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S. Alfonso Maria de Liguori
Dichiarazione del sistema...azioni morali

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APPENDICE - CONCLUSIONE DI TUTTO QUEL CHE SI È DETTO IN QUESTA OPERETTA.

1. La nostra sentenza in somma sovra le opinioni morali è questa: che la legge divina non obbliga se non è promulgata; e perché quando la legge è dubbia non può dirsi promulgata, pertanto diciamo che quando la legge è dubbia, ella non obbliga. A questa sentenza, che non è mia ma di S. Tomaso, come troppo chiaramente si è provato, si oppone l'autore delle dissertazioni sul diritto della natura e dice (nel tom. 2, diss. VI, n. 6) ch'egli non nega che la legge non abbastanza promulgata non obbliga, ma soggiunge che ciò corre per le leggi positive ed anche positivo-divine, ma non per la legge o sia diritto naturale, che nasce dalla stessa natura umana e colla stessa natura si promulga all'uomo abitualmente, cominciando ad obbligarlo dacché è uomo. Quindi siegue a dire che nel caso di due opinioni eque-probabili si dee stare all'opinione per la ragione, cioè, com'egli intende, per lo diritto o legge naturale, che possiede il cuore dell'uomo sin dal primo suo essere. Egli dunque fonda questa sua conclusione


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sovra il sistema da lui sostenuto nel suo libro, che la ragion naturale o sia legge, che nasce dalla stessa natura degli enti ragionevoli, gli obbliga a seguire una tal ragione o sia dritto indipendentemente dalla volontà divina, come dice, e lo replica in più luoghi.

2. Ma in ciò gli si oppone Giovanni Eineccio, lib. 1 de jur. nat. et gent., cap. 3, § 65, dove scrive che la legge naturale non nasce già dalle nature de' soggetti, ma dalla sola volontà di Dio, la quale regola tutte le azioni non solo umane ma anche divine: Cumque (sono le sue parole) hæc divina voluntas seu lex divina naturalis omnis justitiæ sit fons et principium, sequitur ut omnis actio non modo humana sed et divina, huic voluntati divinæ attemperata, justa sit. osta, soggiunge, il dire: dunque, fuori della volontà di Dio non vi è alcuna sua giusta azione; poiché risponde che la volontà di Dio non può seguire se non il giusto. Ma qui lo convince il nostro riferito autore, e con ragione, poiché dice: se la volontà di Dio non può seguire se non il giusto, dunque prima della divina volontà vi è in Dio la giustizia naturale, che non già nasce dalla sua mera volontà ma dalla stessa natura sua divina, la quale è sommamente retta. Da ciò poi ne deduce che


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siccome le azioni giuste di Dio hanno il lor principio dalla divina rettitudine o per conseguenza dalla sua divina ragion naturale, così le azioni degli uomini, che son fatti ad immagine di Dio, secondo l'ordine naturale in tanto son giuste od ingiuste, in quanto si accordano o discordano colla ragion naturale, che nasce dalla stessa loro natura, indipendentemente dalla legge divina rivelata o sia dalla volontà di Dio, che tal ragione naturale ha poi costituita legge.

3. Per rispondere adequatamente a tutto, bisogna distinguere i punti. Primieramente bisogna esaminare che cosa intende l'autore per ragione nascente dalla natura de' soggetti. Se intende per ragione la stessa e vera legge naturale, siamo d'accordo, essendo certi che noi siam tenuti a vivere secondo la legge naturale, che certamente è legge divina e dipende dalla divina volontà, che a noi viene intimata per mezzo del lume impressoci da Dio, come dice S. Tomaso; e secondo questa legge divina noi dobbiamo regolar le nostre azioni. Se poi intende per ragione il dettame umano che per mezzo della nostra mente ci palesa la ragion naturale, non dice bene il nostro avversario che siccome Iddio ha per norma e siegue la sua ragion naturale, così noi dobbiam seguire la ragione che ci vien dettata dalla


