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S. Alfonso Maria de Liguori
Dell'uso moderato dell'opinione probabile

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§ I.

Si risponde alle opposizioni fatte a questo secondo principio. E qui si prova che la libertà è anteriore all'obbligazione della legge.

 

6. Oppone per il p. Patuzzi che, dicendo S. Tomaso - Nullus ligatur per præceptum aliquod, nisi mediante scientia illius præcepti - per la voce scienza non s'intende la cognizione certa del precetto, ma s'intende la semplice notizia di quello, come già nel caso nostro di due probabili ve ne sarebbe la probabile notizia. E quindi recita quelle parole del testo: et ideo ille qui non est capax notitiæ præcepti (siccome è colui che non ha l'uso della ragione, secondo commenta il p. lettore) non ligatur. Ma (diciamo)


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che sotto nome di scienza s'intenda la notizia sol probabile e dubbiosa, questa è una significazione nuova, di nuovo vocabolario: tutti i filosofi con S. Tomaso distinguono l'opinione dalla scienza, ch'è una cognizione certa di qualche verità; e S. Tomaso in questo passo replica tante volte scienza e non opinione. Che importa poi quel che S. Tomaso soggiunge, cioè che non è legato dal precetto chi non è capace di aver notizia del precetto? Qui notizia non significa, come sono le notizie che vengono cogli avvisi di Pesaro o di Mantova, le quali sono incerte, ma significa cognizione senza dubbietà. Oltreché, anche dato che sotto nome di notizia e di cognizione potesse intendersi la probabilità, almeno dee intendersi per quella probabilità che assiste solamente ad una parte, cioè alla legge, senza probabilità in contrario: altrimenti quando vi sono due opinioni probabili, una che afferma il precetto, l'altra che lo nega, allora (come dicemmo al cap. III, n. 27) è certo che non v'è altro che un mero dubbio del precetto, che affatto non può chiamarsi scienza o cognizione; perché allora non può dirsi che l'uomo ha scienza del precetto, ma solo che ha scienza del dubbio o sia della questione se vi è o no il precetto. Onde S. Tomaso, se avesse voluto unirsi alla sentenza del mio


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oppositore, avrebbe dovuto dire: Nullus ligatur per præceptum aliquod, nisi mediante dubio præcepti. Ma no, il Santo ha detto: nisi mediante scientia illius præcepti. E che il Santo col dire scientia ha inteso parlare della vera scienza, non del dubbio o sia opinione dubbiosa, si vede chiaramente da tutto il contesto di detto passo, mentre dice: Sicut autem in corporalibus agens corporale non agit, nisi per contactum (e più sopra dice, contactum coactionis ad rem, sicché ha da essere un contatto che certamente leghi e stringa la cosa), ita in spiritualibus præceptum non ligat, nisi per scientiam. E prima avea già detto: Unde nec ex imperio alicujus domini ligatur aliquis, nisi imperium attingat ipsum cui imperatur; attingit autem ipsum per scientiam. Dal che si vede ancora quanto sia lontano S. Tomaso dal sentimento del p. lettore, il quale vuole che la legge divina colla sua promulgazione causale ed eminente ha obbligati gli uomini prima ch'essi l'udissero e la conoscessero. Ma l'Angelico dice: Unde nec ex imperio alicujus domini ligatur aliquis, nisi imperium attingat ipsum cui imperatur; attingit autem ipsum per scientiam. E soggiunge ivi lo stesso santo Dottore: Ad videndum autem quando (conscientia) ligat, sciendum quod ligatio metaphorice a corporabilibus ad spiritualia


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sumpta necessitatis importat; ille enim qui ligatus est necessitatem habet consistendi in loco ubi ligatus est, et aufertur ei potestas alio divertendi. Dunque, siccome chi non è attualmente legato da qualche vincolo habet potestatem divertendi quo vult, così chi non è ancor legato colla scienza del precetto ha la facoltà di fare quell'azione che vuole.

 

7. Sicché da quel che insegna qui S. Tomaso si vede che l'uomo non è legato dalla legge divina, se non quando ne riceve la scienza, cioè quando sa che vi sia il precetto. Or come poi può dirsi che sa il precetto chi sta in dubbio se il precetto vi sia o non vi sia? Allora necessariamente dee dirsi che il precetto gli è ignoto e che non lo sa. Mi pare che questo non già sia un discorso di mente storta, come mi dipinge il p. lettore, ma un raziocinio giusto e certo presso di ognuno che ha lume di ragione. Il p. lettore dice ch'io non intendo e malamente spiego le dottrine di S. Tomaso: vorrei sapere, almeno circa la presente dottrina, com'ella meglio s'ha da intendere e spiegare, e se può mai intendersi da alcuno altrimenti di quello ch'io l'ho intesa. Le sottigliezze poi alle quali si rampica per ajutarsi il mio oppositore, nel dire che basta la sola notizia, benché dubbia, per aver la scienza della


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legge, come di sovra si è detto; o pure che tal dottrina non corre per li precetti divini, che da tutti debbono sapersi (del che appresso qui parleremo); non so se possono aver forza appresso d'altri che di coloro che sono appassionati per lo tuziorismo, come lui, e vogliono far dire a S. Tomaso tutto il contrario di quel che il Santo ha detto ed ha inteso di dire.

 

8. Oppone per il p. Patuzzi quelle parole che S. Tomaso soggiunge appresso nel medesimo testo, come di sovra abbiam riferito: Nec aliquis ignorans præceptum Dei ligatur ad præceptum faciendum, nisi quatenus tenetur scire præceptum. Sovra queste ultime parole - nisi quatenus tenetur scire præceptumegli scrive così: «Quando taluno, benché non abbia notizia del precetto, se tuttavia sia tenuto ad averla, ligatur præcepto, e non è scusato dalla trasgressione se non l'osserva.» E quindi egli vorrebbe farci credere coll'autorità addotta di S. Tomaso «che i peccati d'ignoranza (com'egli scrive), quando siamo tenuti a sapere la legge, sono quelli che si commettono e de' quali ci rendiamo colpevoli dinanzi a Dio in un tempo nel quale noi non sappiamo di commetterli... E per tal modo si pecca, quantunque non si abbia non solo la scienza da voi pretesa, cioè la cognizione certa


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ed evidente, ma né tampoco l'incerta ed oscura del peccato, la quale si poteva e si era tenuto ad averla.» Tutte son parole del p. Patuzzi, colle quali par ch'egli affatto neghi darsi ignoranza invincibile circa i precetti, quantunque oscuri, della legge naturale. Ma a ciò bastantemente abbiam risposto nel c. II.

