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S. Alfonso Maria de Liguori
Apologia contro Adelfo Dositeo (Difesa...)

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INTRODUZIONE

Il libro del molto rev. p. lettore, col quale s'impugna la mia dissertazione, è intitolato: La causa del probabilismo richiamata all'esame da monsignor De Liguori e novellamente convinta di falsità. Ecco che il mio oppositore, prima di cominciare a rispondere alla mia dissertazione, già canta la vittoria d'averla convinta come falsa. A me nonperò pare tutto all'opposto, cioè che, in vece di convincerla di falsità, più presto colle sue opposizioni ha data causa di più chiarirla e avvalorarla. Dico: a me pare, perché a lui parrà il contrario: ma non tocca né a lui né a me il decider questo punto; ciò tocca a' saggi lettori che san discernere le cose. Io scrissi già che, se alcuno mi avesse illuminato e fatta vedere l'insussistenza de' fondamenti della sentenza da me difesa, io mi sarei subito rivocato con pubblica scrittura. Quindi, prima di cominciare a leggere il libro del p. lettore, più volte mi sono raccomandato a Dio, acciocché m'illuminasse, se mai su questa materia io andassi errato; onde mi posi a leggerlo con animo deliberato,


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di rivocarmi, se mi avesse fatto conoscere dove stava il mio errore. E sovra tutto io aspettava a vedere se mai avessi preso abbaglio nell'intender le dottrine di S. Tomaso sulla presente controversia, le quali mi sembravanochiare ch'io diceva: O s'ha da dire che il nostro sistema è vero, o che S. Tomaso ha parlato inettamente e senza fondamento. Ma leggendo la risposta del p. lettore, vi ho trovatabene una dovizia di saletti pungenti, d'invettive, ingiurie e derisioni, ma in sostanza nelle sue lunghe opposizioni fattemi non ho trovata cosa alcuna che mi convinca ed obblighi a ritrattarmi. I suoi argomenti, perché l'uomo per altro è di talento, a prima vista par che facciano qualche impressione, ma non vi bisogna poi molto studio a scorgerne gli equivoci e le fallacie. Ed in quanto alle dottrine di S. Tomaso, su del quale è fondato il mio sistema, egli in un luogo del suo libro, dando loro una certa breve spiegazione a suo piacimento, se ne sbriga con dire: Questa è la mente di S. Tomaso, con una decisione definitiva.

Io sono stato in pensiero se doveva o no rispondere a questo novello libro del p. lettore, poiché nella mia dissertazione già mi trovava scritto contro la maggior parte delle opposizioni che si fanno nell'opera della


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Regola prossima delle umane azioni al principio da me assunto, che la legge dubbia non obbliga; onde avrei potuto sbrigarmene con rimettermi a ciò che avea scritto nella dissertazione. Ma riflettendo poi che a molti questa mia dissertazione non sarà capitata e che ora bisogna porre in chiaro certi altri equivoci che possono prendersi negli argomenti addotti dal p. lettore, perciò ho stimato necessario di rispondere con questa mia apologia. E pertanto ho procurato di rubare qualche intervallo alle cure del governo della mia chiesa e di rispondere quanto più distesamente ho potuto.

Il mio contraddittore lagnasi che in questa controversia, tanto dibattuta a' nostri tempi e sulla quale si sono scritti tanti volumi, io me ne sono uscito a parlarne così brevemente con quattro fogli. Ma io sempre ho stimato che le ragioni assai più giovano a persuadere quando sono semplicemente e succintamente (purché con chiarezza) esposte che quando sono vestite di molte parole e riflessioni non necessarie: e perciò in tutte le mie opere che ho date alle stampe ho procurato sempre di risecar le parole e ridurre la sostanza delle cose in breve; e così ho fatto ancora nella mia suddetta dissertazione. Tanto più che ivi non ho inteso di trattare di tanti altri punti e motivi che si sono


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scritti in altri libri a favore o contro del probabilismo, ma solamente ho voluto parlare de' due fondamenti sui quali si appoggia la sentenza da me difesa: della cui verità io per me sto certo, e mi son renduto più certo dalle opposizioni che ho lette farsi contro di quella in tanti libri usciti già per lo rigido sistema, e specialmente in quest'ultimo del p. lettore; mentre tutte le opposizioni che leggo, vedo che son di poco peso e che, in vece di abbattere i fondamenti de sistema, più presto lo confermano. Vedo in somma che sono tali ch'egli stesso che le ha proposte le avrebbe potute sciogliere da sé stesso, se avesse voluto. Dirà il mio oppositore che la passione mi accieca e non mi fa vedere la verità. Ma io (per non dir altro) ho prove certe in me stesso che su questa materia del probabile non ho scritto mai né scrivo per passione o per impegno. Più presto ciò può sospettarsi di lui dopo tanti contrasti avuti sopra tal punto co' padri della compagnia; e crescerà questo sospetto presso ognuno che leggerà questo suo libro ed osserverà il modo improprio con cui mi oppugna. Del resto egli è padrone di pensare e dire quel che vuole.