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nostra natura indipendentemente dalla divina volontà: perché diciamo esservi una infinita differenza tra la ragion naturale che si presenta a Dio nata dalla sua natura divina e la ragion naturale che si presenta all'uomo nata dalla sua natura umana; poiché la ragione di Dio è somma, perfettissima, chiarissima ed infallibile, onde Iddio non può operare se non a norma di tal sua natural ragione; ma la ragion naturale che nasce dalla natura dell'uomo, ella (come si è detto) è oscura, ambigua e fallibile; mentre l'uomo è naturalmente fallibile: tanto più che al presente la natura umana trovasi corrotta dal peccato, ond'è rimasta all'uomo ottenebrata la mente. E perciò quella ragion naturale che nasce dalla sua natura non può essergli regola per le sue azioni morali; e pertanto è stato necessario che Iddio, per farlo certo di quel ch'egli dee fare o fuggire, l'illuminasse con suo lume particolare certo ed infallibile, e questo lume gliel'imprimesse e promulgasse come sua legge.

4. Circa la sentenza del nostro contraddittore, tenuta prima dal p. Vasquez, che la ragione nascente dalla nostra natura o sia la stessa nostra natura ragionevole sia la prima regola morale delle nostre azioni, notammo già al num. 8 quel che ne scrisse il p. Patuzzi nella sua Teologia morale,


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ove disse: Falsa est sententia p. Vasquez asserentis naturam ipsam rationalem esse primam moralis honestatis regulam, ita ut ex conformitate vel difformitate ad illam tota desumatur honestas et pravitas humanarum actionum. E il Du-Hamel, Theol. tom. 1, lib. 1 de leg., cap. 2, scrisse che questa opinione di Vasquez discorda dal sentimento di tutti i teologi e filosofi, aliena est ab omnibus theologis et philosophis; poiché Iddio, formando le nature degli enti ragionevoli, ha data loro la legge o sia regola che lor conveniva; onde non è la natura che ci porge la regola delle nostre azioni morali, ma è quella legge che ha data Dio a' soggetti di ciascuna natura da lui creata. Quis legem in cordibus hominum scribit, nisi Deus? scrisse S. Agostino, serm. 2, de verb. Dom. Onde scrive poi il p. Berti, Theol. tom. 4, lib. 20 de leg., cap. 3: Creata natura nullam vim habet quæ ipsî non imprimatur ab auctore legis æternæ. E così concordemente parlano anche gli altri Padri e teologi, siccome confessa lo stesso autore, tom. 1, diss. 3, cap. 2, n. 31, dove scrive: «Le scritture, i Padri e i teologi concordemente insegnano che la legge divina sia la prima ed unica regola delle azioni morali.» È vero ch'egli a ciò rispose che i Padri ed i teologi, chiamando


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la divina legge l'unica regola de' costumi, non intesero decider la presente controversia, ma che han potuto parlare in un senso non contrario al suo sistema. Ma a questa sua risposta io già risposi, num. 14, sembrare una cosa impossibile che se mai la sua opinione avesse avuta qualche probabilità, tutti i Padri e teologi, trattandosi di un punto così interessante circa l'eterna salute, avrebbero omesso di parlarne. Onde, non avendone alcuno mai parlato, dee giudicarsi che gli antichi una tale opinione l'avrebbero chiamata falsa, come poi l'ha chiamata il p. Patuzzi, e l'hanno riprovata comunemente i moderni teologi e filosofi, secondo attesta il Du-Hamel contro il p. Vasquez, che si crede essere stato il primo tra' cattolici a metterla fuori.

