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S. Alfonso Maria de Liguori
Dell'uso moderato dell'opinione probabile

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CAPITOLO II. - DIMOSTRASI CHE BEN DASSI L'IGNORANZA INVINCIBILE IN ALCUNE COSE APPARTENENTI ALLA LEGGE NATURALE.

 

1. È regola certa che non può darsi ignoranza invincibile in quelle cose che l'uomo dee e può sapere. Quando dunque non sa quel ch'è tenuto a sapere ed all'incontro può vincere l'ignoranza colla sua diligenza (studio superare potest, come parla S. Tomaso, 1, 2, q. 76, a. 2) egli non può essere scusato da colpa. Quali cose poi siam tenuti noi a sapere, le spiega l'Angelico nello stesso luogo: Omnes tenentur scire communiter ea quæ sunt fidei, et universalia juris præcepta; singuli autem quæ ad eorum statum vel officium spectant. Sicché, parlando del dritto naturale, non può darsi ignoranza invincibile nei primi principj della legge, come sono: Deus est colendus: quod tibi non vis, alterî ne feceris etc. Così anche non può darsi nelle conclusioni immediate o sieno prossime a detti principj, quali sono i precetti del decalogo. Neppure può darsi negli obblighi spettanti al proprio stato o proprio officio; poiché chi assume qualche stato, per esempio, ecclesiastico o religioso, o pure chi prende ad esercitar qualche officio, come di giudice,


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di medico, di confessore o simile, è obbligato ad istruirsi de' doveri di quello stato o di quell'officio; e chi l'ignora, lasciando d'istruirsene, o per timore di non esser poi tenuto ad osservarli, o per mera ma volontaria negligenza, la sua ignoranza sarà sempre colpevole, e tutti gli errori che indi commetterà per cagion di tal negligenza saran tutti colpevoli, quantunque egli in commetterli non abbia avvertenza attuale della loro malizia; mentre basta a renderli colpevoli l'avvertenza virtuale o sia (come chiamano altri) interpretativa, ch'egli ha avuta in principio in tralasciar di sapere le proprie obbligazioni, come saggiamente e comunemente sentono Habert, theol. dogm. to. 3 de act. human c. 1 § 3, q. 5, il p. Collet, comp. moral. to. 1, pag. 520, 525, continuatore di Tournely, il p. Antoine, theol. mor. cap. 4 de peccat., qu. 7, ed altri colla scorta di S. Tomaso, secondo quel che di sovra si è osservato e per quel che dice il Santo più specialmente a questo proposito in altro luogo, de consc. q. 17, a. 5, ad 3 et ad 5, dove scrive che non può essere scusato quel giudice, se erra nel giudicare per non saper le leggi che doveva aver imparate.

 

2. Ho detto comunemente, perché sebbene sembra che molti altri autori, come Silvio, Suarez, Gammacheo, Isamberto ec.,


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richiedano per ogni peccato l'attuale avvertenza di quello, almeno quando se ne mette la causa, nulladimanco tutti ammettono che basta a far colpevoli gli errori futuri quell'avvertenza che ha l'uomo in principio, allorché assume qualche stato o qualche officio, dell'obbligo d'istruirsi ne' suoi doveri, e lo trascura: perché allora già prevede almeno in confuso ed all'oscuro gli errori che, senza essere istruito, potrà commettere e non li cura. Se però taluno, dopo essersi abbastanza istruito, errasse forse in qualche cosa particolare appartenente al suo officio o stato, non già per negligenza, ma per mera ignoranza invincibile o invincibile inavvertenza, costui ben sarebbe scusato da ogni colpa, come qui appresso dimostreremo.

 

3. È indubitato dunque che così in quanto a' principj della legge naturale, come in quanto alle loro conclusioni prossime ed alle obbligazioni certe del proprio stato, non può darsi invincibile ignoranza; perché tali cose per lo stesso lume di natura son note a tutti, fuorché a coloro i quali chiudono gli occhi per non vederle. E di queste parla appunto S. Tomaso espressamente in altro luogo, 2, 2, q. 94, a. 6: Ad legem naturalem pertinent primo quidem quædam præcepta communissima quæ sunt omnibus nota; secundario autem quædam secundaria præcepta


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magis propria, quæ sunt quasi conclusiones propinquæ principiis; e dice che così le prime come le seconde non possono ignorarsi se non per passione ed ignoranza colpevole; poiché, secondo scrive il p. Suarez, natura ipsa ac conscientia ita pulsat in actibus eorum ut non permittat ea inculpabiliter ignorari.

 

4. All'incontro è sentimento comune de' teologi, così probabilisti come antiprobabilisti, che nelle conclusioni mediate ed oscure, o sieno rimote da' primi principj, ben si e dee ammettersi l'ignoranza invincibile. Così insegna il medesimo S. Tomaso, 1, 2, q. 76, a. 3, il quale dice che in due modi l'ignoranza può esser volontaria e colpevole: Vel directe, sicut cum aliquis studiose vult nescire, ut liberius peccet; vel indirecte, sicut cum aliquis propter laborem vel propter alias occupationes negligit addiscere id per quod a peccato retraheretur. Talis enim negligentia facit ignorantiam ipsam esse voluntariam et peccatum. Si vero ignorantia sit involuntaria, sive quia est invincibilis, sive quia est ejus quod quis scire non tenetur, talis ignorantia omnino excusat a peccato. Dicendo dunque il Santo: si vero ignorantia sit involuntaria, sive quia est invincibilis, sive quia est ejus, quod quis scire non tenetur, talis ignorantia omnino excusat a peccato, ben dichiara che


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l'ignoranza, ancorché sia di cose che siam tenuti a sapere, nel caso ch'ella è invincibile, scusa affatto dal peccato. Lo stesso insegna l'Angelico con termini più individuali in altro luogo, quodl. 8, a. 15, dove scrive: Error autem conscientiæ quandoque habet vim absolvendi sive excusandi, quando scilicet procedit ex ignorantia ejus quod quis scire non potest vel scire non tenetur; et in tali casu, quamvis factum sit de se mortale, tamen, intendens peccare venialiter, peccaret venialiter; e per conseguenza se intendesse di non commetter alcun peccato, niuno ne commetterebbe. Si noti: scire non potest vel scire non tenetur; dunque anche nel caso che taluno è tenuto a sapere il precetto, se non può saperlo, l'ignoranza sua è invincibile e lo scusa dalla colpa che sarebbe in sé stessa; avvertendo saggiamente il p. Giovanni da S. Tomaso che quel potest scire s'intende non già rimotamente, ma prossimamente e speditamente, sicché l'omissione della diligenza dovuta in cercar la verità sia propriamente voluta: Illud axioma - Qui potest et tenetur, et non facit, peccat - intelligi de eo qui potest proxime et expedite, non remote tantum et impedite; quia, ut supra diximus, omissio, ut sit voluntaria, debet procedere ab ipsa voluntate. 1, 2, q. 6, disp. 3, diff. 1.


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5. S. Antonino similmente insegna che nelle conclusioni rimote ben si l'ignoranza invincibile: Et si diceretur hîc esse usuram, et usura est contra decalogum; respondetur: sed hunc contractum esse usurarium non est clarum, cum sapientes contraria sibi invicem in hujusmodi sentiant. Cum autem dicitur ignorantia juris naturalis non excusare, intelligitur de his quæ expresse per se vel reductive sunt circa jus naturale et divinum, ut contra fidem vel præcepta, per evidentes rationes vel determinationem Ecclesiæ vel sententiam communem doctorum, et non de his quæ per multa media et non clare probantur esse contra præcepta et articulos. P. 2, tit. I, cap. 11, § 28.

