Copertina | Indice: Generale - Opera | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
S. Alfonso Maria de Liguori Apologia contro Adelfo Dositeo (Difesa...) IntraText CT - Lettura del testo |
§ I. - Si risponde alle opposizioni fatte al primo fondamento, cioè che la legge dubbia non obbliga perché non è abbastanza promulgata.
Il p. Paolo Segneri in una delle sue lettere scritte a favore del probabile, epist. 1, §2, dice così: «Fino a che la legge persiste entro a' termini di contrasto, non è ancor legge, è opinione; e s'è opinione, non è legge. Fino a che è probabile non esservi una tal legge, è indubitato che una tal legge non v'è, perché non è promulgata a segno che basti.» Or questa prima ragione del mio principio, che la legge dubbia non è legge che obbliga perché non è promulgata abbastanza, in primo luogo vien combattuta dal mio oppositore: io all'incontro credeva di averla troppo chiaramente provata nella mia dissertazione coll'autorità di più teologi e specialmente del Maestro angelico. Ma perché dice il p. lettore che i testi di S. Tomaso da me addotti o sono fuor di proposito o malamente intesi, è necessario ch'io qui li ripeta e di nuovo li trascriva.
S. Tomaso, p. 2, qu. 90, a. 1, dice che la legge è una certa regola e misura secondo
la quale s'induce l'uomo ad operare, oppure si astiene dall'operare. Quindi insegna poi nell'art. 4 che questa legge, acciocché obblighi i sudditi ad osservarla, dee esser loro fatta nota colla promulgazione; non essendo altro la legge che ordinatio rationis promulgata, come dallo stesso S. Tomaso vien definita la legge. Propone ivi il Santo prima il quesito: Utrum promulgatio sit de ratione legis. E risponde così: Lex imponitur aliis per modum regulae et mensurae; regula autem et mensura imponitur per hoc quod applicatur his qui regulantur et mensurantur. Unde ad hoc quod lex virtutem obligandi obtineat, quod est proprium legis, oportet quod applicetur hominibus, qui secundum eam regulari debent. Talis autem applicatio fit per hoc quod in notitiam eorum deducitur ex ipsa promulgatione. Sicché la legge non obbliga se non dopo ch'ella è applicata agli uomini. E tal applicazione quando si fa? Si fa, dice S. Tomaso, quando la legge s'intima ad essi colla notizia che dalla stessa promulgazione ricevono. E parlando il Santo della legge di natura, dice che la di lei promulgazione si fa quando l'uomo la conosce col lume naturale della ragione: Promulgatio legis naturae est ex hoc ipso quod Deus eam mentibus hominum inseruit naturaliter cognoscendam.
Lo stesso dopo S. Tomaso insegnano comunemente i teologi, come scrive il p. Gonet, in clypeo theol., tom. 3, disp. 1, a. 4, § pr., n. 55, il quale nell'art. 3, n. 47 dice che intanto si dà l'ignoranza invincibile de' precetti naturali rimoti da' primi principi, in quanto che questi precetti rimoti non sono promulgati a tutti gli uomini: Lex enim (scrive) vim obligandi non habet, nisi applicetur hominibus per promulgationem: sed lex naturalis non promulgatur omnibus hominibus quantum ad omnia praecepta quae sunt remotissima a primis principiis; ergo non obligat omnes quantum ad illa praecepta. Subindeque potest dari de illis ignorantia invincibilis et excusans a peccato. Similmente il card. Gotti scrive: Ad hoc ut lex in actu secundo obliget, requiritur quidem indispensabiliter, ut subditis promulgatione proponatur. Theol. to. 2, tract. 5 de leg., qu. 1, dub. 3, §3, n. 31. Lo stesso scrivono Francesco Silvio, in 1, 2, qu. 90, art. 4, ed altri molti comunemente, de' quali appresso riferiremo distesamente le parole. Dunque, secondo d. Tomaso e tutt'i teologi, la legge non promulgata ed applicata colla sua notizia all'uomo non ha virtù di obbligarlo; e la legge che non obbliga, ben dice il p. Segneri che non è legge, perché non ha la proprietà di legge, quod est
proprium legis, come scrive l'Angelico; o pure, come scrive lo stesso mio oppositore, non ha il carattere essenziale di legge, per la ragione che S. Tomaso accenna nell'art. 1 della quest. 90, dove dice: lex dicitur a ligando: dunque la legge che non lega non è legge. Or, acciocché la legge possa dirsi promulgata abbastanza, è necessario ch'ella sia talmente proposta che non possa prudentemente dubitarsi della sua esistenza. Quando poi vi sono due opinioni probabili, una che afferma, l'altra che nega esservi la legge, allora non può mai dirsi promulgata la legge a segno che basti; perché allora vien solamente promulgato sufficientemente il dubbio o sia la questione se vi è o non vi è la legge. Il dire poi che non vi è legge o non vi è legge che obbliga ella è questione di puro nome, che niente accresce o diminuisce di peso al nostro punto. Ho voluto qui notar ciò perché il p. lettore vuol far vedere che nel contrasto di due probabili il dire che allora non v'è legge sia una proposizione che fa orrore: a noi basta dire che allora non v'è legge che obbliga. Del resto l'uno e l'altro in sostanza è la stessa cosa, mentre dice S. Tomaso nel luogo citato di sopra che il proprio della legge è
di legare ed obbligare: Ad hoc ut lex virtutem obligandi obtineat, quod est proprium legis, etc.
