fa per esaltare le sue ragioni e farle comparire per evidenti. Ecco le sue solite frasi: «Non si può credere, monsignore (questi sono alcuni de' complimenti fatti a me),
l'abuso che fate della dottrina di S. Tomaso. - Studiate meglio le questioni, monsignore, per non aver a trarvi addosso gli scherni degl'intendenti. - Vi mancano le giuste idee delle cose di cui favellate. - Ciò dovreste arrossirvi di dirlo. - Se io fossi nella vostra persona, mi vergognerei di aver avanzata una simil proposizione, e di fare per essa presso del pubblico una comparsa troppo sconcia e deridevole. - Di grazia consideri, monsignore, quel che scrive, perché parmi che manchi di riflettervi» e simili altre invettive. Ma ognuno che legge in una scrittura queste premesse così tonanti facilmente può restar prevenuto a credere o almeno a presumere che quanto appresso ivi si soggiunge sieno tutti pezzi di Evangelio. E questo io penso esser l'intento del p. Patuzzi. Per lo stesso fine stimo ch'egli aggiunga poi quelle sue conclusioni interrogative: «Che ve ne pare, monsignore, di questo paradosso? - Ciò non dovrebbe persuader monsignore dell'inganno suo? - Come ciò può negarsi? - Son rimaso altamente ammirato di lui. - Che vi sembra, amico, di questa risposta? - Resto sorpreso. - Di gran pazienza fa duopo per udire siffatte risposte.» Tal sorta di parlare è un modo ammirabile del p. Patuzzi per fare apprendere che le cose che dice sieno certe ed evidenti.
Dico la verità che questi modi e queste frasi così esageranti talvolta mi han fatto temere ch'io non bene intendessi la forza delle sue ragioni, addotte con tal enfasi; ma mettendo poi le cose in bilancia, io per me le ho ritrovate di poco peso. Ho voluto in ciò prevenire il lettore, quando leggerà le dette sue opere, acciocché non gli facciano specie queste esagerazioni, ma consideri solamente le cose che dice, e se ha ragione, gliela faccia.
4. In quanto alla seconda cosa d'aver egli parlato così per difesa della verità e per bene del pubblico, io ho risposto nella mia apologia che a rispetto della verità della causa non tocca né a me né a lui il decidere da qual parte ella si trovi, ma tocca al giudizio de' savi. A rispetto poi del bene del pubblico, ho detto ed ora torno a dire ch'egli irragionevolmente suppone che la salute delle anime dipenda dall'abbracciare la sua rigida sentenza, di non poterci noi valere d'altre opinioni, se non di quelle che sono moralmente certe; poiché tal rigore (checché egli dica degli autori antichi) non mai è stato insegnato né praticato nella Chiesa. Ed è certo che non solo dobbiam noi render conto a Dio dell'usare soverchia benignità nel dirigere le coscienze, ma anche dell'usar troppo rigore, illaqueando le anime
con gran pericolo di perdersi; ch'è appunto quell'ædificare ad gehennam, detestato da' canoni e da' dottori, e specialmente da S. Antonino. Così l'uno come l'altro errore è senza dubbio proibito dalla stessa legge naturale. Il Cabassuzio, parlando di questo punto, Theor. jur., in præfat., saggiamente così scrive: A quibusdam ingeniis ultra modum aut severioribus aut indulgentioribus magis periclitetur animarum salus, difficile æstimatu est; e detestando prima la troppa benignità, passa a riprovare poi la soverchia rigidezza, poiché ella, dum hominem ad nimis ardua compellit, viam salutis æternæ præcludit, salvandos (ut ait D. Bonaventura) damnat, et conscios propriæ infirmitatis ad desperationem adigit. Accidit enim ut miseri homines, hac audita rigidiore doctrina, credant vel dubitent inesse mortalem culpam, ubi nulla est; sed tamen rei difficultate victi, ex erronea conscientia mortaliter peccant et damnantur... Recte ergo D. Bonaventura, Comp. theol. verit. l. 2, cap. 32, n. 5: cavenda est conscientia nimis larga et nimis stricta; nam prima generat præsumptionem, secunda desperationem; item prima sæpe salvat damnandum, secunda e contra damnat salvandum. E perciò scrisse Giovan Gersone: Doctores theologi non debent esse faciles ad asserendum aliqua esse
peccata mortalia, ubi non sunt certissimi de re; nam per ejusmodi assertiones rigidas et nimis strictas in rebus universis nequaquam eriguntur homines a luto peccatorum, sed in illud profundius, quia desperatius, demerguntur. Quid prodest, imo quid non obest, coarctare plus justo mandatum Dei, quod est latum nimis? Lib. de vita spirit., lect. 4.
5. Sappiamo già che gli antiprobabilisti deridono chi vuole applicar questo testo del Vangelo all'uso lecito delle opinioni probabili, dicendo con S. Agostino che la santa carità è quella , non già l'opinione probabile, che rende soave il giogo della legge di Gesù Cristo. Sappiamo ciò, e ben lo confermiamo; ma diciamo che ancora coll'uso delle opinioni probabili la divina legge non lascia d'esser grave giogo, e talmente grave che senza una special grazia di Dio non può intieramente osservarsi, ma non è ella, come la voglion rendere gli antiprobabilisti quasi intollerabile e moralmente impossibile, obbligando tutti sotto precetto grave ad osservare tutte le leggi dubbie, come leggi assolutamente obbliganti; quandoché tutti gli autori antichi con S. Raimondo, S. Tomaso, S. Antonino ed altri, che appresso riferiremo nel capitolo V, n. 17, hanno insegnato che non dee condannarsi alcun'azione di peccato mortale, se ciò non consta per qualche
divina Scrittura o canone della Chiesa o evidente ragione.