 

6. Lo stesso tiene Habert, dicendo: Circa conclusiones juris naturalis, quales sunt prohibitio usuræ, uxorum pluralitas, matrimonii indissolubilitas, etiam interveniente aliqua gravi causa, potest esse ignorantia invincibilis, quia non deducuntur ex primis principiis, nisi longiori discursu. Theol. to. 3 de act. hum. cap. I, § 3 circa fin. Ed a Gersone, che scrisse: Concors est sententia nullam in iis quæ legis naturalis sunt cadere ignorantiam invincibilem, de vita spirit., risponde che ciò va detto in quanto a' primi principj e conclusioni primarie, ma non già in quanto alle conclusioni più rimote. Anzi


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soggiunge che talvolta anche le conclusioni primarie in certe circostanze possono invincibilmente ignorarsi, per esempio se taluno si persuade per errore che sia tenuto a mentire per liberare un prossimo dalla morte.

 

7. Giovan Battista Du-Hamel scrive lo stesso: Quod autem ex eo jure necessario quidem sed non ita manifeste deducitur, ut forte poligamia et alia hujus generis, invincibiliter ignorari posse probabile videtur, adeo ut nulla vel levi suspicione ea esse prohibita his in mentem venerit. Ac licet ea vitia ex peccatis libere admissis oriantur ac proinde voluntaria videantur, et ea ratione ignorantia sit pœna peccati; hinc tamen non sequitur ea esse voluntaria, cum ex iis peccatis secutura mala prævisa non fuerant. Lib. 2 de act. human., cap. 5 in fin., vers. Ad legem.

 

8. Il p. Lorenzo Berti, de theol. discipl. to. 2, lib. 21, cap. 10, scrive lo stesso, e dice: Verissimam tamen puto sententiam oppositam, et circa consequentias juris naturæ remotissimas censeo ignorantiam invincibilem esse admittendam... Illam tenent omnes fere ægidiani ac thomistæ et Sylvius, l'Herminier aliique communiter; cujus assertionis hæc videtur ratio apertissima quod conclusiones jus naturæ remotiores deducuntur ex principiis longiori implexoque discursu, quem rudes plurimi efformare nequaquam valent. E


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ciò lo comprova con S. Tomaso, c. 2, q. 100, a. I, dove dice: Quædam vero sunt quæ subtiliori consideratione indigeant disciplina. Onde conclude il p. Berti che il rozzo, se in ciò non usa negligenza, non dee condannarsi. E neppure, io soggiungo, dee condannarsi il perito, se opera per ignoranza invincibile: poiché non v'è alcun dotto il quale sappia giudicare di tutte le cose oscure appartenenti al jus naturale secondo la verità; mentre la stessa verità, come dice S. Tomaso, non è egualmente nota a tutti: Sed quantum ad proprias conclusiones rationis practicæ, non est eadem veritas seu rectitudo apud omnes, nec est etiam æqualiter nota apud quos est eadem veritas. 1, 2, q. 94, a. 2.

 

9. Lo stesso tiene il p. Gonet nel suo clipeo teologico, tom 3, disp. 1, a. 4, § 1, n. 55, dove, parlando de' precetti rimoti da' primi principj, dice: Potest dari de illis ignorantia invincibilis et excusans a peccato. E parlando in altro luogo, tract. de probabil., circa fin., della stessa sentenza, dice che la contraria è singolare di pochi ed improbabile. Lo stesso tiene il p. Collet, continuatore di Tournely, comp. mor. to. 1, c. 1, a. 1, sect. 2, concl. 4, p. 23, scrivendo: Non datur ignorantia invincibilis juris naturalis quoad prima principia et proximas


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eorum conclusiones; datur vero quoad conclusiones magis remotas. Lo stesso tiene il p. Antoine, theol. mor. de peccat., cap. 4, q. 6, e dice: Datur in aliquibus ignorantia invincibilis circa quædam præcepta juris naturalis valde abstrusa et remota a principiis. Est communis sententia: quia cum aliqua præcepta sint valde abstrusa et remota a primis principiis, a quibus sine longo et difficili discursu deduci nequeunt, facile ignorari possunt invincibiliter. E di più riferisce che nell'anno 1685, addì 8 di agosto tra varj articoli in Roma fu dannato il terzo articolo seguente: Nullam admittimus ignorantiam invincibilem juris naturæ in ullo homine dum hic et nunc contra jus naturæ agit. Ho voluto riferire distesamente le proprie parole di questi nominati autori, mentr'essi sono già tutti antiprobabilisti. Del resto vi sono poi innumerabili altri che tengono per certo la stessa sentenza, come sono Silvio, 1, 2, qu. 76, a. 8, Soto, de just. l. 1, q. 4, a. 4, Gammacheo, 1, 2, q. 94, Isamberto, 1, 2, q. 79, a. 6, il cardinal Aguirre, to. 3, il p. Wigandt, tract. 2, exerc. 3, n. 29, il p. Cuniliati, tract.1, c. 1, n. 12, i Salmaticesi, così scolastici, to. 3, tract. 2, disp. 6, dub. 2, p. 5, come morali, de leg., cap. 1, n. 26, con S. Anselmo, tract. 7, Azorio, Suarez, Tapia, Prado, Vasquez e Sanchez,


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La-Croix, lib. 1, n. 720, con Duvallio, Medina, Maldonato ec. Lo stesso scrisse il dottissimo vescovo D. Giulio Torni nelle sue note ad Estio, dove disse che della stessa sentenza era stato il Gaetano (non bene addotto per sé da Contensone), avendo il Gaetano scritto così: Hominem, quantum in se est, in opinionum delectu a divina bonitate excusari, si veritatem non assequens, a recta deflectat morum regula: non exigit magis Deus ab homine. Lo stesso ultimamente ha scritto monsig. di Beaumont arcivescovo di Parigi nella sua istruzione pastorale, dicendo: «Benché ignorar non si possano invincibilmente i principj del dritto naturale e le loro conclusioni prossime, con tutto ciò le loro conseguenze più oscure e rimote possono essere e spesso sono la materia d'un'ignoranza veramente invincibile; questo punto in tutte le parole riunisce i suffragi de' teologi più rinomati

 

10. Si comprova poi la nostra sentenza colla propos. 2 di Bajo dannata da Alessandro VIII, che diceva: Tametsi detur ignorantia invincibilis juris naturæ, nec in statu naturæ lapsæ operantem ex ipsa excusat a peccato formali. Dalla condanna di tal proposizione chiaramente s'inferisce che il pontefice in tanto l'ha condannata, in quanto ha supposto per certo che ben può darsi ignoranza invincibile in alcune cose astruse


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spettanti alla legge naturale; altrimenti a che condannarla? Lo stesso ricavasi dalla condanna di quell'altra proposizione di Bajo: Infidelitas negativa in iis quibus Christus non est prædicatus peccatum est. Inoltre più chiaramente si conferma dalla proposizione dannata dallo stesso pontefice: Non licet sequi opinionem vel inter probabiles probabilissimam. Se non si desse ignoranza invincibile in niuna cosa circa il jus di natura, come dicono gli avversarj, non sarebbe scusato da colpa neppure chi siegue l'opinione probabilissima, perché anche la probabilissima sta a pericolo di errore, mentr'ella non è fuori, ma è dentro i termini della probabilità. Ma la ragione più certa ed evidente della nostra sentenza è quella che scrive S. Tomaso: Manifestum est quod illa ignorantia quæ causat involuntarium tollit rationem boni et mali moralis. 1, 2, q. 19, a. 6. Lascio qui di più stendermi alle prove, perché le migliori sono quelle che mi riservo qui ad esporre, or che darò le risposte alle obiezioni de' contrarj.