5. Il nostro avversario tanto esalta la ragione naturale che ci vien comunicata dalla stessa nostra natura; ma vediamo che cosa ne dicono gli altri. Il dotto Du-Hamel, socio dell'accademia regia di Francia, parlando dello stato presente dell'uomo, dice che quantunque in noi per lo peccato originale non sia estinto affatto il lume della verità, tamen (soggiunge) æternas et spirituales veritates vitæ soli et nobis ipsis relicti assequi valemus easque multorum errorum labe corrumpimus; nec plures, sed perpauca


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leviter attingimus: nec eadem est ratio mentis nostræ et aliarum facultatum, ut visus et auditus, quæ per peccatum originis non sunt vulneratæ, uti intellectus; hinc specie veritatis sæpe fallimur, et in iis maxime quæ ad mores pertinent. E qui adduce una bella autorità di S. Ambrogio, che scrisse: Multæ foveæ, multi scopuli istius in sæculi caligine non videntur; ubi putas esse solidum vel siccum, ibi lubricum est.

6. Il cattedratico D. Antonio Genovesi nella sua Metafisica, part. 4, cap. 4, § 2, ben confuta quel che dice l'autore (come abbiam riferito al n. 2), cioè che siccome Iddio siegue la ragione della sua natura divina, così noi dobbiam seguire la ragion naturale che nasce dalla nostra natura umana. Dice il Genovesi che per altro così Dio come gli uomini, essendo enti ragionevoli, nulla fanno moralmente se non condotti dalla ragione; ma poi soggiunge: Cæterum est infinitum inter Deum et creaturas rationales discrimen: nam Dei ratio summa est et absolutissima, ut idcirco non egeat alterius ratione, ut recte agat: contra vero, cum creaturæ rationales finita sint ratione præditæ, nisi Dei ratione regantur, idest æterna lege, longe a fine aberrare possunt. Dice inoltre nel § 3: Solam æternam Dei rationem ejus voluntate et potentia suffultam veri


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nominis legem esse, cæteras vero quantum de illa participant. Sequitur falli eos qui legis naturalis nomine intelligunt dictata humanæ rationis velut a Dei ratione præcisa (quali appunto li vuole il mio contraddittore, e lo dice in più luoghi); sunt enim hæc scita rationis hamanæ nec summa nec talia quæ homini lex esse possint. Informantur quandoque a nostris utilitatibus, ut nihil sit facilius quam esse erronea; lex autem extra omnem erroris aleam constituta sit necesse est: quocirca probare nequeo Richardum Cumberlandum, qui hæc rationis naturalis scita pro legibus naturæ habet.

7. Lo stesso scrive un altro autore moderno, Giovan Francesco Finetti, de principiis juris nat. et gent., tom. 2, l. 10, cap. 6, dove confuta l'opinione di Burlamachio, che tenne la stessa opinione del nostro contrario nel libro intitolato: Principes de droit nat. part. 1, c. 5. Ivi mette questa proposizione: Rationes ad agendum nos determinant cum obligatione, cioè che le ragioni umane ci obbligano a seguirle. All'incontro il Finetti dice: Cum ratio auctoritate careat, quæ superioris proprie est, potest ad agendum allicere, non vero obligare seu libertatem limitare: quod a superiore unice præstare posse, videtur per se manifestum. Quis dixerit rationem esse homine superiorem,


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cum libertas sit propria illius facultas? Ma è curioso poi vedere il motivo sul quale Burlamachio fonda l'obbligo di ubbidire alla ragione: Quatenus (scrive) actio ad nostram oblectationem, felicitatem et tranquillitatem conferre potest. Ma questo principio, ch'è tutto di umano interesse, dice Finetti, egli è condannato da tutti gli autori cattolici e anche da' protestanti; poiché non già il proprio piacere o interesse, ma l'amore della virtù dev'essere l'unico motivo del nostro bene operare.

8. Pertanto siegue a dire il Finetti che la ragione umana non obbliga l'uomo, se non quando è avvalorata dal comando del superiore, la cui autorità solo ha forza di obbligare. Tanto più (soggiunge) perché l'umana ragione frequenter obtunditur, onde conclude: Hinc fortior et validior alia admittenda est obligatio quæ sola vera est obligatio ad hominem in officio continendum; ea enim obligatio quæ oritur ex supremi imperio legislatoris, judicis et vindicis. Giustamente dunque conclude questo dotto autore che circa le azioni morali non abbiamo noi alcuna vera obbligazione se non quella che nasce dalla legge di Dio, nostro supremo legislatore.