Vediamo quel che oppone a ciò il p. lettore. Egli dice che, per dirsi la legge promulgata abbastanza, basta che vi sia la notizia probabile che esista la legge. Ma io rispondo che ciò al più può correre quando questa notizia probabile vi fosse solamente per parte della legge: ma quando vi è la notizia ancora probabile che non v'è legge, da tali notizie contrarie altro non risulta che un mero dubbio dell'esistenza della legge, come lo suppone per certo lo stesso mio oppositore in questa medesima sua risposta; e quando si dubita se per qualche caso esiste o no la legge, allora è certo che per quel caso la legge non è promulgata abbastanza.
Indi, vedendo che alla prima opposizione è patente la risposta, fa la seconda e dice che altra è la promulgazione, altra la divulgazione della legge o sia la notizia privata che ne hanno i sudditi. È vero, dice, che per costituire la legge è necessaria la promulgazione, ma non è necessaria la notizia privata de' sudditi; perché la legge, subito ch'è promulgata, acquista la sua virtù di obbligare, ancorché i sudditi non ne abbiano avuta ancora la notizia. E parlando in primo luogo delle leggi umane, dice che queste,
affinché sieno vere leggi ed abbastanza promulgate, sì che possano obbligare, non si richiede che ciascun suddito ne abbia la cognizione, ma basta che sieno pubblicate alla comunità con qualche segno esteriore, come con farle pubblicare per mezzo del banditore o con affiggerle ne' luoghi pubblici; perché allora la legge ben obbliga anche coloro a cui non è pervenuta la notizia, e rende già illecito l'oggetto vietato dalla legge; benché alcun particolare sia scusato dalla colpa se trasgredisce la legge quando invincibilmente l'ignora. E ciò siegue a provarlo a lungo con S. Tomaso, col testo del cap. 1 del postul. praelat. e coll'autorità ancora del p. Suarez e d'un altro probabilista il p. Rasler.
Ma non bisognava affaticarsi tanto a provar questo punto, che nelle leggi umane basta che la legge sia stata in verità promulgata alla comunità acciocché ella obblighi ciascun suddito in particolare; perché ciò niuno glielo nega. Ma non sappiamo che cosa voglia da ciò dedurne il p. lettore: forse che siccome in tal caso tutti son tenuti di stare alle leggi umane, così anche son tenuti di stare tutti alle leggi divine, quantunque elle sieno loro ignote? Ma la differenza è manifesta: perché in tanto è tenuto ciascuno di stare alla legge umana già
promulgata alla comunità, ancorché l'ignori, in quanto che la legge, da che è stata promulgata, già ha acquistata tutta la forza di obbligare: benché dice il Gaetano, anche parlando delle leggi umane, che allora sono a quelle obbligati i sudditi quando han trascurato colpevolmente di saperle: Absentes a promulgatione obligari, si, cum possent, noluerunt scire a praesentibus. 1, 2, q. 90, a. 4. Ma parlando poi delle leggi divine, quando si dubita con giusto fondamento dell'esistenza di qualche legge, allora è certo che la legge non è abbastanza promulgata, e per conseguenza è certo che non obbliga; perché la legge non promulgata non ha virtù di obbligare.