 

11. Udiamo dunque quel che dicono i miei mentovati oppositori, i quali assolutamente negano darsi ignoranza invincibile circa qualunque cosa del dritto di natura. Ecco come parla primieramente il p. lettore Patuzzi: «Secondo l'idea che ne abbiamo dalle


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divine Scritture, da' santi Padri, da S. Tomaso e dal senso comune degli antichi ed anche de' migliori moderni teologi, i peccati d'ignoranza, quando siamo tenuti a sapere la legge, sono quelli (parlando con esattezza e proprietà) che si commettono e de' quali ci rendiamo colpevoli dinanzi a Dio in un tempo nel quale noi non sappiamo di commetterli, perché nasce da colpa nostra, che non lo sappiamo. E però S. Tomaso assegnò su questo quella massima luminosa e certa, che ignorantia quæ causatur ex culpa non potest subsequentem culpam excusare. In c. 1, epist. ad Rom. E per tal modo si pecca, quantunque si abbia non solo la scienza da voi pretesa, cioè la cognizione certa ed evidente (parla qui meco circa l'uso lecito dell'opinione egualmente probabile, che difendo nella dissertazione), ma né tampoco l'incerta ed oscura del peccato, la quale si poteva e si era tenuto ad averla.» E poi conclude così: «Questo poco vi basti a vostra istruzione sopra di una materia sulla quale sembra non abbiate formata la giusta idea.» Ma qui ha sgarrato il p. lettore, credendo ch'io avessi il cervello così perspicace com'è il suo: ma avendo io una mente dura ed ottusa confesso che non mi basta questo poco d'istruzione che mi fa sovra il punto presente; poiché non so capire come l'uomo possa peccare,


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avendo ignoranza invincibile del peccato, dopo ch'egli ha posta la diligenza prossima ad istruirsi ed evitar l'ignoranza, e non ha potuto conoscerlo.

 

12. L'autore poi della Regola de' costumi quasi in tutto il suo libro si affatica a provare che noi non possiamo senza colpa formale ignorar veruna cosa che s'appartiene al jus di natura. Ma vediamo come lo prova: poiché dalle risposte che si daranno alle sue opposizioni meglio si chiarirà la nostra sentenza: «Non si (egli dice nella pag. 345) ignoranza invincibile del dritto naturale e della legge di Dio, fuorché ne' fanciulli, ne' frenetici e ne' pazzi.» Ed indi alla pag. 354 conchiude: «L'ignoranza del diritto naturale non iscusa mai quelli che operano con cognizione e coll'uso libero della ragioneConclusione che in sostanza riprova l'uso d'ogni opinione probabile, ancorché fosse probabile, ancorché fosse probabilissima, e costringe tutti ad abbracciare il tuziorismo dannato: anzi, anche con attenersi al tuziorismo dannato, non libera dal peccato.

 

13. Egli prova principalmente il suo assunto, dicendo che noi siam tenuti a seguitare la verità, attesoché la verità è la sola regola de' costumi; e perciò nel capitolo I unisce a tal proposito molti testi della Scrittura: Ego sum via, veritas et vita. Jo. 14, 6.


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Viam Dei in veritate doces. Matth. 22, 16. Omnes viæ tuæ veritas. Ps. 118, 151. Si filii tui... ambulaverint coram me in veritate. 3 Reg. 2, 4. Ambulantes in veritate, sicut mandatum accepimus a Patre. 2 Jo. 4. Gentium custodiam veritatem. Isa. 26, 2. Qui... facit veritatem, venit ad lucem. Jo. 3, 21. In veritate non stetit. Jo. 8, 44.

 

14. Ma potea l'autore risparmiarsi questa fatica, perché niuno gli nega che siamo tenuti nell'operare a cercare e, trovatala, a seguire la verità. Ma domandiamo: in qual altro modo noi possiam conoscere questa verità, se non colla ragione? Bisogna dunque dire che quella verità noi dobbiam seguire che dalla ragione ci è rappresentata. Per tanto il p. Collet rettamente distingue la moralità obbiettiva dell'atto in sé considerato dalla moralità formale dell'agente, e dice che quando si opera per ignoranza invincibile ma colla moralità formale, talvolta non solamente non si pecca ma anche si merita, operandosi secondo la ragione, che sembra retta, benché ella ripugni in verità alla ragione suprema: Sed quia, scrive il p. Collet, repugnantia hæc aliquando involuntaria est, ut in iis qui invincibili laborant ignorantia, ideo non semper imputatur ad culpam, sed aliquando ad meritum ob bonam fidem agentis, qui rectam rationem sibi sequi videtur


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dum etiam ab ea deficit. To. 1, cap. 3, a.1 , sect. 1, concl. 2, pag. 95. E tutto vien confermato da S. Tomaso, 1, 2, q. 16, a. 1 ad 3, il quale insegna che l'oggetto dell'atto per mezzo della ragione vien rappresentato alla volontà, ed in quanto cade sotto l'ordine della ragione, quell'oggetto cagiona nella volontà la bontà morale: Ad tertium, dicendum quod bonum per rationem repræsentatur voluntati ut objectum, et, in quantum cadit sub ordine rationis, pertinet ad genus moris et causat bonitatem moralem in actu voluntatis; ratio enim principium est humanorum et moralium actuum, ut supra dictum est. Qu. 18, a. 5. Dove scrive il Santo che gli atti della volontà si dicono buoni e mali secondo si rappresentano dalla ragione: In actibus autem bonum et malum dicitur per comparationem ad rationem; quia, ut Dionysius dicit, 4 cap. de div. nomin.: Bonum hominis est secundum rationem esse, malum autem quod est præter rationem... Dicuntur autem aliqui actus humani vel morales secundum quod sunt a ratione.

 

15. Che perciò il medesimo Dottore Angelico assegna la ragione umana per regola prossima della nostra volontà, dicendo che la legge eterna benché sia la prima regola, ella nondimeno è la regola rimota ed è più presto ragione di Dio che nostra: Regula


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autem voluntatis humanæ est duplex: una propinqua et homogenea, scilicet ipsa humana ratio, alia vero est prima regula, scilicet lex æterna quæ est quasi ratio Dei. 1, 2, q. 71, a. 6.