6. Né vale il dire che nel seguire l'opinione men sicura egualmente probabile si incorre il pericolo dell'anima; mentre più facilmente questo pericolo s'incorre nell'imporre senza giusta e certa ragione l'obbligo di seguire le opinioni più rigide in tutti i casi che son dubbi, come saggiamente scrisse il p. Suarez: Imo potius periculum animarum incurreretur, si tot vincula in casibus dubiis injicerentur. In 2, 2, quæst. 89, art. 7. Si noti ancora quel che più a lungo il cardinal Pallavicino scrisse a questo proposito: Per se spectatum effatum illud - in dubio tutior pars est eligenda - verissimum est, si recte intelligatur; nam vel agitur de electione practica, et hæc semper debet esse tutissima, quia debet esse evidenter licita; vel de electione sententiæ speculativæ et circa eam quærenda quidem est major securitas sententiæ, non major securitas actionis. Si induceretur opinio quod semper teneremur facere actionem quæ securior est etiam a transgressione materiali, hæc opinio non esset tutior, sed maxime exposita periculo frequenter transgressionis formalis; quare tutior est opposita. In 1, 2, disp. 9, c. 4, art. 11, n. 12. Così parimente scrive il p. Bancel domenicano: Multa sunt quæ
tutius est facere, sed simul etiam tutius est non se credere obligatum ad ea facienda, nisi moraliter ipsî constet de tali obligatione. Quindi così conclude: Cum non debeamus formare conscientiam de obligatione ad aliquid sub pœna peccati, nisi moraliter constet de obligatione, non debemus onus illud imponere, dum moraliter nobis constat superesse nobis libertatem amplectendi quamcumque voluerimus ex hujusmodi opinionibus. To. 5 Brev. univ. theol. p. 2, tr. 6, qu. 5, art. 5. Ecco come scrisse in conferma di tutto ciò il B. Umberto generale de' dominicani, riprovando il soverchio rigore delle opinioni nel dirigere i penitenti: Terrentur enim homines, et hoc in tantum ut salutem negligant; idcirco relaxanda est, quantum fieri potest, rigiditas, et agendum benigne, quia sic melius trahuntur ad salutem, cum sententiæ mitiores tenentur. In Glossa Prol. Const. Ord. litt. I. S. Antonino, scrivendo che non è necessaria l'attenzione interna a soddisfare privatamente le ore canoniche, ne apportò la seguente ragione: Hunc intellectum teneas, quia benignior est, et quia non debet Ecclesia laqueum injicere. P. 3, tit. 13, cap. I, § 7. Così scrisse ancora Willelmo, come riferisce Gio. Nider, dicendo: Item idem Willelmus in materia de decimis, recitans duas opiniones, dicit, quod
illa prima opinio, scilicet quod antiquas decimas sine peccato in feudis retinere possint laici, benignior est et ideo magis amplectenda. De sent. præc., cap. 24. Sicché se il p. Patuzzi dice di avere scritto per difesa della verità, per lo bene del pubblico e per la gloria di Dio, anch'io per la verità, pel bene di pubblico e per la gloria di Dio ho scritto. Egli dice e ridice che la passione mi fa travedere e mi tiene impegnato a sostener la sentenza che ho difesa. Ma io mi son protestato e di nuovo mi protesto che, secondo il presente dettame di mia coscienza non potrei mutar sentenza senza rimorso di colpa grave, con abbracciar la sua, di dover negare l'assoluzione a tutti coloro che volessero seguire qualche opinione che non fosse moralmente e direttamente certa, ma fosse già egualmente probabile. Se però egli vuol seguire a non credermi, esso è il padrone.
7. Asserisce di più nella seconda risposta che tutti (non eccettuatone neppur uno) che hanno letta la sua prima risposta, l'han giudicata invincibile. Ma io ben posso asserire il contrario, essendomi stato scritto dal regno e da fuori del regno che più persone, avendo letto il libro di Adelfo, niente l'hanno approvato; e che all'incontro, leggendo le ragioni da me addotte, son parute loro
evidenti. Un certo vescovo molto dotto, dopo aver letta la mia opera, disse: «Questa non è dissertazione, ma dimostrazione.» Del resto a me non è permesso di far catalogo di tanti vescovi, preti e religiosi dotti, i quali sono della stessa mia sentenza; mentre ho timore che taluno di essi non voglia esser nominato per non esser posto in canzona e tacciato di lassista, se vien chiamato probabilista, secondo la moda che corre. La nota di lasso ad ognuno dispiace, ma della nota di rigido molti se ne vantano e ne fanno oggetto di loro stima. Ciò però non ostante, in fine di questo libro trascriverò molte lettere scrittemi da diversi vescovi e da altri soggetti rispettabili, di cui conservo gli originali, i quali hanno letta la mia apologia, e non si vergognano di approvare per certa la nostra sentenza.
8. Io per me non pretendo di aver la gloria di restar vincitore in questa causa; altro non intendo che di esporre al giudizio de' savi le ragioni che mi muovono a difender la mia sentenza. Queste ragioni per altro a me sembrano chiare; e per quante opposizioni ho veduto loro fatte, tutte mi hanno più confermato nel mio sentimento: del resto, se taluno cercherà di confutarle, mi dichiaro e prometto di non aggravarmene punto, anzi di ringraziarlo di avermi illuminato.
Ma siccome io non mi aggraverò di coloro che non si rendon persuasi dalle mie ragioni, così non debbono essi aggravarsi poi, s'io non mi chiamo persuaso dalle loro opposizioni, se non mi convincono.
9. Ma lasciamo da parte tutte queste cose, che finalmente non fanno al punto principale, e veniamo ad esaminar le ragioni dell'uso lecito dell'opinione egualmente probabile: e vediamo se queste sussistono o non sussistono.