 

9. Ma veniamo alle parole riferite poc'anzi di S. Tomaso: Nec aliquis ignorans præceptum Dei ligatur ad præceptum faciendum, nisi quatenus tenetur scire præceptum. Queste parole non importano che l'uomo, sempre ch'è tenuto a sapere il precetto e lo trasgredisce, sempre pecca, quantunque lo ignori; ma che allora pecca quando trascura di saperlo e per positiva negligenza lo trasgredisce. Ciò lo dichiara lo stesso santo Dottore nel medesimo articolo, mentre nella risposta ad quartum scrive: Tunc conscientia erronea non sufficit ad absolvendum, quando in ipso errore peccat. Che viene a dire peccare nello stesso errore? Se non che quando l'errore è colpevole, cioè quando la persona avverte all'obbligo di sapere il precetto e trascura di saperlo; poiché allora l'ignoranza non è più invincibile. Lo stesso insegna il Santo nel quodlib. 8, art. 15: Quandoque vero error conscientiæ non habet vim excusandi; quando scilicet ipse peccatum


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est. E così anche lo spiega il Gaetano, dicendo: Si, cum posset, noluit scire. A proporzione dunque della colpa che accompagna l'ignoranza, l'opera contro del precetto è colpevole. E quando dice S. Tomaso che pecca colui il quale tenetur scire præceptum e lo trasgredisce per ignoranza, s'intende (come dimostrammo nello stesso c. II, n. 3 e 4) o di quei precetti che non possono ignorarsi senza colpa, quali sono i precetti del decalogo; o pure s'intende dell'ignoranza volontaria o sia propria negligenza, come insegna S. Bonaventura: Nulla ignorantia potest habere rationem peccati, nisi ex negligentia oriatur. In spec. an., cap. 7. E lo stesso insegna S. Tomaso con S. Agostino, dicendo: Ignorantia quæ est omnino involuntaria non est peccatum. Et hoc est quod Augustinus dicit: Non tibi imputatur ad culpam si invitus ignoras, sed si scire neglexeris. Per hoc autem quod ait sed si scire neglexeris, dat intelligere, quod ignorantia habet quod sit peccatum ex negligentia præcedente, quæ nihil est aliud quam non applicare animum ad sciendum ea quæ quis scire tenetur. De ver., q. 7, art. 7. E posto che niuno, come dice S. Tomaso, è tenuto al precetto se non quando ne ha la scienza, pertanto allora pecca l'uomo in trasgredirlo quando il precetto è certo, ed egli per negligenza trascura di saperlo.


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10. Oppone per e dice che la legge eterna ha il possesso anteriore al possesso della nostra libertà; e perciò in dubbio dee preferirsi l'opinione che sta per la legge. Ma noi diciamo esser certo l'opposto, cioè che la libertà donata da Dio all'uomo possiede anteriormente all'obbligazione della legge. Così senza dubbio insegna ancora lo stesso Angelico Maestro: perché sebbene la divina legge è eterna, nondimeno nella mente di Dio l'uomo ancora è eterno e, prioritate rationis, da Dio è stato contemplato l'uomo antecedentemente alla legge; poiché, secondo la retta ragione e la natura delle cose, prima dal legislatore si considerano i sudditi e poi la legge proporzionata che dee loro imporsi. Dico proporzionata: perché Dio certamente fece una legge diversa per gli angioli ed un'altra diversa per gli uomini; ed intorno agli stessi uomini fece una legge diversa per li sacerdoti, un'altra per li secolari, una diversa per gli ammogliati, un'altra per coloro che non han moglie. Questa dottrina (dico) non è mia, è di S. Tomaso, il quale, 1, 2, q. 91, art. 1, fa il quesito: Utrum sit aliqua lex æterna. E poi ad primum vi fa questa obiezione: Videtur quod non sit aliqua lex æterna: omnis enim lex aliquibus imponitur: sed non fuit ab æterno cui aliqua lex possit imponi; solus enim Deus fuit


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ab æterno: ergo nulla lex est æterna. E risponde: Ad primum dicendum quod ea quæ in se ipsis non sunt, apud Deum existunt in quantum sunt ab ipso cognita et præordinata, secundum illud (Rom. 4): Qui vocat ea quæ non sunt, tamquam ea quæ sunt. Sic igitur æternus divinæ legis conceptus habet rationem legis æternæ secundum quod a Deo ordinatur ad gubernationem rerum ab ipso præcognitarum. 1, 2, q, 91, a. 1 d 1. Si notino le parole: rerum ab ipso præcognitarum. Ciò lo spiega diffusamente Bartolomeo Medina, in 1, 2, S. Thom., q. 91, pag. 485, dicendo: Lex imponitur illis qui existunt in se vel in esse cognito. E poi soggiunge: Creaturæ sunt Deo præsentes in æternitate, non tantum secundum esse cognitum, sed etiam secundum veras existentias et naturas reales. Sicché, prioritate rationis, prima da Dio fu contemplato l'uomo come libero, e poi fu considerata la legge che dovea legarlo. Per ragion d'esempio: Iddio ab æterno ha proibito l'omicidio, ma prioritate rationis prima considerò gli uomini liberi ed indi loro vietò che uno uccidesse l'altro.

 

11. Oppone per e dice: «L'uomo non possiede altra libertà, se non quella ch'è soggetta alla legge; onde nulla può fare, se non a norma di quanto ella prescrive.» Ma bisogna distinguere: l'uomo possiede bensì


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la sua libertà soggetta alla legge generale, cioè a quella legge che l'obbliga come creatura dipendente da Dio di dover ubbidire a tutti que' precetti che Dio gl'imporrà; e ciò non può negarsi. Parlando poi delle leggi particolari, quando elleno sono state già manifestate all'uomo, allora la di lui libertà non più possiede, ma è soggetta a quelle: ma ben la possiede sin tanto che quelle non gli sono abbastanza promulgate colla loro scienza, perché frattanto elle non obbligano. E questo appunto è quel che insegna S. Tomaso nel luogo a principio citato, 1, 2, q. 91, a. 4, dicendo che la legge non ha virtù d'obbligare, se non dopo ch'è applicata agli uomini, e che quest'applicazione si fa colla notizia che ricevono gli uomini della legge per mezzo della stessa promulgazione: Talis applicatio fit per hoc quod in notitia eorum deducitur ex ipsa promulgatione. Dunque, secondo S. Tomaso, è certo che l'uomo prima d'essergli notificata la legge non è legato da quella, ed in conseguenza possiede la sua libertà non soggetta a tal legge.