9. Sicché la nostra ragione, essendo ella così ambigua e soggetta da errare, non può


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obbligarci a seguirla se non quando chiaramente ci manifesta la legge divina; poiché allora siam tenuti ad ubbidire non già alla ragione dettataci dalla nostra natura, ma alla legge di Dio che ce lo comanda. E questo appunto è quel che scrisse S. Tomaso, 1, 2, qu. 91, art. 3, ad 2: Ratio humana secundum se non est regula rerum, sed principia ei naturaliter indita sunt regulæ quædam generales et mensuræ omnium eorum quæ sunt per hominem agenda. Dunque la regola delle azioni morali non è il dritto naturale che nasce dalla natura dell'uomo, o sia l'umana ragione che gli vien dettata dalla sua natura, ma è la legge impressa da Dio nel cuore dell'uomo; poiché Dio, creando le nature angelica ed umana, ha data loro la legge attemperata a ciascuna natura: onde non è che tal legge nasca dalla stessa natura, indipendentemente dalla volontà di Dio, ma nasce dalla volontà di Dio, il quale ha date agli angeli ed agli uomini quelle leggi che convenivano alle loro nature.

10. Ma replicherà il nostro avversario: se il dritto risultante dalla natura non induce vera obbligazione, ma tutta la nostra obbligazione dipende dalla volontà di Dio, dunque non vi sono più azioni morali intrinsecamente virtuose o viziose, ma tutte son


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tali, perché comandate o proibite dall'arbitraria volontà di Dio. Ma rispondiamo che le azioni comandate o vietate dalla legge divina naturale sono intrinsecamente buone o male perché sono comandate o vietate necessariamente da Dio. Mi spiego: l'esistenza dell'uomo pende già dalla volontà di Dio creante; ma, posto che Dio voleva ch'esistesse l'uomo, dovea necessariamente dargli le leggi adattate alla di lui natura. Iddio creò l'uomo ragionevole acciocché lo servisse in questa terra e così si meritasse la vita eterna; onde dové necessariamente dargli la norma con cui lo servisse, che fosse insieme conforme alla sua divina santità e adattata alla natura umana. E pertanto, essendo stata la legge necessariamente conforme alla santità di Dio, da ciò nasce che tal legge non è stata arbitraria ma intrinsecamente giusta; e quindi è che le nostre azioni sono intrinsecamente buone o male secondo son conformi o difformi alla divina legge prescritta.

11. In somma il nostro autore, vedendo che quel suo diritto naturale risultante dalla nostra natura e indipendente dalla divina legge e volontà non avea tutta la forza di legge obbligante, ha ritrovato il modo di render leggi obbliganti tutti i lumi naturali o sieno ragioni che ci vengon dettate dalla


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nostra propria natura, con vero e stretto obbligo di coscienza, sotto pena ancora di perdere la divina grazia e d'incorrere la ruina eterna. Ecco come parla nel tom. 1, diss. 2, cap. 1, n. 20. (Succingo qui il suo lungo dettato, ma solo tralascio quelle parole che non son necessarie a spiegare il suo sentimento.) Dice egli: «Mi si può pertanto opporre così: se l'essenza del diritto naturale fosse quella che tu pretendi, e non già una legge emanata dal creatore, sarebbe come se non ci fosse; perché non produrrebbe veruna obbligazione, e ciascuno potrebbe violarlo impunemente, mentre, non essendo legge, non mena seco sanzione alcuna ed alcun premio e pena. (Udiamo indi la sua risposta.) Rispondo che il diritto naturale impone una sua degna obbligazione interna e naturale, sebben non esterna e positiva, com'è quella che nasce dalle leggi de' legittimi sovrani. E vi par poco? E non è questa la prima di tutte le altre obbligazioni degli enti ragionevoli, se sono onorati della loro ragione, ch'è il massimo de' loro doni, e che fa che la loro natura sia dal creatore formata ad immagine della sua? E qual più temerario attentato per un ente ragionevole che rendersi indegno della sua ragione col mettere in non cale i di lei dettami? Chi vive contro i dettami della ragione non