 

16. Ma no, dice l'autor nominato della regola de' buoni costumi; quando si opera contro la legge, sempre si pecca, né la ragione basta a scusarci dal peccato. Così egli parla nel capo XI alla pag. 168: «Si confessa che la ragione dee esser la regola più prossima delle nostre azioni. Ma questo s'intende quando ella è sottomessa alla legge eterna ec. Or non sempre accade che la ragione si regoli colla legge di Dio. Onde non solamente non può dirsi che la ragione sia regola de' nostri costumi e che non si possa fallire seguitandola, ma anzi è una verità ricevuta in tutta la scuola che quando la ragione s'inganna, la volontà pecca, se la seguita: Ratio humana potest errare: et ideo voluntas concordans rationi humanæ non semper est recta; sed voluntas concordans rationi erranti est mala. Questa è la conclusione (così termina l'autore) di S. Tomaso e di tutti i teologi

 

17. Ma vediamo quel che dice S. Tomaso nel luogo, dove propone appunto questo articolo: Utrum voluntas concordans rationi erranti sit bona. 1, 2, q. 19, a. 6. Ivi il


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Santo dice così: Hæc autem quæstio dependet ab eo quod supra dictum est (qu. 6, art. 8), quod ignorantia quandoque causat involuntarium, quandoque autem non. Et quia bonum et malum morale consistit in actu in quantum est voluntarius, ut ex præmissis patet (art. 2 hujus quæst.), manifestum est quod illa ignorantia quæ causat involuntarium tollit rationem boni et mali moralis, non autem illa quæ involuntarium non causat. Dictum est etiam supra (qu. 6, art. 8) quod ignorantia quæ est aliquo modo volita, sive directe sive indirecte, non causat involuntarium. Et dico ignorantiam directe voluntariam, in quam actus voluntatis fertur: indirecte autem propter negligentiam, ex eo quod aliquis non vult illud scire quod scire tenetur. Si igitur ratio vel conscientia erret errore voluntario, vel directe, vel propter negligentiam, quia est error circa id quod quis scire tenetur, tunc talis error rationis vel conscientiæ non excusat quin voluntas concordans rationi vel conscientiæ sic erranti sit mala. Si notino le parole: Si igitur ratio vel conscientia erret errore voluntario, vel directe vel propter negligentiam, quia est error circa id quod quis scire tenetur, tunc talis error non excusat. Sicché, per contrario, quando l'errore non è voluto né direttamenteindirettamente per negligenza,


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scusa già dal peccato. Sempre dunque vi vuol la negligenza per render volontario l'errore.

 

18. Né osta il dir che quando una cosa è mala, ancorché la ragione la rappresenti come buona, ella sempre è mala, poiché risponde S. Tomaso nello stesso articolo ad primum, che ciò è vero per la regola generale, che bonum causatur ex integra causa, malum autem ex singularibus defectibus. - Et ideo, soggiunge il Santo, ex hoc quod dicatur malum id in quod fertur voluntas, sufficit sive quod secundum suam naturam sit malum, sive quod apprehendatur ut malum. Ma questo non fa che le azioni che si fanno contro la legge, sieno peccati formali. Quando si erra contro la legge invincibilmente ignorata, si pecca solo materialmente, ma non formalmente; perché la legge, non già com'ella è in sé stessa, ma come ci è rappresentata dalla ragione, così ci è regola e misura della nostra volontà; siccome dottamente riflette e scrive p. Giovanni da S. Tomaso: Et cum instatur quod potest ratio proponere contra legem ex errore invincibili, dicimus quod non potest proponere contra legem formaliter, sed materialiter, idest contra legem ut est in se, non contra legem ut existimatam, sub qua conditione tantum potest lex mensurare , non secundum


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se præcise ut in re et nondum ut manifestatam. 1, 2, qu. 18, disp. XI, art. 2 circa fin. Secondo quel che lo stesso autore avea scritto prima: Moralitas in actibus liberis non est aliud quam eorum commensuratio et ordinatio secundum regulas rationis. Cit. qu. 18, disp. IX, art. 1.

 

19. Ma opporrà l'autore della Regola de' costumi che S. Tomaso nello stesso articolo della questione 19 soggiunge queste parole: Si ratio errans dicat quod homo teneatur ad uxorem alterius accedere, voluntas concordans huic rationi erranti est mala, eo quod error iste provenit ex ignorantia legis Dei, quam scire tenetur. Dunque, dice, sempreché si opera contro la divina legge, l'uomo non è scusato dal peccato, quantunque la ragione gli rappresenti il contrario. E ciò lo conferma con quell'altro testo dell'Angelico: Si alicui dictat conscientia ut faciat illud quod est contra legem Dei... si facit, peccat; quia ignorantia juris non excusat a peccato, nisi forte sit ignorantia invincibilis, sicut est in furiosis et amentibus, quæ omnino excusat. Lo conferma inoltre col testo di Bonifacio VIII, de reg. jur., reg. 13, in 6, dove si dice: Ignorantia facti, non juris, excusat.

 

20. Ma a tutti questi testi le risposte sono chiare. Dicendo S. Tomaso - ignorantia legis 


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Dei, ignorantia juris non excusat, parla solo dell'ignoranza di que' divini precetti che il Santo esprime in altri luoghi (come notammo di sovra, 1, 2, quæst. 76, art. 2 et qu. 94, art. 6) e che non possono ignorarsi senza colpa di positiva negligenza, quali sono i primi principj della legge naturale e le loro prossime conclusioni, cioè i precetti del decalogo, secondo insegnano comunemente con S. Tomaso gli altri autori di sopra riferiti. E così anche dee intendersi l'autorità di Gersone oppostaci dal nostro avversario, come la spiega Habert. E così anche debbono spiegasi le autorità opposte di Alberto magno, in 2, distinct. 22, art. 10, e del papa Adriano, in 4 sent., tract. de clau. eccl. q. 5, mentre nella lettera pastorale di monsig. di Beaumont io trovo citati questi autori a favor nostro. Del resto è certo che S. Tomaso, eccettuatine i primi principj e le conclusioni prossime, nelle altre cose astruse ed oscure egli certamente ammette in più luoghi, come abbiamo osservato, l'ignoranza invincibile; poiché nella questione 76 (1, 2, art. 7) dice che quando l'ignoranza è invincibile, ancorché sia di cose che l'uomo dee sapere, scusa affatto dal peccato, con quelle parole: Si vero sit ignorantia quæ omnino sit involuntaria, sive quia est invincibilis, sive quia est ejus quod quis


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scire non tenetur, omnino excusat a peccato. 1, 2, q. 76 a. 34. Di più nell'altro luogo di sovra riferito della questione 19 art. 6 dice che allora è mala volontà che siegue una ragione erronea quando la ragione erra, o direttamente o indirettamente, per volontaria negligenza circa quelle cose che l'uomo dee sapere: Si igitur ratio vel conscientia erret errore voluntario, vel directe vel propter negligentiam, quia est error circa id quod quis scire tenetur, tunc talis error non excusat. 1, 2, q. 19, a. 6. Dunque, allorché l'errore non è volontario, almeno per ragione della negligenza, l'errore scusa dal peccato, benché sia di cose che quis scire tenetur.

 

21. Al testo poi opposto di Bonifacio VIII Ignorantia facti, non juris, excusat, congruamente rispondono Silvio, in 1, 2, q. 76, a. 3, q. 2, concl. 7, colla Glossa sovra il testo citato e il p. Antoine, de peccat., cap. 4, q. 6, che ciò corre per gli statuti forensi, l'ignoranza de' quali ordinariamente si presume vincibile dopo la loro promulgazione fatta nel foro; purché non vi fosse qualche special ragione che facesse presumere il contrario, come si ha dal cap. In tua, tit. Qui matr. accus. etc.

 

22. Oppone di più l'anonimo, per provare che non si ignoranza invincibile circa le


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cose di jus naturale, diverse Scritture: Qui autem non cognovit, et fecit digna plagis, vapulabit paucis. Lucæ 12, 48. Delicta juventutis meæ et ignorantias meas ne memineris. Ps. 24, 7. Misericordiam Dei consecutus sum, quia ignorans feci in incredulitate. 1, Tim. 1, 13. Ma tutti questi testi, ben dice Habert, de act. hum., cap. 1, § 3 circa fin., e lo dicono insieme comunemente i sacri interpreti, s'intendono dell'ignoranza crassa, la quale per altro diminuisce il peccato, ma pure è castigata, quia, scrive Habert, est volita saltem indirecte, quatemus qui ea laborat, voluntarie omittit diligentiam ut addiscat, vel suscipit officium ad quod præstandum non potest adipisci scientiam requisitam. E perciò, dice Habert, fu condannata dal concilio di Diospoli la propos. di Pelagio: Ignorantia non subjacet peccato, quoniam non secundum voluntatem evenit, sed secundum necessitatem. Fu condannata, perché l'ignoranza, quando è crassa, è vincibile e per tanto è colpevole.