In questa mia apologia non sarò così breve come avrei voluto essere; sì perché ora molte opposizioni dal mio avversario sono


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state poste in questo nuovo suo libro con nuova apparenza, sì perché egli in più cose poco si fa carico delle risposte già date o almeno già espresse nella mia dissertazione: e perciò mi bisogna rispondere di nuovo e ripetere molte cose in quella già scritte. Mi guarderò poi di fare la scimia al p. lettore, in usare il suo stile salato e adorno di tante invettive e d'interrogazioni insultanti o pure di certe sentenze definitive: «Come ciò può negarsi?- Ciò dee confessarlo chi non vuole volontariamente accecarsi.- Ciò dovrebbe arrossirvi di dirlo.» In altro luogo dice parlando d'un passo di S. Antonino: «Se aveste letto più innanzi, vi avreste trovata la vostra confusione e vergogna.» In altro luogo: «Sapete quello che devo dirvi in risposta? e vel dirò con tutto quel rispetto che il grado vostro si merita: che studiate meglio le questioni e le dottrine di S. Tomaso e de' teologi prima di registrare sulla carta i sentimenti vostri, per non avervi a trarre addosso gli scherni degl'intendenti.» In altro luogo: «Vi confesso, monsignore, se io fossi nella vostra persona, mi vergognerei sommamente di aver con tanta franchezza avanzata una simile proposizione e di fare per essa presso del pubblico una comparsa troppo sconcia e deridevole.» E simili altre cerimonie; chiamando poi tutte


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le mie ragioni e prove inezie, chimere, arzigogoli, stortaggini, cose ridicole e rifugi da disperati. Io esporrò semplicemente le mie risposte, e ne lascerò il giudizio a chi legge.

Non creda però il mio oppositore di vincere la causa presso la gente col trattarmi così da sciocco, ridicolo e cervello storto, dicendo che non ho le giuste idee delle cose, quando per altro, se io non meritava alcun riguardo, meritavalo però il carattere che tengo. Ma che s'ha da fare? Questa è l'arte di quelli i quali, mancando loro le ragioni, si fanno campo colle invettive ed ingiurie, credendo così di avvilire gli avversari a non rispondere e, col disprezzare le loro risposte, di guadagnarsi presso i leggitori l'approvazione di quel che dicono. E questo è uno de' segni molto forti, come diceva un uomo saggio, per li quali si vede che gli antiprobabilisti hanno mala causa: il primo, che, per farsi dar ragione, si avvagliono di tanti raggiri e sottigliezze che finalmente niente concludono: il secondo, che, per sostenere la loro sentenza, non risparmiano d'insultare i loro contrari co' rimproveri; cosa per altro molto riprovata da Benedetto XIV nella sua bolla Sollicita, dove al §22 agramente riprende quegli scrittori i quali auctores sibi, dissidentes conviciis proscindunt, aliorum opiniones nondum ab Ecclesia


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damnatas.. suggillant et pro ridiculis ducunt: mentre dice esser cosa utile che le questioni si discutano colle dispute, ma col modo dovuto; ed indi riferisce le parole del decreto d'Innocenzo XI: In virtute sanctae obedientiae praecipit, tam in libris quam etc., caveant ab omni censura et nota, necnon ab omnibus conviciis contra eas propositiones quae adhuc controvertuntur, donec a sancta Sede judicium proferatur. Quindi Benedetto comanda che i revisori de' libri contro tali scrittori pro munere suo censuram intendant, eamque congregationis cardinalibus cognoscendam subjciant, ut eam pro zelo suo et potestate coerceant. Non creda, dico, di aver vinta la causa con aver usato tal modo di scrivere: perché i leggitori prudenti si rendono persuasi della verità colla forza delle ragioni, ma non già con questi modi contumeliosi e disprezzanti; anzi, leggendo un autore che così scrive, giustamente sospettano ch'egli parli così osso non dall'amore della verità ma dallo spirito d'impegno o di partito. Ho voluto dir ciò non per farne risentimento, mentre da che intesi che il p. lettore già avea risposto alla mia dissertazione, fin d'allora mi sono apparecchiato a ricever questi complimenti; ma acciocché gli altri a' quali capita il suo libro non si muovano forse a credere che le cose


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scritte da me e prima di me da tanti altri su questa controversia veramente sieno insussistenti e ridicole perché il p. lettore con tanto spirito e calore così le chiama. Pertanto prego il mio lettore, se mai ha letto già quel suo libro, a sospendere il giudizio sin tanto che non compirà di leggere questa mia apologia, colla quale spero di aver poste maggiormente in chiaro le cose.