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può non precipitare in errori e vizj. E queste miserie, che possiam dir pene naturali, sono una picciola bagattella forse? (E poi soggiunge quel che siegue, dove sta il suo pensier ritrovato per render leggi strettamente obbliganti tutti i dettami della ragione umana.) Ciò però sia detto per gli uomini nello stato della loro natura scompagnato da ogni legge divina; perché nell'ordin della providenza presente avendo il creatore confermata e comandata colla sua legge l'osservanza del diritto naturale e quinci avendolo elevato alla nobil qualità di sua legge, ecco che noi siam tenuti a viver giusta i dettami della nostra ragione con due obbligazioni, interna e naturale l'una, ed esterna e divino-positiva e soprannaturale l'altra; e ciò con due sanzioni, cioè per conseguire i premj e per evitar le pene della natura e della grazia e della legge divina. »

12. Rispondiamo a quanto suppone l'autore circa questa elevazione del suo dritto naturale ad esser legge. Egli dice che nello stato presente Iddio ha elevato il diritto risultante dalla nostra natura alla nobil condizione di sua legge divina. Dunque, noi rispondiamo, se Dio non avesse elevato questo dritto ad esser sua legge, l'uomo in altro stato, cioè nello stato della natura pura (che certamente era possibile, come sta dichiarato


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dalla Chiesa contro Bajo, che lo negava), sarebbe restato senza vera legge strettamente obbligante. Egli replicherà che in tale ipotesi sarebbe stato l'uomo obbligato a vivere secondo il diritto della sua natura. Ma noi replichiamo che questo suo diritto, non essendo avvalorato dall'autorità, non avrebbe mai potuto esser per l'uomo legge obbligante, come di sovra si è provato; onde in fatti l'uomo sarebbe restato senza legge. Il dire poi che in quello stato avrebbe dovuto l'uomo ubbidire alla ragione dettatagli dalla sua natura non sappiamo come possa sostenersi: mentre, come ben dice il Finetti (secondo abbiamo notato al n. 8), la ragione è facoltà propria dell'uomo: onde lo stesso uomo sarebbe stato insieme suddito e superiore a sé stesso; e perciò il diritto naturale risultante dalla natura umana non potea mai obbligare l'uomo con vera obbligazione. Lo stesso nostro autore confessa in più luoghi che quel suo dritto nascente dalla natura non è vera legge. Nel tom. 1, d. 2, c. 1, num. 26 dice: «Affermo e mantengo che il dritto della natura non è punto una vera legge.» Lo stesso replica nel n. 32. Se dunque tal diritto di natura non è vera legge, non può certamente indurre vera obbligazione.

13. Concludiamo pertanto il punto per


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quel che importa l'opposizione che fa l'avversario alla mia sentenza, per cui sostengo colle autorità rapportate di S. Tomaso che la legge non abbastanza promulgata non obbliga; sovra del quale punto fa molto peso la dottrina di Gio. Gersone (rapportata al num. 31), il quale dice che neppure Iddio può obbligar la creatura ad una legge, se prima non gliela manifesta: Necesse est dari manifestationem ordinationis... Nondum potest Deus creaturæ imponere obligationem, sed opus est ut ei communicet notitiam etc. Si osservi il passo ivi steso. Giacché dunque il mio contraddittore dice che la ragion naturale risultante dalla nostra natura nel presente stato è stata elevata ad esser legge divina, posto ch'è legge, deve in conseguenza per necessità essere attualmente promulgata; altrimenti non avrà virtù di obbligare, come insegna S. Tomaso.