 

12. Oppone per e dice: «L'uomo prima si considera secondo la ragione e poi secondo la libertà o sia volontà. Or questa ragione, per esser retta, dee dipendere dalla legge divina; altrimenti se ella non si


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uniformasse alla legge, non sarebbe retta. Dunque se la ragione, essendo ella una participazione della legge divina, si considera prima della libertà, la legge prima della libertà possiede

 

13. Qui vi bisogna una risposta ponderata per togliere ogni equivoco; e qui mi varrò dello stesso modo con cui rispose il p. Bovio a questa vana obiezione. Nell'uomo debbon considerarsi due sorta di libertà: la libertà che dicesi fisica e quella che dicesi morale. La libertà fisica consiste nel poter fare alcun'azione o pure ometterla o vero far la contraria. Questa libertà presuppone già nell'uomo la ragione; ma a riguardo della libertà fisica la parola ragione altro non importa che la facoltà intellettuale, per mezzo di cui si rappresenta l'oggetto come appetibile o pure evitabile secondo le forze naturali, ma senza che s'induca necessità. La libertà morale aggiunge poi sopra la fisica il far quell'azione lecitamente o illecitamente. Questa seconda libertà anche presuppone nell'uomo la ragione, ma diversamente: poiché la parola ragione a riguardo della libertà morale dinota una cognizione che non rappresenta semplicemente la cosa come appetibile o evitabile, come la rappresenta nello stato di libertà fisica, ma la rappresenta secondo che la cosa è vietata o comandata


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dalla legge, la quale rende lecito o illecito quell'esercizio di libertà.

 

14. Ciò premesso, ognun vede che la libertà fisica è più ampia della morale: giacché la fisica si estende per quanto le voglie e le forze umane possono estendersi, laddove la morale è ristretta fra' termini delle leggi; con un restringimento però tale per cui l'uomo, quantunque perda il poter lecitamente fare, nulladimeno non perde il poter assolutamente fare tutto quello ch'è dentro la sfera de' suoi appetiti e delle sue forze naturali. Dunque se la libertà fisica è posta nel poter fare e la morale nel poter lecitamente fare, è cosa manifesta che la libertà fisica precede la morale: e la precede con priorità di natura; perché l'uomo può aver la facoltà di fare o di omettere alcun'azione senza che gli venga ristretta, ma non gli può esser ristretta questa facoltà, se prima non l'avea. Sicché la ragione della libertà morale è posteriore alla ragione della libertà fisica e da questa dipende: e perciò dice S. Tomaso che la legge presuppone le creature come precognite, cioè come costituite nella loro libertà fisica e secondo la ragione considerata nel primo modo.

 

15. Ora l'avversario vuole che il possesso stia per parte della legge, per causa che la libertà dell'uomo, come dice, è preceduta


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dalla ragione, e la ragione non è che una participazione della legge. Ma, gli si dimanda, di qual libertà e di qual ragione egli parla? Se parla della libertà fisica, non dice bene: perché certamente ciò si dee intendere della libertà morale, la quale è regolata da quella ragione ch'è participazione della legge, o, per meglio dire, da quella ragione che rappresenta la legge; poiché da quel che si è detto apparisce che la libertà fisica, la quale non ha per sua regolatrice la ragione che rappresenta la legge, ma la ragione che rappresenta le cose come appetibili e fattibili, secondo si è spiegato di sopra, questa libertà fisica (dico) precede la libertà morale e precede la ragione, regolatrice di questa libertà morale. L'uomo dunque è in possesso della sua libertà fisica, e quindi può secondo quella liberamente operare, finché però la ragione regolatrice della libertà morale col rappresentargli la legge vietante non gli restringa l'anteriore libertà fisica di poter far tutto il fattibile a più angusti termini del giusto e dell'onesto. Posto poi che l'uomo è in possesso della sua fisica libertà di eleggere quel che può fare, la rappresentazione della legge, affinché sia sufficiente a circonscrivere e limitare la libertà naturale, dee farsi con giudizio certo, e non basta che sia fatta con giudizio


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dubbio, qual nasce dal concorso di due opinioni probabili; perché allora la ragione regolatrice non già gli rappresenta la legge, ma il solo dubbio della legge, il quale non è legge.

 

16. In conclusione, per vedere se la ragione precede o no la libertà, bisogna vedere che cosa intendasi sotto nome di ragione. Se s'intende il raziocinio o sia la facoltà, che ha l'uomo quando giunge all'uso di ragione, di saper discernere le cose vere dalle false, concediamo che questa sorta di ragione precede la libertà e la volontà; ma questa ragione o sia raziocinio, nulla toglie alla libertà dell'uomo. Se poi per ragione s'intende l'attuale discernimento retto delle verità, allora neghiamo che tal ragione possiede prima della libertà; perché tal ragione non lega la libertà, se non dopo che gli è manifestata colla di lei cognizione. Ed in tal senso diciamo che l'uomo anche dotato di ragione nella mente divina è stato contemplato antecedentemente alla legge, come scrivemmo di sopra.

 

17. Oppone per e dice: «Da questo vostro principio (cioè che la legge incerta non può indurre un obbligo certo) non altro può dedursi, se non che quando vi sono due opinioni probabili l'azione non sia certamente proibita, ma non già che non sia


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neppure probabilmente proibita. Onde l'opinione che sta per


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la legge, se non indurrà un obbligo certo, l'indurrà almeno probabile. Onde non sarà mai lecita l'azione, perché manca il dettame moralmente certo; poiché, posta la probabilità eguale, dov'è mai la certezza morale?» La stessa opposizione mi fa l'anonimo autore della Regola de' costumi alla pag. 401.

 

18. Primieramente rispondo che, come si è provato nel cap. III dal n. 1, quando vi sono due opinioni probabili contraddittorie, allora niuna di loro resta probabile. Ma ripiglia l'anonimo e dice che in tal caso la opinione che sta per la legge, se non induce l'obbligo probabile, almeno induce obbligo dubbio. Ma a ciò rispondemmo già di sopra che quando vi sono due opinioni probabili, l'opinione che sta per la legge non induce altro obbligo che di deporre il dubbio; e questo dubbio certamente, secondo la sentenza comune di tutti, anche degli antiprobabilisti e dello stesso p. Patuzzi (siccome dimostrammo nel cap. III, al n.1 e seg.), ben può deporsi col principio certo riflesso.