Si scusa il mio oppositore su di ciò col dire che ha dovuto parlare in questo modo per l'impegno e premura ch'egli ha per la verità e per lo bene del pubblico, acciocché non resti ingannato. In quanto alla verità della causa, ritorno a dire, non tocca né a lui né a me il deciderla. In quanto poi alla ruina del pubblico, se quello abbracciasse la sentenza benigna, come suppone (che perciò parla contro di me, come parlasse contro d'un materialista o d'un eretico), se egli crede che la salute delle anime dipende dal seguire la sua rigida sentenza di non esser lecito l'uso di altre opinioni se non di quelle che sono moralmente certe e che non possa darsi ignoranza incolpabile di qualunque precetto divino; se lo crede (dico) ingiustamente lo crede, perché tal rigore eccessivo non mai è stato insegnatopraticato nella Chiesa, come scrivono tanti dotti autori e come di proposito dimostra il


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dottissimo Cristiano Lupo nella sua opera sovra i concili. Tom. 9, p. 1, diss. 1, cap. 4, 5 et 6. Il rigore dee usarsi dove giova il rigore a salvare le anime, ma non dove serve a farle perdere e disperare, obbligandole ad un peso moralmente impossibile alle forze umane.

È vero che la salute delle anime non dee già procurarsi coll'inosservanza delle divine leggi, perché Dio stesso, benché voglia la salute di tutti, vuole però che ognuno si salvi con osservare i suoi giusti precetti. Ma non deesi imporre da noi alle anime un giogo che non sappiamo essere stato imposto da Dio, di dovere osservare non solamente le leggi certe ma anche le incerte. Forseché dobbiam solamente render conto a Dio della soverchia condescendenza colle anime, e non ancora del troppo rigore? Non è minor colpa l'insegnare sentenze più del giusto obbliganti, che l'insegnare sentenze più del giusto piacevoli. Ciò appunto scrive Cabassuzio, in praefat. theor. jur., parlando degli autori o troppo rigidi o troppo benigni: A quibusnam ingeniis ultra modum aut severioribus aut indulgentioribus magis periclitetur animarum salus difficile aestimata est; e detestando prima la troppa benignità, passa a riprovare poi la soverchia rigidezza, poiché ella, dum homines ad nimis ardua compellit, viam


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saluti aeternae praecludit; salvandos (ut ait D. Bonaventura) damnat, et conscios propriae infirmitatis ad desperationem adigit. Accidit enim ut miseri homines, hac audita rigidiore doctrina, credant vel dubitent inesse mortalem culpam ubi nulla est; sed tamen, rei difficultate victi, ex erronea conscientia mortaliter peccent et damnentur.... Recte ergo D. Bonaventura, comp. theol. verit. l. 2, cap. 32, n. 5: Cavenda est conscientia nimis larga et nimis stricta; non prima generat praesumptionem, secunda desperationem; item prima saepe dicit malum bonum, secunda e contra bonum malum; item prima saepe salvat damnandum, secunda e contra damnat salvandum. E perciò scrisse Giovan Gersone: Doctores theologi non debent esse faciles ad asserendum aliqua esse peccata mortalia ubi non sunt certissimi de re; nam per ejusmodi assertiones rigidas et nimis strictas in rebus universis nequaquam eriguntur homines a luto peccatorum, sed in illud profundius, quia desperatius, demerguntur. Quid prodest, imo quid non obest, coarctare plus justo mandatum Dei, quod est latum nimis? De vita spirit., lect. 4. E perciò ancora, come ho dimostrato a lungo nella dissertazione, tutti gli autori antichi con S. Raimondo, S. Antonino e S. Tomaso (secondo egli parla e secondo


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lo spiega Giovanni Nyder) hanno insegnato che non dee condannarsi alcun'azione di colpa grave, se ciò non consta per qualche divina Scrittura o canone della Chiesa o evidente ragione.