14. L'autore concede finalmente che la legge dev'esser promulgata, ma dice che in ciò basta che vi sia la promulgazione abituale, la quale si fa nell'uomo, dacché egli è conceputo ed è uomo. Ma noi abbiam dimostrato di sovra, dal num. 27 sino al 35, che la promulgazione per obbligare dev'esser attuale; poiché, essendo la legge una regola delle nostre azioni; come insegna S. Tomaso, ella non ha virtù di obbligare


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se non è applicata colla promulgazione: Unde ad hoc (son le sue parole) quod lex virtutem obligandi obtineat... oportet quod applicetur. Indi soggiunge: Talis autem applicatio fit per hoc quod in notitiam eorum deducitur ex ipsa promulgatione. 1, 2, qu. 90, art. 4. Sicché la legge allora si applica all'uomo quando ne riceve l'attual cognizione colla promulgazione. Quando l'uomo è conceputo (come notammo al num. 29), allora gli viene infusa non già la cognizione della legge, ma solamente la capacità, l'abilità a conoscerla per quando avrà l'uso di ragione; ed allora gli è veramente promulgata la legge, ed allora la legge l'obbliga. Del resto non occorre replicare quel che si è detto; prego solo il mio lettore a dare un'occhiata a quel che sta scritto nel luogo citato e vedere quanto è comune questa dottrina presso i migliori teologi della Chiesa. Ma più che dalle autorità de' dottori a me pare che ci vien ciò persuaso dalla ragione di sovra accennata, che, se la legge è una norma che dee regolar le nostre azioni, non può ella regolarci se non ci è attualmente promulgata. Quindi è manifesto che quando concorrono due opinioni egualmente probabili, allora, essendo la legge affatto dubbia, non può dirsi bastevolmente promulgata; poiché allora è abbastanza


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promulgato il dubbio se vi è o non vi è la legge, ma non è abbastanza promulgata la legge; e non essendo promulgata, ella (come insegna S. Tomaso) non ha virtù di obbligare.

15. Ma dice l'autore che la promulgazione attuale della legge non è necessaria per obbligare quando la legge nasce dalla stessa natura, perché allora basta ad obbligare l'uomo la promulgazione abituale. Concedo, se l'uomo ha avuta cognizion della legge, perché allora già quella gli è stata attualmente promulgata una volta; ma se non mai egli l'ha conosciuta, o sia legge dipendente dalla volontà di Dio o risultante dalla stessa sua natura umana, non può essere obbligato ad osservare una legge che non sa né ha saputo mai che vi sia. E ciò mi pare che l'autore medesimo l'accordi nel tom. 2, diss. 6, n. 7, dove dice così: «Noi uomini adunque siamo obbligati a viver colla legge e col dritto e colla ragion naturale dacché, perché e per quanto siamo uomini e capaci di ragione; e questa legge ci si promulga naturalmente, cioè abitualmente colle nature delle cose sottomesse alla nostra considerazione; e ci si promulga attualmente, cosicché via via e nelle particolari occasioni apprendiamo bastevolmente quest'azione convenire e quest'altra non convenire alla


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nostra natura ragionevole. I bambini poi e tutti gli uomini, prima di giugnere all'età della discrezione del bene dal male morale, anche son naturalmente tenuti a viver colla ragione; ma ci manca l'obbligazione attuale per difetto della stessa umana natura, la quale in essi non è ancor giunta all'uso perfetto delle sue potenze ed a sentir l'attual promulgazione di quella legge che le nature delle cose abitualmente le promulgano

16. Dunque, secondo egli dice, l'uomo allora pecca quando apprende che quell'azione che fa non conviene alla natura ragionevole; ma se non apprende, se non conosce quella disconvenienza, non peccaoffende la sua natura. Dice di più l'autore che i bambini anche son tenuti a viver colla ragione, ma non sono obbligati attualmente a seguirla se non quando son giunti all''uso perfetto delle loro potenze ed a sentir l'attual promulgazione di quella legge che le nature delle cose abitualmente loro promulgano. Sicché allora l'uomo è tenuto ad osservar la legge quando è giunto a sentir l'attual promulgazione di quella legge che la natura abitualmente gli promulga. Altro noi non diciamo, cioè che l'uomo allora è obbligato ad osservar la legge quando attualmente quella gli vien promulgata. Ho detto: ad osservar la legge; perché altro


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è l'esser tenuto ad osservar la legge già conosciuta, altro è l'esser tenuto a seguir l'opinione che sta per la legge non ancor conosciuta.