 

19. Posto dunque che il principio riflesso, quando egli è certo, basta a rendere anche certo il dettame della coscienza, non vale più il dire che nel caso di due opinioni egualmente probabili l'opinione che sta per 


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la legge induce almeno obbligo dubbio, il quale impedisca l'operare per ragione che allora non posiamo esser certi dell'onestà dell'azione. Perché si risponde che o allora non v'è alcun principio riflesso certo, e certamente non si può operare, standosi in dubbio; o vi è il principio riflesso, ed allora per mezzo di tal principio già si ha la certezza dell'onestà dell'azione per lecitamente operare. Onde, senza andar più rintracciando raggiri ed equivoci, tutto il punto sta a vedere se i due principj da me difesi sieno veri o falsi. Sì signore, dicono i miei avversarj, questi due vostri principj sono falsi, falsissimi. Dunque, io ripiglio, dicano sempre essi miei avversarj che i principj sono ambedue falsi (si trovino però chi ciò gliel'approvi, perché non basta che lo dicano, bisogna che ancora lo provino); ma a che serve far tante opposizioni, le quali tutte non hanno luogo, sempre che son veri i detti miei principj o almeno uno di essi? Io all'incontro creo di avere di sovra troppo chiaramente provato ch'essi sono verissimi e certissimi: e perciò dico che la legge, atteso il tutto, finché non è conosciuta come certa, non induce obbligo né certo né dubbio.

 

20. Dico: atteso il tutto; perché se la legge nel caso di due probabili inducesse


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almeno obbligo dubbio, come dice l'anonimo, allora in effetto, atteso il tutto, ella indurrebbe non solo obbligo dubbio, ma certo, se non direttamente, almeno indirettamente; poiché stante l'obbligo dubbio indotto dalla legge dubbia, ancorché avessimo principj certi riflessi da potervi appoggiare il dettame, neppure noi potremmo lecitamente operare contro la legge dubbia. Ma noi diciamo che, atteso il tutto, cioè attesi i principj riflessi certi da noi provati o almeno uno di essi che fosse vero, la legge dubbia non induceobbligo certo né obbligo dubbio. Se dunque i contrarj non giungono a provare che ambedue i principj da me difesi per certi sono falsi, non giungeranno mai ad abbatter la nostra sentenza. Oh! se si togliessero di mezzo gli equivoci che non servono ad altro che a confonder la mente di chi legge, crederei che sarebbe finita la lite.

 

21. In quanto dunque alla forza intrinseca delle ragioni (alla quale principalmente nelle sentenze dee aversi riguardo) io credo, e lo credono tanti altri meco, averla già convincente ed evidente. In quanto poi all'autorità estrinseca che tanto mi oppone il p. Patuzzi, dico primieramente ch'io sempre ho tenuto e tengo, giusta la dottrina comune de' dottori, che dove le ragioni intrinseche sono convincenti, poco o niun peso dee


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fare l'autorità estrinseca opposta; se pur ella non fosse comune di tutti o quasi tutti gli uomini dotti e specialmente versati nelle controversie della materia di cui si tratta: poiché l'autorità estrinseca altro non opera che di far presumere l'intrinseca. Onde di qual peso mai notabile può essere l'estrinseca quando l'intrinseca si scorge manifesta e convincente? E ciò tanto più vale nel caso nostro, in cui si vede che i fautori della sentenza rigida niente adequatamente rispondono alle ragioni della nostra sentenza; ed all'incontro gli argomenti che adducono per la sentenza loro, se provassero, proverebbero che necessariamente deve seguirsi lo stesso tuziorismo. Parlando poi di coloro che non hanno scritto di proposito per lo rigido sistema, ma solamente l'approvano, io stimo tutti per più savi di me, ma dico che allora costoro mi farebbero maggior peso quando sapessi che hanno ben ponderati i fondamenti e motivi dell'una e dell'altra sentenza: ma di ciò io molto ne dubito e con molta ragione, mentre vedo che gli stessi scrittori della sentenza da essi approvata o poco hanno esaminate le nostre ragioni o vi han risposto con equivoci e fallacie, alle quali ognuno che ha senno facilmente può rispondere. Aggiungo che tali approvatori circa il punto della nostra controversia per


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lo più si sono regolati coi motivi diretti, ma poco o niente certamente si sono applicati a considerare i riflessi, di cui noi ci vagliamo: i quali benché appariscano chiari e certi ad ognuno che di proposito gli pondera, nondimeno richiedono essi molta riflessione: la quale riflessione io tengo per certo che non siasi fatta da tutti coloro che si dichiarano antiprobabilisti. Ma passiamo avanti, perché la materia è odiosa, e poco in ciò posso spiegarmi. Dico in secondo luogo che l'autorità estrinseca (checché dicasi il p. Patuzzi), come vedremo appresso, assiste molto più alla sentenza nostra che alla sua.

 

22. Ma prima di terminar questo capitolo debbo sciogliere un altro equivoco de' miei avversarj. Oppongono così: quando l'azione è dubbiamente proibita ed è dubbiamente illecita, come poi in pratica diverrà certamente non proibita e certamente lecita? Ecco come qui essi confondono il proibito coll'illecito. Noi diciamo che quando la legge è dubbia vi è sì bene ancora il dubbio se l'azione sia proibita o no: ma non perché l'azione è dubbiamente proibita perciò ancora in pratica è dubbiamente illecita; mentre, posto che siano veri i principj da noi addotti, o almeno uno di essi, benché l'azione (speculativamente parlando) fosse dubbiamente proibita, in pratica però si fa


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certamente lecita per la certezza riflessa che da' detti principj ne risulta. E questo è quel che dicono gli stessi signori Ballerini, come abbiam riferito di sovra (al cap. I, n. 3): Reflexa principia particularem quæstionem non solvere, sed incertam relinquere; sola praxis certa est, eo quod principia reflexa praxis in eo dubio dirigendæ certam regulam figant. Torniamo dunque a dire che, se non si confutano prima i detti principj, tutti questi equivoci cadono a terra.

§ II.

Si risponde ad altre opposizioni fatte al secondo principio.