 

23. Ma, replica l'autore, i Giudei crocifissero Gesù Cristo senza conoscerlo come dichiarò lo stesso nostro Salvatore, quando disse: Pater, dimitte illis; non enim sciunt quid faciunt. Luc. 23, 34. Gl'infedeli credeano di dare onore a Dio con uccidere gli Apostoli: Sed venit hora ut omnis qui interficit


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vos, arbitretur obsequium se præstare Deo. Jo. 16, 2. Così anche gli eretici credono di difender la verità con perseguitare i cattolici. Ma a tutto risponde abbastanza lo stesso Habert, loc. cit., con poche parole: Judæi per miracula et prophetias potuerunt cognoscere Christum Dominum juxta illud: Si enim crederetis Moysi, crederetis forsitan et mihi; de me enim ille scripsit. Jo. 5, 46. Si opera non fecissem in eis... peccatum non haberent. Jo. 15, 24. Hæretici et alii infideles, si velint attendere ad notas veræ religionis, eam in ecclesia romana facile deprehendissent.

 

24. Ma di nuovo replica l'anonimo e dice così: l'ignoranza di conoscer qualche precetto naturale nasce da nostra colpa, o perché non facciamo tutta la diligenza dovuta in cercar la verità, o perché non domandiamo a Dio, come conviene, la grazia per conoscere la divina legge; poiché, dice, siccome la nostra fede dev'essere elevata dal lume divino per credere i santi misteri, così la nostra ragione dallo stesso lume dev'esser elevata per sapere le vie di andare a Dio; che per ciò Davide pregava: «Signore, istruitemi delle vostre leggi ed insegnatemi a fare la vostra volontà.» Onde nella pag. 353 finalmente così conclude: «Non può esser senza peccato quel che si fa per questa ignoranza contro la legge di Dio


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25. Dunque, rispondo, udendo noi tanti uomini dotti e pii ed anche canonizzati dalla Chiesa che in molte questioni sono stati fra loro di contrario parere circa più cose di legge naturale, abbiamo da dire che o gli uni o gli altri han peccato e si sono perduti; così parla il p. Antoine nel luogo citato, de pecc., cap. 4, q. 6, su questo punto: S. Thomas et S. Bonaventura de multis ad legem naturalem pertinentibus inter se dissident; ergo alteruter erravit: tamen neuter ullam opinionem ante mortem retractavit. Ergo, si non datur ignorantia invincibilis legis naturalis in aliquibus, alteruter in gravi peccato mortuus est, cum sit gravis culpa docere culpabiliter errorem circa præcepta divina, sicque damnatus est. Ed in verità, come sappiamo, S. Tomaso tiene che il giudice dee condannare chi nel giudizio apparisce reo, quantunque esso giudice sappia che quegli è innocente; ma ciò S. Bonaventura lo nega. All'incontro S. Bonaventura tiene che il peccatore, se non si confessa subito del suo peccato, commette un nuovo peccato; e ciò lo nega S. Tomaso. E di tali esempi d'uomini santi e dotti che fra di loro sono rimasti discordi trattando di precetti naturali, dice S. Antonino, part. 1, tit. 3, cap. 10, § 10, che se ne possono addurre innumerabili. Lo stesso scrive il dotto Morino, dicendo:


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Quicumque Ecclesiæ attenderit, facile animadvertet auctores ecclesiasticos multa aliquando opinionum varietate discordes fluctuasse. Part. 3, exerc. 5, cap. 9 de sacr. Ord. Di più Natale Alessandro asserisce che anche molti de' santi Padri son caduti in alcuni errori: Fatemur in singulis pene Patribus nœvos reperiri, in plerisque etiam errores. Tom. 4, disp. 16, sect. 2. Lo stesso scrive il p. Berti, Theol. lib. 21, cap. 17, num. 5. Ed in fatti riferisce Sisto senese di S. Gio. Grisostomo: Restat tertium, quod in præmissis Chrysostomi verbis continetur assertum, videlicet Saram in eo potissimum esse laudandam atque imitandam quod, servandi mariti caussa, barbarorum sese adulterio exposuerit, consentiente tamen marito in ejus adulterium, immo etiam suadente. Bibl. sacr. adnot. 89. Dovremmo dunque dire che questi santi o altri autori ecclesiastici son dannati, mentre hanno scritte opinioni erronee senza di poi emendarle; o almeno dire che in iscriver quelle han sempre peccato mortalmente: ma non so chi avrà l'animo di ciò asserire.

 

26. Onde non vale il dire che chi studia e prega come conviene ben otterrà la cognizione del vero in tutti i dubbj della legge di natura; essendoché, risponde il p. Collet nel luogo citato, cap. I, pag. 24, i primi


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lumi della Chiesa non han trascurato di studiare e pregare notte e giorno, e tuttavia non sono giunti a saper quanto bramavano: Et vero si quælibet ignorantia juris naturalis vinci possit, maxime per orationem; atqui falsum consequens, cum majora Ecclesiæ lumina dies noctesque orando et studendo consumpserint, nec tamen eas, quas optabant, cognitiones obtinuerint. Sì, perché, secondo ben riflette lo stesso autore, di molte conclusioni di legge di natura, ma rimote da' primi principj, neppure i padri e dottori della Chiesa con tutti i grandi ajuti che hanno avuti della natura e della grazia, han potuto in più cose accertarsi della verità: Atqui multæ sunt conclusiones a primis principiis oriundæ quarum cognitio ne cum magnis quidem naturæ et gratiæ auxiliis haberi potest, cum circa eas dividantur acutissimi simul et piissimi Ecclesiæ patres et doctores.

 

27. Ma Dio è fedele; egli ha promesso di esaudir chi lo prega: Petite et accipietis. Se noi gli domandassimo come si dee la sua luce, Iddio non ce la negherebbe: onde se non l'abbiamo, la colpa è nostra. Ma bisogna distinguere due sorte di luci. Una luce o sia cognizione è naturale, ovvero naturalmente acquistata, colla quale noi conosciamo le verità morali della legge divina circa le cose


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comandate o proibite. L'altra è la luce sovrannaturale di grazia, colla quale poi veniamo illuminati a conoscere il valore della grazia divina, l'importanza dell'eterna salute, i mezzi per conseguirla, le occasioni che posson farcela perdere e cose simili. Or quando si pecca formalmente contro la legge per mancanza di questa luce di grazia che noi abbiam trascurato di chiedere a Dio, non ha dubbio che tal trascuraggine ben ci viene imputata a colpa, mentre allora la nostra mancanza è volontaria; poiché se avessimo pregato, questa luce non ci sarebbe mancata, giacché Iddio non manca di dar le grazie spirituali a chi gliele domanda, com'è appunto la luce per abbracciare quel che conosce esser buono e per fuggire quel che conosce esser male. E questa è quella luce che cercava Davide, quando diceva: Da mihi intellectum, et discam mandata tua. Doce me facere voluntatem tuam. All'incontro il Signore non né ha promesso di dare a tutti la luce di conoscere tutte le verità morali che possono conoscersi colla cognizion naturale; e perciò quando si opera materialmente contro la legge, ma invincibilmente per mancanza di questa natural cognizione, allora non ci viene imputato l'errore a colpa formale; mentre Iddio si contenta che noi ci regoliamo secondo il dettame della coscienza,


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che allora per mezzo della ragione ci vien dimostrato come retto. Dice S. Paolo: Omne autem quod non est ex fide (cioè secondo ci detta la coscienza, come spiegano comunemente S. Ambrogio, S. Gio. Grisostomo, Teodoreto ed altri), peccatum est. Dunque chi opera giusta il dettame di sua coscienza non pecca. S. Giovanni parimente dice: Si cor nostrum non reprehenderit nos, fiduciam habemus ad Deum. 1 Jo. 3, 21.