17. Ma lo stesso autore poi nel numero seguente 8 del luogo di sovra citato, siccome parla, dice che l'uomo è tenuto a seguir l'opinione che sta per la legge, benché non abbia ancora conosciuta la legge. Ecco le sue parole: «Dunque la legge o il diritto naturale sempre abitualmente e naturalmente si promulga; e perciò sempre abitualmente e naturalmente possiede il reggimento del cuor degli uomini e della loro vita morale. Il perché in concorso ed in competenza di due opinioni equeprobabili, una per la detta legge, per la virtù e per lo spirito, e l'altra per la libertà, per li vizj e passioni e per la carne, non si può né si deve mai equeprobabilizzare, ma si dee star all'opinion per la ragione, che naturalmente ed abitualmente si promulga e possiede il cuor degli uomini, e non già per quell'altra che non mai si promulga, che non mai è legge e che non mai possiede ed è capace di possedere il detto cuore, posseduto sempre e naturalmente ed abitualmente dalla ragione, che sola è capevole di gius, di domino e di possesso

18. Sicché dice l'autore che nel concorso


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di due opinioni, una per la legge, cioè (come spiega) una per la virtù e per lo spirito, e l'altra per la libertà, cioè per lo vizio, per la passione e per la carne, si dee stare per l'opinione per la legge o sia ragione che possiede il cuore. Sovra di ciò io domando: nel concorso delle due opinioni contraddittorie si ha cognizione della legge? Quando le due opinioni sono di peso eguale, come si è detto di sovra, niuna di esse è probabile: onde in tal caso non solo non si ha cognizion della legge, ma neppure vi è probabilità che vi sia la legge; allora non si ha altra cognizione che della questione o sia del mero dubbio se vi è o non vi è la legge: e come mai può dirsi promulgata, e può obbligare una legge la quale neppure è probabile che vi sia, ma solamente si dubita se vi sia? L'autore difende, secondo il suo sistema, che la ragion naturale è la prima regola e misura per le azioni morali dell'uomo: ma se l'uomo non conosce questa ragione, questo dritto, ma solo ne dubita, come può regolare e misurare con tal ragione le sue azioni?

19. Inoltre egli dice che nel concorso di due equeprobabili si dee stare all'opinione per la ragione, che abitualmente si promulga e possiede il cuore degli uomini. Ed in ciò dimando in secondo luogo: come mai la legge


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o sia ragione possiede il cuore dell'uomo nel concorso delle due probabili, giacché questo possesso non ha avuto mai principio, mentre la legge non è stata mai conosciuta? Egli dice che l'appigliarsi all'opinione per la libertà è lo stesso che seguire la passione, il vizio e la carne. A questo suo supposto io risposi già di sovra al n. 44. Chi può negare che seguire il vizio e la carne sia disordine e peccato? Ma altro è seguire il vizio e la carne, ch'è lo stesso che seguire il libertinaggio; altro è seguire la libertà lecita, la quale è da Dio permessa, quando non si scorge in contrario alcuna legge che la proibisca. Lascio al giudizio de' miei leggitori il vedere se io parlo o no coerentemente alla verità.