 

23. Ambedue i mentovati miei avversarj oppongono di più, ma con maggior calore l'anonimo alla pag. 404 dice che l'ignoranza allora solo è invincibile quando noi non abbiam alcun motivo di dubitare dell'onestà dell'azione. Onde argomenta poi così: Come può scusarsi dal peccato chi fra due opinioni probabili opera colla meno sicura, avendo già gravi motivi di dubitare che quell'azione sia illecita? E soggiunge che a quest'opposizione i probabilisti finora non han data risposta alcuna adequata; né (come scrive) la possono dare, dicendo la Scrittura: Qui amat periculum, in illo


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peribit. Eccli. 3, 27. Al che il p. Patuzzi aggiunge il passo di S. Tomaso: Quicumque committit se discrimini peccati mortalis, mortaliter peccat. Quodl. 9, a. 15. Quanto ci dispiace di dover sempre replicar la stessa cosa! Ma rispondiamo prima all'anonimo. Noi non diciamo che chi opera coll'opinione benigna egualmente probabile non pecca perché ignora invincibilmente la legge, ma non pecca perché in tal caso ignora invincibilmente la certezza della legge: e supposto per certo il principio che la legge dubbia non induce alcun obbligo, perciò lecitamente opera. Onde (replico) il punto sta a vedere se il principio è certo o no: perché, dato che sia certo e vi è l'ignoranza invincibile della certezza della legge, certamente, quando la legge è dubbia, l'operante non pecca. In quanto poi al testo, che sempre si mette innanzi da' tuzioristi, - Qui amat periculum, in illo peribit - dico che, per intendere il vero senso del testo e di che parli, bisogna riflettere alle parole antecedenti. Il testo dice: Cor durum habebit male in novissimo; et qui amat periculum, in illo peribit. Eccli. 3, 27. Sicché ivi si parla di coloro che mettonsi a rischio di dannarsi col persistere in peccato sino alla morte. Così lo spiegano tutti e specialmente il Calmet: Homo in scelere contumax suprema die


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miserrimus erit; cumque periculum amaverit, in eo peribit. Il passo poi di S. Tomaso dee intendersi dell'ultimo dettame pratico della coscienza, come lo stesso Santo spiega in un altro luogo, in 4, dist. 21, q. 2, a. 3 ad 3: Qui aliquid committit vel omittit in quo dubitat esse peccatum mortale, discrimini se committit. Dunque allora, dice S. Tomaso, l'uomo pecca mortalmente quando opera coll'ultimo dettame dubbioso, cioè quando fa o tralascia qualche cosa col dubbio pratico di peccar mortalmente, in quo dubitat esse peccatum. Chi non vede che certamente pecca mortalmente quegli che fa un atto in cui dubita praticamente esservi il peccato mortale? L'esporsi a tal pericolo senza formarne l'ultimo dettame certo, chi può negare che sia colpa egualmente grave alla colpa di cui dubita? Ma non può intendersi di chi opera contro una legge dubbia, mentre il medesimo Santo dice: Nullus ligatur per præceptum, nisi mediante scientia illius præcepti.

 

24. E così dee intendersi ancora il passo di S. Antonino rapportato dall'anonimo, dove il Santo dice che quando vi è qualche dubbio probabile per esser le ragioni eguali dall'una e dall'altra parte, allora è peccato grave l'esporsi a tal dubbio: De probabili hîc loquitur, cum scilicet rationes sunt ad


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utramque partem quasi æquales; et peccatum grave est se exponere tali dubio, ubi est mortale. P. 1, tit. 20, cap. unic., § 16 In dub. etc. Parla qui il Santo dell'ultimo dettame, cioè di chi dubita praticamene di peccar mortalmente in quell'azione che fa. E ciò lo spiega appresso quando parla del dubbio scrupoloso, distinguendolo dal probabile, e dice: Est aliud (dubium) scrupulosum, ubi scil. ex levi suspicione timet quis esse in aliquo actu peccatum. Si noti: in aliquo actu. Sicché S. Antonino, parlando del dubbio probabile, secondo il contesto parla ivi del dubbio pratico che abbia la persona attualmente nel fare qualche atto. Questo stesso lo spiega più chiaramente il Santo in altro luogo, p. 1, tit. 3, cap. 10, § 10 Sexta regula, dichiarando appunto il testo di S. Tomaso opposto di sopra: B. Thomas et alii dicunt quod ille qui agit id de quo est dubium utrum sit mortale, peccat mortaliter, quia periculo se exponit mortali. Cum ergo sunt contrariæ opiniones, qui adhæreret opinioni latioris viæ videtur se exponere periculo mortalis, quia in dubio, cum possit illa opinio esse falsa, et contraria vera. Sed ad hoc respondetur quod utique ille qui agit scienter id de quo dubitat esse mortale, permanente dubitatione, mortaliter peccat. Si noti: permanente dubitatione


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ecco come sempre intende di parlare il Santo del dubbio pratico: ma non parla del dubbio speculativo, che può deporsi coll'ultimo dettame certo, formato per altri motivi riflessi; altrimenti il Santo si contraddirebbe, mentr'egli dice chiaramente in altro luogo (come vedemmo al cap. III, n. 23 e 24, e come vedremo qui appresso al cap. V, n. 2 e seg.) che ne' dubbj speculativi non è di precetto, ma solo di consiglio la regola di dover seguire la parte più tuta.

 

25. Ma diranno: chi si espone a pericolo di trasgredire la legge, pecca, perché già disprezza la legge. Oh che grande equivoco è questo de' contrarj, il quale a prima vista par che ingombri la mente, ma non ci vuol troppo a sgombrarlo! Di questo equivoco già ne parlammo al cap. III, n. 8, ma giova qui di nuovo dicifrarlo. Altro è il pericolo di commettere un'azione che certamente è illecita: altro è il pericolo di fare un'azione di cui si dubita (speculativamente parlando) se sia lecita o illecita. Quando io mi espongo al pericolo di fare un'azione certamente illecita, allora offendo una legge certa: poiché quella stessa legge che mi proibisce l'azione, certamente mi proibisce ancora di espormi al pericolo prossimo di commetterla; sicché allora, esponendomi io a quel pericolo, disprezzo una legge certa, e perciò


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non posso essere scusato dal peccato formale. Quando all'incontro io mi espongo al pericolo di fare un'azione che dopo le dovute diligenze non ritrovo certamente illecita, allora non pecco; perché se mai vi fosse in verità la legge che la proibisce, allora io trasgredisco una legge dubbia, la quale non obbliga: sicché io non disprezzo allora la legge, perché se mai ella v'è, trasgredisco una legge che non obbliga, e ad altro pericolo non mi espongo che di commettere un peccato materiale, che da Dio non s'imputa a colpa, come già di sovra più volte si è provato.

 

26. Ma il p. Patuzzi mette in altro aspetto questa medesima opposizione e discorre così: è certo che non si può operare col dubbio pratico, perché, esponendosi l'uomo al pericolo di peccare, già peccherebbe; dunque allorché vi sono due opinioni probabili neppure può seguire la meno sicura, perché già si esporrebbe al pericolo di trasgredire la legge ed in conseguenza di offendere Dio. Ma adagio, ché in questa conseguenza sta l'equivoco. Altro è il pericolo di trasgredire materialmente la legge se mai ella esiste, altro è il pericolo di peccar mortalmente quando si opera coll'opinione egualmente probabile. Se allora si operasse in vigor della sola opinione probabile, sicché si operasse


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col dubbio pratico di peccare mortalmente, certamente in tal caso si peccherebbe mortalmente: ma non quando si opera col dettame certo formato sopra del principio riflesso che la legge dubbia non obbliga perché non è abbastanza promulgata e perché la legge incerta non può indurre un obbligo certo; poiché allora, quantunque si operi col dubbio speculativo, non si opera col pratico; mentre col principio certo riflesso già formasi il dettame moralmente certo dell'onestà dell'azione, e certamente allora non si pecca.