 

28. In somma Iddio non condanna se non quelle azioni in cui vi è malizia volontaria o volontaria negligenza: onde chi crede invincibilmente di operar bene, il Signore non solamente non lo punisce, ma talvolta ben anche premia la sua buona intenzione, ancorché l'opera sua ripugni alla legge qual è in sé stessa: Sed quia repugnantia hæc, scrive il p. Collet, come già notammo di sovra, aliquando involuntaria est, ut in iis qui invincibili laborant ignorantia, ideo non semper imputatur ad culpam, sed aliquando ad meritum ob bonam fidem agentis, qui rectam rationem sibi sequi videtur dum ab ea deficit. Ciò lo scrive anche il molto severo p. Daniele Concina, theol. christian., to. 2, l. 2 de consc., d. 1, nella sua teologia morale, dove, benché nell'argomento al capo V dica che l'opera fatta per coscienza erronea, anche invincibile, non può esser mai


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buona e degna di merito, nondimeno appresso, al num. 36, pag. mihi 46, espressamente si uniforma alla sentenza nostra dicendo: Potest enim quis, dum exercet opus materialiter malum, habere plures actus bonos, intentionem nempe bonam Deo placendi: hos bonos et meritorios dicimus, quamvis actus qui per se tunc exercetur sit materialiter malus. Hæc bona intentio nulla prava circumstantia inquinatur, quia opus malum, cum non sit voluntarium, refundere in istos actus malitiam non valet.

 

29. Ma il nostro anonimo esclama contro di ciò e ne forma un capitolo a parte (il capo XIII), dove si affatica a provare che quando l'azione è contraria alla divina legge, ancorché l'uomo operi con buona intenzione, sempre pecca. Ecco come egli parla. Prima dice: «È dunque una massima costante nel Vangelo e nella dottrina de' Padri che l'intenzione ed il fine comunicano la loro bontà o malizia alle nostre azioni e le rendono o buone o cattive.» Ma poco appresso, quasi contraddicendo a sé stesso, parla altrimenti e dice: «Quantunque si abbia buona intenzione, se la cosa che si fa, è cattiva per sé medesima o per qualche circostanza particolare, o se è proibita dalla legge di Dio, con tutto ciò si pecca facendola.»

 

30. Così sente il nostro oppositore. Ma,


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oltre del p. Concina riferito di sovra ed oltre della sentenza comune degli altri dottori, S. Tomaso, S. Bernardo, S. Ambrogio e S. Gio. Grisostomo sentono il contrario, come vedremo. Primieramente S. Tomaso, 1, 2, q. 18, a. 6, propone il quesito: Utrum actus habeat speciem boni et mali ex fine; e risponde: Dicendum quod aliqui actus dicuntur humani in quantum sunt voluntarii, ut supra dictum est. In actu autem voluntario invenitur duplex actus: scilicet actus interior voluntatis et actus exterior; et uterque eorum actuum habet suum objectum. Finis autem proprie est objectum interioris actus voluntatis. Actus exterior accipit speciem ab objecto circa quod est; ita actus interior voluntatis accipit speciem a fine, sicut a proprio objecto. Id autem quod est ex parte voluntatis, se habet ut formale ad id quod est ex parte exterioris actus... neque actus exteriores habent rationem moralitatis, nisi in quantum sunt voluntarii. Et ideo actus humani species formaliter consideratur secundum finem, materialiter autem secundum objectum exterioris actus. Queste parole del santo Dottore non han bisogno di spiegazione; troppo chiaramente qui egli c'insegna che l'atto umano diventa buono o malo secondo il fine col quale si fa: poiché l'atto umano intanto ha ragione di moralità, cioè


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d'esser buono o malo, in quanto è volontario. L'oggetto dell'atto esterno è la cosa qual è in sé stessa: l'oggetto poi dell'atto interno della volontà è l'intenzione, con cui si opera; onde, benché materialmente l'atto sia in sé cattivo, nondimeno formalmente è buono quando il fine è buono; s'intende però sempre che la malizia dell'atto materiale invincibilmente s'ignora dall'operante.

 

31. L'avversario poi adduce per sé un lungo passo di S. Bernardo, de præc. et discipl., c. 17 et 18, ed indi dice: «Questa risposta di S. Bernardo ci fa chiaramente vedere che, affinché l'occhio semplice renda il corpo illuminato..., dee avere due cose: la buona intenzione e la cognizione della verità.» Ma io trovo che S. Bernardo scrive due dottrine contrarie a questo che dice il mio oppositore. Nel medesimo trattato al cap. 12 e 17 dice il Santo che chi ubbidisce al prelato ex recta intentione, meritorie agit, quamvis materialiter erret contra legem. Ed al c. 14, n. 35 dice così: Et quidem dignam dixerim vel solam intentionem piam; nec plane condigna remuneratione fraudabitur in opere quoque non bono ipsa bona voluntas. S. Ambrogio, l. 1 offic. c. 30, scrive: Affectus tuus nomen imponit operi tuo. E S. Gio. Grisostomo, hom. 19 aut auctor. op. imperf., scrive similmente: Ex proposito bono, etiam


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quod videtur malum, bonum est; quia propositum bonum excusat malum opus.

 

32. Ma chi opera contro la legge, replica l'autore, sempre pecca per ignoranza vincibile, perché se pregasse, non gli mancherebbe la grazia per conoscere la legge. Ma di nuovo si risponde che Iddio a chi prega affin di evitare il peccato formale non nega già la grazia sufficiente, ma non sempre la grazia per evitare il peccato materiale. Non adest gratia, scrive il p. Collet, quæ peccatum formaliter devitet, concedo; peccatum etiam materialiter, nego. Porro peccatum quod ex ignorantia invincibili committitur non est peccatum, nisi materialiter, nec impedit quominus æterna salus obtineri possit. Imo sunt qui credunt quarundam rerum cognitionem homini (Deum) subtrahere quia mavult ut propter cognitionis defectum non peccet, nisi materialiter, quam ut occasione cognitionis suæ formaliter delinquat.

 

33. Non so poi che abbia a far col caso nostro la proposizione che oppongono dannata da Alessandro VIII circa il peccato filosofico, la quale dicea: Peccatum philosophicum seu morale, quantumvis grave, in eo qui Deum vel ignorat vel de Deo actu non cogitat est grave peccatum, sed non est offensa Dei, neque peccatum mortale dissolvens amicitiam Dei neque æterna pœna dignum.