20. A chi poi dicesse che nel concorso delle due opinioni probabili la legge, se non è certamente promulgata, almeno è promulgata probabilmente e perciò dee preferirsi l'opinione che sta per la legge, per prima si risponde che per questo perciò, o sia per questa conseguenza, non vi è ragione che la sostiene; perché la retta ragione detta (come di sovra nell'opera già si è notato) che, dovendo esser certo l'obbligo che impone la legge, non basta che la promulgazione della legge sia probabile, ma siccome è certo l'obbligo, così anche dev'esser certa la legge


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e certa la promulgazione della legge. Ma la seconda risposta più convincente si è che quando l'opinione che sta per la libertà è di peso eguale a quella che sta per la legge, allora l'opinione per la legge neppure è probabile ma solamente è dubbia, poiché le due opinioni in tal caso non partoriscono probabilità, ma solamente un mero dubbio, perché allora l'una opinione toglie la forza all'altra di probabilità.

21. Addussi già a questo proposito la dottrina di S. Tomaso, che scrive: Intellectus noster respectu partium contradictionis se habet diversimode: quandoque enim non inclinatur magis ad unum quam ad aliud, vel propter defectum moventium, sicut in illis problematibus de quibus rationes non habentur, vel propter apparentem æqualitatem eorum quæ movent ad utramque partem: et ita est dubitantis dispositio, qui fluctuat inter duas partes contradictionis. De verit., qu. 14, art. 1. Dunque dice S. Tomaso che quando le ragioni sono eguali, l'intelletto resta fluttuante senza inclinare né all'una né all'altra parte; perché quando le opinioni sono di peso eguale, benché ciascuna di loro avrebbe forza di muover l'intelletto all'assenso se l'una non si opponesse all'altra, nondimeno, essendo elle direttamente opposte, niuna di loro ha più forza di tirare a sé


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l'assenso; giacché, essendo le forze eguali, l'una elide l'altra; onde ambedue altro non partoriscono che un mero dubbio. In altro luogo il santo Dottore scrisse lo stesso in breve dicendo: Inter æqualitatem rationum et argumentorum soli dubio est locus. Instruct. de reg. prox. etc., part. 1, cap. 3, pag. 48. Il p. Berti dice che quando sono eguali i pesi posti nelle coppe resta la bilancia senza scendere, come se niun peso vi fosse: In æquilibrio manet lanx, sive nullum neutrî parti sive utrique æquale onus imponatur. Lo stesso dicono il p. Gonet ed altri. Il p. Patuzzi mio primiero contraddittore scrisse che ciò è evidente: «Essendo evidente (dice) che due opinioni contraddittorie egualmente probabili non possono, se non generare il dubbio.» Sicché, per concludere la controversia proposta, quando l'opinione che sta per la legge fosse più probabile, allora concedo che la legge è probabilmente promulgata, ma quando le due opinioni sono di peso eguale, allora l'opinione che sta per la legge neppure è probabile, come abbiam veduto di sovra: e se neppure l'opinione che sta per la legge è probabile, come può dirsi che la legge sia probabilmente promulgata? Allora appena è promulgato il dubbio, ma non promulgata la legge. All'incontro è certo presso tutti


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che la legge per obbligare dev'esser promulgata; scrive lo stesso p. Patuzzi: Consentiunt quidem omnes promulgationem esse omnino necessariam ut lex virtutem obligandi obtineat. Posto ciò, come può dirsi che nel concorso delle due opinioni di egual peso la legge sia bastevolmente promulgata e per conseguenza vi sia l'obbligo di seguire l'opinione che sta per la legge quando alla legge manca il requisito della promulgazione che le è assolutamente necessario per obbligare, ed all'incontro (come abbiam veduto di sopra) nel conflitto delle due opinioni non vi è né la promulgazione né la certezza che vi si richiederebbe per imporre un obbligo certo, né ve n'è alcuna probabilità, ma solamente un mero dubbio? In somma quanto più escon nuovi oppositori della mia sentenza, cioè della sentenza non mia, ma di S. Tomaso, siccome ho dimostrato, e quanto più essi cercano con nuove riflessioni di oscurarla, tanto più la chiariscono; e quanto più si studiano di porla in dubbio, tanto più la rendono certa.




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