 

27. Ma che dicono gli avversarj? Dicono che, quando la legge è dubbia, chi si mette a pericolo di trasgredirla, certamente pecca, per lo testo: Qui amat periculum, in illo peribit. A ciò più volte già si è risposto, e specialmente al n. 23. Ma se questo testo si avesse da intendere a modo loro, dunque, io ripiglio, affin di evitare questo pericolo sarà sempre necessario attenersi al tuziorismo stretto, cioè di operare colla certezza morale assoluta e libera da ogni timore che quell'opinione sia falsa. No, essi rispondono; basta che quell'opinione sia probabilissima, mentre è stata già condannata da Alessandro VIII la proposizione opposta che diceva: Non licet sequi opinionem vel inter probabiles probabilissimam. Dunque, io dico


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primieramente, da ciò si deduce, non esser vera la sentenza che quando la legge è dubbia pecca chi si espone al pericolo di trasgredirla; poiché, anche operando colla probabilissima, si mette al pericolo (benché più rimoto) di trasgredire la legge.

 

28. Ma inoltre dico (e qui facciamo un poco di pausa) che chi crede non esser mai lecito esporsi a pericolo di offender la legge e dice all'incontro potersi seguire l'opinione meno sicura solamente quando è probabilissima, difficilissimamente ed appena mai potrà indursi con coscienza quieta a seguirla, se non la ritrova strettamente certa e libera da ogni formidine che non sia vana ed imprudente. E la discorro così. L'opinione probabilissima è quella che quantunque occupa il supremo grado di probabilità, non eccede però i confini della probabilità, secondo i termini già della stessa proposizione dannata che diceva: vel inter probabiles probabilissimam; e perciò, come dicono comunemente i dottori, l'opinione probabilissima (che anche si chiama moralmente certa ma largamente parlando) non esclude ogni prudente formidine di esser falsa: a differenza dell'opinione o sia sentenza assolutamente certa, la quale esclude ogni prudente timore. Se dunque l'opinione probabilissima non esclude ogni prudente timore, l'opinione


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opposta alla probabilissima non è già la tenuamente probabile; perché la tenue probabilità non è probabilità, ma è solo una certa falsa apparenza o sia vana apprensione di probabilità, che non può produrre alcun timore prudente, ma solo qualche timore imprudente, e l'imprudente timore non è timore che possa recar alcun pericolo di peccato. Gli stessi tuzioristi rigidi e stretti dicono comunemente che tali timori imprudenti debbono disprezzarsi e di loro non aversene conto. Sarebbe in verità troppa sciocchezza il dire che Dio c'imponga d'evitare anche i timori vani ed irragionevoli. Sicché, se non vogliamo confondere l'opinione probabilissima coll'assolutamente certa, bisogna dire che l'opinione opposta alla probabilissima non è la tenuamente probabile, ma è la dubbiamente probabile, la quale ha qualche prudente motivo di esser vera, siccome la probabilissima (come abbiam detto) ha qualche prudente formidine d'esser falsa. Ora dico: posto che l'opinione che sta per la legge, opposta alla probabilissima che sta per la libertà, è dubbiamente probabile ed ha qualche motivo prudente, benché non tutto fermo, d'esser probabile, come, dimando, chi tiene esser illecito esporsi al pericolo di trasgredire la legge, volendo seguir la probabilissima per la libertà, potrà in pratica indursi


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con coscienza sicura a creder fermamente che l'opinione per la legge non sia veramente probabile e quindi a servirsi della probabilissima senza timore di porsi a pericolo di offender la legge? Ove troverà una tal bilancia che l'assicuri che quell'opinione che sta per la legge non per certo abbia già tanti carati di probabilità che giunga ad esser probabile, e così egli possa operar sicuramente e senza pericolo? Perciò ripeto quel che dissi da principio, che chi crede non potersi seguire un'opinione meno sicura, se non è probabilissima, stando nel dubbio che l'opinione per la legge sia probabile, con molta difficoltà potrà indursi con coscienza quieta ad operare, se non abbraccia lo stesso tuziorismo, che solamente è libero da ogni timore e pericolo di offender la legge.

 

29. Seguendo poi il p. Patuzzi a parlare con disprezzo de' mentovati fondamenti o siano principj della nostra sentenza, li chiama principj fatti a capriccio, chimere e ghiribizzi (non sa con quai nomi più disprezzanti vituperarli); e soggiunge esser necessario ch'io «confessi il contrario, qualora non voglia a bello studio accecarmi per non vedere la verità.» E poi dimanda: «Perché non dissero questi santi dottori (S. Agostino e S. Tomaso) che ne' detti casi, essendo la legge dubbia, o non v'è la legge o non poteva indurre


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obbligazione certa, come dite voi, monsignoreRisponde monsignore e dice che non importa che S. Agostino e S. Tomaso non abbiano approvato in termini espressi il principio che la legge dubbia non obbliga perché non è abbastanza promulgata. In quanto a S. Agostino si osservi quel che ne abbiamo rapportato nel cap. III, n. 22. In quanto poi a S. Tomaso bastava aver detto il Santo, come riferimmo di sovra, che la legge, essendo una regola che s'impone all'uomo, acciocché si regoli con quella, bisogna che questa legge gli sia promulgata colla di lei notizia; mentre la legge non è altro che ordinatio rationis promulgata, come la diffinisce lo stesso Santo. Che perciò, parlando poi della legge naturale, dice che la di lei promulgazione si fa quando Iddio l'inserisce nelle menti degli uomini e la a conoscere ad essi col lume naturale. Or questa notizia (giacché per suo mezzo si fa la promulgazione) dee essere una notizia certa, non già dubbia, come sarebbe quando sono probabili ambedue le opinioni contrarie; la ragione è chiara, perché allora non resta già sufficientemente promulgata la legge, ma solamente vien promulgato il dubbio della legge. E perciò lo stesso Maestro Angelico in più luoghi, 1, 2, q. 19, a. 4 ad 3, et qu. 91, a. 3 ad 3, dice che la legge, essendo