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Che ha che fare, dico, quella proposizione col nostro caso? Chi conosce già di offender la natura offende necessariamente ancora l'autor della natura, il quale è Dio, ancorché a Dio specialmente non rifletta: ma chi opera con ignoranza invincibile della legge naturale non offende né la naturaDio: l'offende solo materialmente, o, per meglio dire, niente l'offende; poiché l'offesa materiale non ha ragion di offesa, se l'uomo come offesa di Dio o della natura non la conosce.

 

34. Per quel che dice poi l'oppositore in altro luogo, scrivendo così: «La legge non è meno necessaria per convincerci delle massime che dobbiam seguitare che per istruirci de' misteri che dobbiamo adorare; e la nostra ragione non dee meno esser elevata con un lume particolare per saper le vie che ci posson condurre a Dio che per comprendere ch'egli è il nostro vero e sommo benefattore», ciò ha bisogno di spiegazione. Se per saper le vie che ci posson condurre a Dio s'intende il sapere i mezzi per fare il bene e fuggire i pericoli del male (mentre queste sono le vie che ci conducono a Dio), va bene; lo stesso dico io, ed aggiungo che chi non sa queste vie, la colpa è sua, poiché Dio si è obbligato a dar la grazia di saper queste vie a chi gliela domanda; onde se manca, per colpa di lui già manca. Se poi per


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saper le vie che ci possono condurre a Dio s'intende il dover conoscere tutte le verità morali e d'ordine naturale, rispondo, come già ho detto di sovra, che Dio non si è obbligato di dare a noi questo particolar lume sovrannaturale di saper conoscere tutte le verità morali, come sono in sé stesse; giacché altrimenti dovremmo dire che tanti dottori, tra cui vi sono stati anche santi canonizzati, i quali fra di loro sono stati e rimasti discordi in molte questioni morali, sieno caduti in colpa o gli uni o gli altri per essere stati negligenti o a cercar la verità o a chiedere a Dio il lume particolare per accertarsi del vero. Ma ciò non può dirsipensarsi.

 

35. L'anonimo prende poi altra via per render colpevole l'ignoranza invincibile di qualunque cosa spettante al dritto di natura. Dice che due sono le piaghe rimaste in noi per causa del peccato originale: la concupiscenza, con cui è restata la volontà inclinata al male, e l'ignoranza, con cui è rimasta oscurata la ragione. Indi argomenta così: «Se la concupiscenza non iscusa chi ne seguita le sregolatezze, e perché mai l'ignoranza ha da scusare chi ne seguita i traviamenti?» Dal che poi conclude che siccome si pecca operando per concupiscenza, così si pecca sempre operando per ignoranza.


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36. Ma la risposta è facile e chiara. In tanto pecca chi seguita le sregolatezze della concupiscenza, perché allora colla volontà aderisce spontaneamente alla malizia di quelle, sicché allora la stessa concupiscenza è voluta. Altrimenti avviene però nell'ignoranza invincibile, la quale non è volutapiace. È certo che niun peccato è peccato, se non è volontario: quindi è che siccome quando noi seguitiamo le sregolatezze volontarie della concupiscenza pecchiamo, così parimenti pecchiamo seguitando le sregolatezze dell'ignoranza vincibile e voluta. Ma all'incontro, siccome il sentire i moti della concupiscenza, ma contro la nostra volontà, non è peccato, giusta quel che dice l'Apostolo: Quod nolo malum, hoc ago, Rom. 7, 19; così anche non è peccato l'operare secondo l'ignoranza invincibile quando non è voluta.

 

37. Passa poi l'autore a far colpevole l'ignoranza nostra almeno per causa de' proprj peccati prima da noi commessi; e dice che siccome noi per li nostri peccati ci mettiamo nell'impotenza morale di fare il bene, così ci mettiamo ancora nell'impotenza morale di conoscere il bene che dobbiamo fare ed il male che dobbiam fuggire. Siccome dunque non ci scusa l'impotenza quando operiamo il male che conosciamo esser male, così neppure può scusarci l'impotenza quando ignoriamo il male che facciamo.

 

38. Rispondiamo primieramente con Du-Hamel che la pena del peccato non è un male che s'imputa a peccato di chi patisce tal pena: onde quantunque tal ignoranza fosse pena degli altri peccati prima da noi commessi, questi peccati non rendono già colpevoli gli errori che poi commettiamo per ignoranza invincibile, perché tali errori non sono da noi volutiprevisti: At licet, scrive il Du-Hamel, ea vitia ex peccatis libere admissis oriantur, ac proinde voluntaria videantur, et ea ratione ignorantia sit pœna peccati; hinc tamen non sequitur ea esse voluntaria, cum ex iis peccatis secutura mala prævisa non fuerant. Lib. 2 de act. hum., cap. 5 in fin. Inoltre si risponde non esser vero che i nostri peccati siccome ci pongono nell'impotenza morale di fare il bene, così anche ci mettono nell'impotenza morale di conoscere i precetti naturali: perché, secondo abbiam detto di sopra, per fare il bene vi bisogna la grazia, alla quale certamente mette impedimento chi pecca; per intendere però nudamente i precetti, non è necessaria la grazia, ma basta il lume naturale: onde non può dirsi che il peccato, il quale non priva l'uomo del lume naturale, lo mette poi nell'impotenza morale di conoscere i precetti.

 

39. Ma i peccati (dirà) acciecano i


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peccatori e tolgono loro la cognizione. Concedo che loro tolgono quella cognizione che alletta a fare il bene e rimuove da fare il male, e per aver questa cognizione vi bisogna la grazia e bisogna pregare per ottenerla. Di questa cognizione appunto parlava S. Agostino quando scrisse contro Pelagio: Dum tamen potius disputet quam ut oret et dicat: Da mihi intellectum et discam mandata tua. Il Bellarmino spiegando questo passo di Davide dice: Da mihi intellectum non significat da mihi vim intelligendi, sed da mihi lumen divinum, quo mens mea discat mandata tua (scilicet), ut sibi persuadeat optimum esse illa complere. Chiedea per tanto il profeta la grazia d'esser illuminato e persuaso del bene che trovasi nell'adempire i divini precetti. Ciò parimente quando pregava: Viam justificationum tuarum instrue me -; idest (spiega lo stesso Bellarmino) doce me quæ sit via præceptorum tuorum, quomodo videlicet debeam in lege tua ambulare; cioè come debba io operare, secondo i vostri precetti m'impongono. Ciò parimente quando pregava: Da mihi intellectum, et scrutabor legem tuam. - Petit, così il Bellarmino, ut scrutari possit ejus utilitates. Ciò parimente quando dicea: Doce me facere voluntatem tuam; cioè: insegnatemi, Signore, ad operare secondo la vostra volontà. Ma,


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come di sopra vedemmo, la volontà di Dio è che noi operiamo secondo il dettame della nostra coscienza. Il peccato dunque priva il peccatore di questa cognizione di grazia, ma non lo priva già della cognizione naturale de' precetti, i quali si fan conoscere colla sola ragion naturale, siccome saggiamente scrive Habert, de act. hum., cap. 1, § 3, pag. 17, con S. Tomaso: Peccatum naturam humanam prorsus non corrumpit; alioquin homo per peccatum desineret esse homo.