È certo che, giusta il dettame di coscienza che ho al presente, se scrivessi che tutti sono obbligati per precetto a seguire tra le due opinioni probabili la più sicura, io terrei di peccar gravemente, perché tengo per certo che Iddio non ha imposto agli uomini tal precetto. In somma peccato sarebbe il difendere contro la ragion conosciuta così la benigna come la rigida sentenza. Chi è il primo di noi a conoscer l'errore è tenuto a ritrattarsi. Ma io desidererei che il p. lettore nella presente controversia stesse così pronto a rivocarsi, come sto pronto io. Ma dirà ch'egli non può esser disposto a ritrattarsi, giacché la Chiesa (come cerca di provare verso il fine del suo libro) ha già decisa la causa. Ma di ciò ne parleremo appresso; frattanto pregherei il p. lettore a sospender questo suo giudizio, finché non leggerà quel che noteremo su questo punto. Ed all'incontro da ore prego il mio cortese lettore a tenere che tal decisione affatto non v'è, come conoscerà da ciò che saremo per dire.

A quel che poi egli oppone di S. Agostino- Tene certum, et dimitte incertum- can.


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Si quis autem, de poenit. dist. 7, si risponde che ivi è manifesto di qual caso parla S. Agostino; parla di colui che vuol differire la penitenza de' suoi peccati sino alla morte. Ecco le sue parole: Agens poenitentiam ad ultimum et reconciliatus, si securus hinc exit, ego non sum securus; quid horum futurum sit, nescio. Ergo tene certum, et dimitte incertum. Ora che ha che fare la temerità di costui che certamente mette a gran pericolo la sua salute con differire a convertirsi fino all'ultimo di sua vita coll'obbligo di dover attenerci in tutti i dubbi sempre al più sicuro quando la legge è incerta? S. Gregorio nazianzeno, parlando contro d'un certo Novaziano, scrive: An ne juvenibus quidem viduis propter aetatis lubricum ineundi matrimonii potestatem facis? At Paulus hoc facere minime dubitavit, cujus scilicet te magistrum profiteris.- At haec minime post baptismum-, inquis. Quo argumento id confirmas? Aut rem ita se habere proba; aut, si id nequis, ne condemnes. Quod si res dubia est, vincat humanitas et facilitas. Orat. 39, col. 564, lit. B. Si noti: si res dubia est, vincat humanitas et facilitas. S. Agostino scrive: Quod enim non contra fidem neque contra bonos mores esse convincitur, indifferenter esse habendum. Serm. 294, cap. 11, col. 224, edit. paris.


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Sicché quell'azione è illecita solamente che si convince, cioè chiaramente si prova esser contro la fede o contro i buoni costumi. S. Bonaventura, parlando de' voti ne' quali può dispensare il papa, adduce tre sentenze e poi conclude: Quae istarum trium opinionum sit verior, fateor me nescire; et satis potest quaelibet sustineri. Si quis tamen velit hanc ultimam acceptare, non occurret et inconveniens manifestum. In 4, d. 38, a. 2, q. 3.

Il p. lettore mi oppone così in generale i padri recati dal card. de Aguirre e da monsig. Bossuet, senza però addurne l'autorità d'alcuno a nostro proposito. In quanto al card. d'Aguirre, sappiamo che D. Bernardo Bisso benedettino (uomo lodato nella biblioteca benedettina di molta dottrina) nel 1694 in nome di tutta l'accademia cassinese pubblicò in Genova un libro contro il p. Tirso Gonzales, ed in esso alla pag. 67 scrisse: Neque putamus hanc nostram sententiam esse contra mentem enim. cardinalis de Aguirre; nam idem ibi potestatur se cognovisse hanc quaestionem esse gravissimam, eamque ex instituto non resolvisse, sed potius excurrendo eam libasse, ut apparet ex diss. 13, n. 84 in fin. In quanto poi a monsig. Bossuet, venero un tanto personaggio; ma stimo che altri ancora hanno avuto l'intendimento di comprender la mente de' Padri: e


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questi, avendoli ben considerati, dicono non aver mai essi Padritesti che si adducono parlato nel senso della nostra questione, cioè che fra le due opinioni egualmente probabili debbasi per precetto seguir sempre la più sicura. Anzi il p. Cristiano Lupo agostiniano, non meno versato de' nominati autori Aguirre e Bossuet nella lettura de' Padri, fa vedere nella sua dissertazione del probabile, al tom. 9, che i Padri più tosto han favorita la sentenza benigna. Il dottissimo p. Melchior Cano, anche versatissimo nella dottrina de' Padri, ecco come scrive de' precetti dubbi, parlando d'una opinione dubbia che gli opponeano alcuni dottori: Quoniam ignoro unde ad hanc opinionem doctores illi venerint, libere possum quod non satis explorate praeceptum est, negare. Relect. 4 de poenit. p. 4, q. 2, prop. 3, n. 5. Dunque ben può negarsi, secondo Cano, quod non satis explorate praeceptum est. Lo stesso scrisse il card. Lambertini (indi Bened. XIV) nelle sue notificazioni: «Non debbono porsi legami quando non vi ha una manifesta legge che gl'impongaNotif. 13.