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la misura con cui ciascuno dee misurarsi, dee essere certissima: Mensura debet esse certissima. Parlando poi dell'altra ragione, che la legge incerta non può indurre un obbligo certo, quantunque S. Tomaso non dica quelle proprie parole, dice nonperò che le creature sono state considerate da Dio antecedentemente alla legge ordinata al governo di esse: Æternus divinæ legis conceptus habet rationem legis æternæ secundum quod ordinatur ad gubernationem rerum ab ipso præcognitarum. Q. 91, a. 1 ad 1. Se dunque prima è stato contemplato l'uomo e poi la legge, dunque l'uomo prima è stato contemplato libero e poi sciolto; sicché la libertà dell'uomo, essendo certa, non può esser legata che da una legge certa. Di più dice S. Tomaso: Sicut in corporalibus agens corporale non agit, nisi per contactum, ita in spiritualibus præceptum non ligat, nisi per scientiam. Unde nec ex imperio alicujus domini ligatur aliquis, nisi imperium attingat ipsum per scientiam. Unde nullus ligatur per præceptum aliquod, nisi mediante scientia illius præcepti. De verit. p. 17, a. 3. Se poi sotto la voce di scienza del precetto possa intendersi anche la sola notizia dubbia del precetto, qual è quella che si ha da due opinioni contrarie egualmente probabili, come pretende il p. Patuzzi, lo lascio alla


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considerazione de' dotti, se mai può sussistere contro quel che si è detto nel cap. IV, al n. 6.

 

30. Oppone di più che quando vi sono due opinioni egualmente probabili, una per la legge, un'altra per la libertà, non può darsi ignoranza invincibile della legge, e perciò non può mai aversi il dettame moralmente certo dell'onestà dell'azione. Quindi propone per parte mia questo argomento: «È certo (mi fa dire) esser lecito di seguire l'opinione probabile, qualora tra due opinioni probabili, chi seguita la meno sicura, se per avventura errasse, fosse invincibile la sua ignoranza. Ora così è, che chi erra seguendo tra due opinioni egualmente probabili la meno sicura, il suo errore proviene da ignoranza invincibile. Adunque certamente è lecito di seguire tra due opinioni egualmente probabili la meno sicura. Non è questo, monsignore, l'argomento vostro?» E poi risponde col negar la minore, cioè che chi erra seguendo l'opinione meno sicura, il suo errore provenga da ignoranza invincibile. E lo prova con un passo del p. Segneri, dove dice il Segneri che l'ignoranza non è invincibile sempre che vi è qualche motivo prudente di dubitare dell'onestà dell'azione.

 

31. Ma a questo equivoco già risposi nel cap. III, al n. 10, prevenendo gli equivoci


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che poteano cadere nella presente materia. Noi non diciamo che chi opera coll'opinione egualmente probabile meno sicura è scusato dalla colpa (se mai fosse vera l'opinione più sicura) perché ignora invincibilmente il dubbio che possa esservi la legge, ma perché ignora invincibilmente la certezza della legge. Onde ben anche può dirsi che finché dura il conflitto delle due opinioni egualmente probabili è invincibile l'ignoranza della legge, perché non può certamente affermarsi ch'ella vi sia. Posto poi che la legge è dubbia, ella certamente non è a sufficienza promulgata, e perciò non obbliga: e su questo principio riflesso fondasi poi la certezza morale in seguire l'opinione meno sicura. E questa appunto è la risposta che il p. Gonet a Fagnano, il quale volea che tra le due probabili necessariamente dee seguirsi la più sicura, perché allora non v'è più ignoranza invincibile della legge. Ma risponde il p. Gonet: Eum qui, facta sufficienti diligentia ad inquirendam veritatem, agit ex opinione probabili quando alia probabilior ei non occurrit, non agere ex conscientia practice dubia, subindeque nullî peccandi periculo se exponere; quia tunc certificatur moraliter per judicium reflexum, quod habet dicens: Qui facit totum quod in se est ad inquirendam veritatem, et illam consequi non valet,


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excusatur ratione ignorantiæ invincibilis. Quod principium est omnino certum et unanimi fere theologorum omnium consensu firmatum Manual. to. 3, tract. 3, cap. 16 circa fin. Sicché il p. Gonet (prescindendo dal come e quando egli ammetta o no l'uso delle opinioni probabili) per quel che s'appartiene al presente dubbio suppone per principio certo e comune de' teologi che quando si ignora la certa esistenza della legge, ancorché vi sia il pericolo di trasgredirla, s'ella per caso mai esiste, allora la legge non obbliga, e noi siamo scusati, perché l'ignoranza è invincibile, e pertanto possiamo servirci dell'opinione meno sicura. Lo steso scrive il p. Francesco Henno probabiliorista, tr. 2 de consc., d. 3, q. 3, art. 7, opp. 3, dicendo che allora scusa l'ignoranza invincibile, non importando che vi sia il pericolo del peccato materiale. Onde non è l'argomento mio, come lo propone il p. Patuzzi. Se egli volea favorirmi in far le mie parti, dovea proporlo così: «La legge per obbligare dee esser promulgata a sufficienza, e perciò dee esser promulgata come certa; altrimenti sarà promulgato il dubbio della legge, ma non la legge. Ora quando vi sono due opinioni egualmente probabili contrarie, allora la legge non è promulgata a sufficienza e come certa, e perciò v'è l'ignoranza


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invincibile della certezza della legge. Onde in tal caso la legge non obbliga, e ben possiamo servirci dell'opinione meno sicura, perché v'è l'ignoranza invincibile della legge obbligante

 

32. Gli esempi poi addotti dal p. Patuzzi dell'uomo di corta vista, del quale non può dirsi che abbia ignoranza invincibile del pericolo di cadere in una fossa, perché non ravvisa con certezza la fossa, o del cacciatore che dubita se quel che vede nella selva sia uomo o fiera, scoccando la saetta ed uccidendo un uomo, non può valergli la scusa che non sapea certamente che quegli fosse uomo. Questi esempi, dico, niente già concludono a favore della rigida sentenza; perché ivi si tratta di dubbio di fatto e non di diritto, come già premettemmo da principio nel cap. I, al n. 9. Se in quel luogo vi è la fossa, colui, passando avanti, certamente vi cade, sebbene non avesse avuto alcun sospetto che ivi è la fossa. Chi uccide l'uomo nella selva, ancorché certamente l'avesse creduta fiera, se l'uccide, uccide un uomo: onde chi dubita che ivi sia la fossa o che quegli sia uomo, cadendo o uccidendo, non può essere scusato dalla colpa; perché in tali casi io offendo la legge certa che mi proibisce di metter me o il prossimo a probabil pericolo di morte senza precisa necessità. Ma chi poi