 

40. L'autore poi mi oppone molte autorità di S, Agostino, e specialmente quella dove dice: Ignorantia quæ non est eorum qui scire nolunt, sed qui tanquam simpliciter nesciunt, neminem sic excusat ut sempiterno igne non ardeat. De grat. et lib. arb. c. 3. Sopra questo passo dice poi l'autore così: «Non pretende già (S. Agostino) che chi ha peccato per ignoranza sia sempre reo, come chi pecca con cognizione della sua colpa. Aggiunge però che ciò non dee fare ricorrere alle tenebre dell'ignoranza per ritrovarvi la sua scusa; perché l'istessa non lo scusa in modo che uno non sia condannato al fuoco eterno.» Ma io non rilevo che cosa in sostanza voglia l'autore inferire dal testo del Santo. Se da quelle parole - qui tanquam simpliciter nesciunt - volesse inferire che l'ignoranza non iscusa dall'inferno,


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quantunque sia invincibile, gli osterebbe apertamente la proposizione 2 dannata da Alessandro VIII e già riferita di sopra, la quale diceva che l'ignoranza invincibile del jus di natura non iscusa dal peccato formale. Del resto di Du-Hamel e il p. Berti rispondono a questo testo di S. Agostino. Il Du-Hamel dice così: Hæc intelligenda ut nescientia simplex non excuset a peccato cujus non est causa, sed eximit ab eo cujus est causa. Unde qui legem Dei nesciunt nec scire potuerunt non peribunt quod legem ignotam violaverint, sed propter peccata quæ in legem naturæ admiserunt. De act. hum., l. 2, diss. 3, cap. 6, n. 6. E dello stesso modo risponde il p. Berti al testo rapportato di S. Agostino, dicendo che il santo Dottore scrisse che gl'infedeli i quali non han creduto a Gesù Cristo meritano il fuoco eterno non quia non crediderunt, id enim non imputatur ad culpam, dummodo nescire noluerunt; sed quia legem naturæ inscriptam cordibus suis libere transgressi sunt, lib. 21, cap. 10. Sicché vuol dire S. Agostino che l'ignoranza di coloro che affatto ignorano la vera religione, sebbene gli scusa dal peccato dell'incredulità, non gli scusa però da quei peccati che conoscono esser tali secondo il lume della natura. E che in verità il santo Dottore parlava dell'ignoranza colpabile consta dalle


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parole che il santo Dottore immediatamente soggiunge al testo citato, dicendo: Non enim sine causa dictum est: Effunde iram tuam in gentes qui te non noverunt. Il non conoscere Dio non può avvenire che per malizia o per volontaria accecazione.

 

41. Lo stesso scrive S. Gio. Grisostomo, hom. 27 in ep. ad Rom. n. 3: Judæi ignorarunt, sed hæc ignorantia non erat digna venia. Græci quoque ignorarunt, sed defensionem non habent. Ma poi immediatamente soggiunge: Quando enim ea quæ sciri nequeunt ignoraveris, culpa obnoxius non eris. Al che si unisce quella celebre dottrina di S. Agostino, lib. 3 de lib. arb., cap. 19, n. 53: Non tibi deputatur ad culpam quod invitus ignoras, sed quod negligis quærere quod ignoras.

 

42. Del resto, per abbreviarla e non tediare più il lettore su questo punto, a tutti gli altri testi di S. Agostino che ci oppone l'anonimo rispondiamo con la sola autorità del medesimo Santo. Egli nel primo libro delle sue Ritrattazioni pare che a prima vista voglia dire che chi non sa di peccare, anche pecca quando fa volontariamente ciò che in sé è peccato: Qui nesciens peccavit, non incongruenter nolens peccasse dici potest quam is fecit, volens tamen fecit; ita nec ipsius esse potuit voluntate peccatum. Ma,


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come saggiamente osserva il Du-Hamel, loco cit., num. 5 in fin., lo stesso santo Dottore immediatamente spiega quello che con ciò ha voluto dire: Quia voluit, ergo fecit; etsi non quia voluit, peccavit, nesciens, peccatum esse quod fecit. Ita nec tale peccatum sine voluntate esse potuit, sed voluntate facti et non voluntate peccati. Il che significa che quantunque il fatto è materia di peccato, dove però manca la volontà di peccare, il peccato solamente è materiale, ma non è formale o sia volontario, come dice Du-Hamel, quod nimirum factum ipsum est materia peccati, non formaliter et reipsa peccatum est. E questo è quel che scrisse anche S. Tomaso: Si ignoretur deformitas, puta cum aliquis nescit fornicationem esse peccatum, voluntarie quidem facit fornicationem, sed non voluntarie facit peccatum. Opusc. de malo q. 3, a. 8. È vero però (per parlare con sincerità) che l'Angelico in altro luogo nega che la fornicazione possa invincibilmente ignorarsi; e giustamente lo nega, perché la fornicazione è proibita di precetto prossimo e immediato a' primi principj: nulladimeno il Santo nel luogo poc'anzi addotto per certo che quando si opera invincibilmente, ancora contro qualche cosa spettante al dritto naturale, si erra solo materialmente, ma non si pecca.


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43. La stessa risposta si con Du-Hamel al testo di S. Girolamo, contra Pelag. l. 1, cap. 10, 11, 12, oppostoci dall'anonimo, dove il Santo dice contro i pelagiani che l'ignoranza non li scusa dal peccato; s'intende dal peccato di fatto materialmente, ma non formalmente preso: ed in fatti il Santo parla dell'uccisione fatta a caso, per la quale nell'antica legge, ancorché l'omicidio avvenisse senza colpa di volontà, pure doveansi offerire le vittime.

 

44. Inoltre oppone l'autore un'autorità di S. Bernardo, lib. 21, cap. 14, prop. 2, vers. Præterea, dove dice il Santo che l'ignoranza è una delle cause de' peccati che noi commettiamo, ma che Dio non iscusa. Ma bisogna avvertire di quale ignoranza intende ivi parlare S. Bernardo. Ecco di quale ignoranza parla: Multa nesciuntur, aut sciendi incuria, aut discendi desidia, aut verecundia inquirendi. Ma questa sorta d'ignoranza, nata dalla negligenza d'istruirsi de' proprj obblighi o di cercar di sapere la verità, chi può mai scusarla da peccato?

 

45. Né osta quel che dice il santo Dottore, de præc. et dispens., cap. 14, num. 40: Sive itaque malum putes bonum quod forte agis, sive bonum malum quod operaris, utrumque peccatum est. Poiché scrive il p. Berti, tr. ad Hugon., de quæst., c. 1 et 4,


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che malamente Vendrochio da questo passo inferisce che S. Bernardo nega che la ignoranza invincibile scusa dal peccato; poiché il santo Dottore a num. 37 già prima avea scritto: Est qui bonum diligit, et malum nescius agit: hujus quidem bonus est oculus, quia pius; non tamen simplex, quia cæcus. Soggiunge Berti: Igitur est oculus qui non est simplex, et tamen non est nequam, scilicet nescientis ignoratione excusabili. Non è semplice, ma non è malvagio; viene a dire è sol materialmente malo.

 

46. Ecco in somma come i nostri contraddittori, per negare l'ignoranza invincibile di tutte le conclusioni anche rimote ed oscure di cose appartenenti alla legge di natura, non solo si sono opposti al sentimento comune di S. Tomaso, di S. Bonaventura, di S. Antonino, di S. Anselmo e degli altri teologi, così più benigni come più rigidi, ma han dovuto insieme sconvolgere le massime più sode e più ricevute della teologia; e tutto principalmente a fine di rendere illecito l'uso delle opinioni probabili. Ma siccome è riuscita loro vana l'impresa di ottenere l'uno, così non giungeranno mai a guadagnare l'altro. Passiamo ora ad esaminare i due principj sui quali sta fondato il nostro sistema dell'uso lecito dell'opinione ugualmente probabile.

 




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