Io dispero già che il mio oppositore voglia restar persuaso da questa mia apologia; anzi da ora ne aspetto un'altra risposta più ricca di rimproveri e d'improperi: ma sappia che, per quanto egli mi caricherà di tali


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onori, mi protesto che più non risponderò. Solo risponderò quando mi vedrò persuaso del contrario da qualche nuova ragione o autorità che mi renderà veramente convinto; ed allora mi ritratterò pubblicamente, come già ho promesso. E tengo per certo che, se mai io errassi in questa controversia, il Signore mi ha da illuminare a conoscer l'errore, che col divino aiuto spero d'esser facile in tal caso ad abbandonarlo, giacché ora, se erro, non erro per passione.

Ma veniamo al nostro punto, se sia lecito l'uso dell'opinione egualmente probabile. Dice il mio oppositore ch'io non mi dia a credere d'aver proposto al pubblico un sistema nuovo, dicendo col p. Eusebio Amort, mio contemporaneo scrittore, che non è lecito già seguire l'opinione benigna quando ella è notabilmente e certamente meno probabile, ma che solo possiamo di quella servirci quando è egualmente o quasi egualmente probabile; attesoché (dice) niun de' probabilisti asserisce essere lecito seguire la tenuamente o dubbiamente probabile. Rispondo. Io non ho pretesopretendo di far sistemi nuovi; e so bene che niun probabilista di dottrina soda per lecito l'uso della tenuamente o dubbiamente probabile: ma perché i molti probabilisti indistintamente dicono potersi seguire la meno probabile


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quando vi è qualche appoggio di ragione o di autorità, perciò ho voluto distinguere col dire che non può seguirsi l'opinione men tuta quando è molta ed è certa la preponderanza per la più tuta (e mi spiego: sempre che l'opinione è dubbiamente meno probabile, allora o è egualmente probabile o molto poco meno probabile; all'incontro, quando l'opinione è certamente meno probabile, io intendo che allora è sempre notabilmente meno probabile); perché allora l'opinione men tuta non può dirsi certamente probabile, né la legge in tal caso può dirsi dubbia con dubbio stretto: ma quando poi la preponderanza è piccola e dubbiosa per l'opinione che sta per la legge, allora l'opinione che sta per la libertà ben può chiamarsi egualmente probabile, per l'assioma comune, insegnatomi dallo stesso p. lettore, che parvum pro nihilo reputatur; e l'opinione che sta per la legge allora è strettamente dubbia.

Due sono i fondamenti sui quali io ho appoggiata la certezza del principio da me assunto, che la legge dubbia non obbliga; da che poi si deduce che nel concorso di due opinioni egualmente o quasi egualmente probabili non siamo tenuti di attenerci alla più sicura. La legge dubbia (io dico) non obbliga, prima, perché non è abbastanza


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promulgata; e questo è il primo fondamento. Per secondo non obbliga, perché, essendo incerta la legge, non può ella indurre una obbligazione certa; e questo è il secondo fondamento.

Ora il p. lettore nella sua risposta concede già che col principio riflesso quand'egli fosse certo, ben può formarsi il dettame o sia giudizio moralmente certo dell'onestà dell'azione. Concede ancora in più luoghi della sua risposta che, se fosse vero il principio da me assunto, che la legge dubbia non è legge, perché non è legge che obbliga, ben sarebbe lecito l'uso dell'opinione benigna. Specialmente nella pag. 40 dice così: «Proposto in questa maniera e sotto di questo aspetto, è quel solo in verità che dar potrebbe, se fosse vero, un sodo appoggio e fondamento alla vostra sentenza; chiaro essendo, che se la legge non fossevi nel caso di dubbio o di contrasto di opinioni anche egualmente probabili, ognuno con sicurezza di coscienza potrebbe appigliarsi all'opinione che più gli piace.» Egli però per falso il mio principio e per falsi tutti e due i fondamenti o sieno ragioni colle quali io ho cercato di provarlo. Bisogna dunque esaminare le opposizioni ch'egli fa alle mie ragioni e vedere quali prevagliano.




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