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non ha certezza della legge, trasgredendola, non offende Dio, perché trasgredisce una legge che non obbliga, e per conseguenza una legge che propriamente non è legge, mentre dice S. Tomaso che l'obbligare è proprietà essenziale della legge. Il p. Suarez, 1, 2, to. 3, d. 12, sect. 6, distingue così: altro è quando il dubbio è circa l'operante, altro è quand'è circa l'opera. Ed altro è quando si parla del pericolo nell'operare, altro quando del pericolo che essenzialmente è annesso alla cosa. Una morale certezza che il mio operare sia onesto mi libera da ogni pericolo di peccato, ancorché errassi; perché nasce l'errore da ignoranza invincibile. All'incontro qualunque probabilità ed anche morale certezza che un cibo non sia avvelenato, che nella via non vi sia il mio nemico, quand'io errassi, non mi libera dalla morte. E perciò in materia di medicina e di valore di sacramenti non può seguirsi l'opinione probabile; perché quantunque ella sia probabile e più probabile, se la medicina è nociva e se il sacramento è invalido, la probabilità non impedisce la morte dell'infermo o la nullità del sacramento. Così dice il p. Suarez, e credo che non può spiegarsi meglio la differenza che passa tra il pericolo di peccare, che dipende dal dettame della coscienza dell'operante, e il pericolo del danno, che dipende 


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dal fatto della stessa opera. Del resto io per me non intendo perché dai probabilioristi (diciamo meglio, da' tuzioristi moderni) tali paragoni sempre si mettano in campo, dopo che tante volte vi si è risposto e si è dimostrato ad evidenza che non fanno al caso. La distinzione di dubbio speculativo e pratico e di legge certa e dubbia, scioglie tutte queste e simili opposizioni.

 

33. Di più mi contrasta quel che scrissi nella mia dissertazione, ove io dissi così: «Ma replica l'autor moderno e dice: quando vi sono due opinioni probabili è illecito seguir la benigna, se non in vigor della legge, ch'è incerta, almeno in vigor del principio tenuto dagli stessi probabilisti, cioè che ad operar lecitamente non basta il giudizio probabile, ma è necessario il giudizio certo dell'onestà dell'azione.» E poi risposi: «Dunque, sempre che non è vietato il seguire l'opinione benigna in vigor della legge per esser ella incerta, allora manca il legame dal quale resti legata la libertà dell'uomo, ch'è certa: e perciò, non essendovi allora legge che obblighi, resta la libertà nel suo possesso; e per conseguenza l'azione è certamente onesta, giusta l'assioma di Giustiniano ricevuto da tutti: Cuique facere libet, nisi id a jure prohibeatur. Instit. de jure person. § 1. E come insegna ancora S. Tomaso


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per principio certo, dicendo: Illud dicitur licitum quod nulla lege prohibetur. In 4 sent., dist. 15, q. 2, a. 4 ad 2.

 

34. Ora a ciò replica il p. lettore nella presente risposta: «Ma quando vi sono due probabili, dee osservarsi la legge, benché dubbia, se non in vigore di lei, almeno perché a servirsi dell'opinione men tuta vi bisogna il giudizio certo dell'onestà, il quale non può aversi quando le opinioni sono egualmente probabiliRispondo che quantunque non può aversi questo giudizio certo dalla probabilità dell'opinione men sicura, si ha nondimeno dal principio riflesso provato di sopra che la legge dubbia non obbliga; e non essendovi legge che mi obblighi ad astenermi da quell'azione, io son certo che lecitamente opero: risposta mille volte replicata.

 

35. Il p. lettore, dopo aver confutata, come pretende, la mia dissertazione colle ragioni, le quali tutte si sciolgono col dire che poi nell'operare non ci serviamo dell'opinione probabile per lo motivo diretto perché è probabile, ma per lo principio riflesso che la legge dubbia non obbliga, cerca poi di confutarla colle autorità. Ma è una cosa molto difficile il confutare una sentenza colle prove estrinseche quando le sue ragioni intrinseche son certe. Egli comincia a confutarla


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colle Scritture con cui ci viene imposta l'osservanza esatta delle leggi divine: Quod præcipio tibi, hoc tantum facito, nec addas quidquam vel minuas. Dominus Deus tuus præcepit tibi ut facias mandata hæc... et custodias et impleas ex toto corde. Deuter. 26, 16. Serva mandata mea, et vives, et legem meam quasi pupillam oculi tui. Prov. 7, 2. Tu mandasti mandata tua custodiri nimis. Psal. 118, 4. Omnia... probate: quod bonum est tenete: ab omni specie mali abstinete. 1 Thess. 5, 21 et 22. Come poi il p. lettore da queste Scritture ricavi che debbano rigorosamente osservarsi anche le leggi incerte, io non lo so. Io non so altro ricavarne se non che siamo obbligati in primo luogo ad usar diligenza per indagar la verità circa le nostre azioni, cioè se quelle siano proibite o non da qualche legge certa, e, trovando la legge certa o moralmente certa per una opinione molto più probabile che non è la contraria, siam tenuti con tutta l'esattezza ad osservarla; ma non già che siam tenuti ad osservare anche i precettj dubbj, che non sappiamo se Iddio a noi gli ha imposti o no. Io tengo per certo che in tanta varietà di mille e mille dubbj che possono sorgere nelle menti umane per l'oscurità cagionata alla natura dal peccato originale, Iddio non ha voluto obbligare gli uomini ad osservare anche le


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leggi incerte, che si moltiplicherebbero quanti sono i dubbj che possono occorrere circa le leggi. Se la natura umana avesse quei lumi chiari che avea prima del peccato, scorgerebbe distintamente la verità delle cose. Ma da che ella è stata ottenebrata nelle sue cognizioni per cagion della colpa, non vede se non di rado le verità come sono e sempre dubita. Onde se avesse il peso di osservare non solamente le leggi certe, ma anche le dubbie, sarebbe un peso intollerabile e moralmente impossibile alla debolezza umana: poiché dovrebbe osservare non solo le leggi certe, ma (come ho detto) tante altre leggi, quanti sono tutti i dubbj che si rappresentano alla mente; i quali dubbj sono innumerabili per la maggiore o minor cognizione delle menti umane e per la moltitudine degli accidenti e delle circostanze de' casi.

 

36. Ma noi finalmente, dice il p. Patuzzi, abbiamo la massima certa de' canoni che dice: In dubiis tutior via eligenda est. Ecco l'Achille ove finalmente si riducono i nostri avversarj. Ma io dimostrerò nel seguente capitolo che tal massima de' canoni niente osta a' nostri principj. Vediamolo.

 




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