Ma no, replica il p. lettore, le leggi divine sono state già promulgate ab aeterno, e sino ab aeterno hanno avuta la virtù perfetta di obbligare. Ma, per vedere se questa sua proposizione è valida o no e se è conforme alla dottrina di S. Tomaso, bisogna ch'io qui prima trascriva tutto quel che il mio oppositore dice su questo punto, e poi bisogna esaminarlo a lungo e confrontarlo con quel che dice S. Tomaso. Ecco come parla il p. lettore alla pag. 22: «Dalle leggi umane passiamo alle leggi divine. La nozione della legge eterna di Dio, ch'è la principale e la sorgente di tutte le altre, ci viene con
chiarezza proposta da S. Tomaso nella qu. 91, art. 1 della stessa parte 2 colle seguenti parole: Ratio gubernationis in Deo, sicut in principe universitatis existens, legis habet rationem. Et quia divina ratio nihil concipit ex tempore, sed habet aeternum conceptum, ut dicitur Proverb. 8, inde hujusmodi legem oportet dicere aeternam. Da quanto scrivete, monsignore, alla pag. 29, sembra che vogliate mettere in dubbio se questa legge eterna sia con rigore e proprietà vera legge e se abbia promulgazione sufficiente per costituirla tale. Ma la cosa è troppo indubitabile e chiara nella dottrina del santo maestro, siccome altresì de' teologi. Conciosiaché, avendosi S. Tomaso opposto l'argomento, che, essendo la promulgazione di ragion della legge, non poté la legge eterna essere promulgata dall'eternità, in cui nessuno v'era al quale promulgar si potesse, risponde in tal foggia: Dicendum quod promulgatio fit et verbo et scripto: et utroque modo lex aeterna habet promulgationem ex parte Dei promulgantis; quia et Verbum divinum est aeternum, et Scriptura libri vitae est aeterna: sed ex parte creaturae audientis et inspicientis non potest esse promulgatio aeterna. Dal che è più che evidente che riconosce la legge eterna qual vera e propria legge cui nulla manca ab aeterno per essere veramente
promulgata, comunque dall'eternità non vi fossero creature che l'udissero o la conoscessero.
Laonde que' teologi che han trattata di proposito la materia osservano questa essere la differenza tra le leggi divine ed umane, che le leggi umane, perché siano propriamente leggi, devono promulgarsi formalmente a' sudditi, cioè con qualche segno esteriore e formalità destinata a manifestare la volontà del principe; ma altrettanto non è necessario per le leggi divine, bastando per esse la promulgazione che chiamano causale, virtuale ed eminente, per cui intendono un atto a Dio intrinseco ed immanente, il quale è cagione che inferisce nel tempo la promulgazione eziandio formale. Ed in quell'atto intrinseco a Dio ed immanente insegnano che consiste la legge eterna, e non già nella promulgazione o intimazione formale, che n'è l'effetto, la quale appartiene all'essenza della legge umana. E la ragione che assegnano di questa differenza si è perché il decreto dell'eterno legislatore è fermo ed affatto immutabile e, in vigore della sua infinita efficacia, porta con seco stesso ed inferisce infallibilmente nel tempo l'esterna e formale promulgazione della legge e la virtù adequata e perfetta di obbligare i sudditi; là dove il decreto del legislatore umano di
manifestare la sua volontà ai sudditi, siccome è per sé stesso mutabile e può essere in molte guise impedito, così non ha fermezza e stabilità sufficiente per la legge, prima che abbia reso formalmente manifesto il suo volere con qualche segno esterno e sensibile che la promulghi. Comunque però sia di questa ragione addotta dai teologi, è certo, secondo S. Tomaso, che la legge eterna di Dio ha tutto ciò che richiedesi per essere propriamente legge, prima ch'egli nel tempo la facesse nota alle sue creature.
Che se, monsignore, la legge eterna di Dio con rigore e proprietà è legge ed ha tutta quella promulgazione che per esser tale richiedesi, voi ne potete quindi facilmente raccogliere che di tal ragione pur goda quella che naturale si appella. Imperocché cosa è ed in che consiste la legge naturale secondo S. Tomaso? Egli ce ne dà la sua propria idea nella medesima questione 91, art. 2, ove, dopo di aver osservato che tutte le creature participant aliqualiter legem aeternam, in quantum scilicet ex impressione ejus habent inclinationes in proprios actus et fines, venendo a parlar in particolare della creatura ragionevole, insegna che siccome questa in un modo più eccellente delle altre è soggetta alla providenza divina, così da essa con maniera speciale si partecipa: Ratio aeterna,
per quam habet naturalem inclinationem in debitum actum et finem: et talis participatio, soggiunge, legis aeternae in rationali creatura lex naturalis dicitur. Unde cum Psalmista dixisset: Sacrificate sacrificium justitiae, quasi quibusdam quaerentibus quae sunt justitiae opera, subjungit: Multi dicunt: Quis ostendit nobis bona? cui quaestioni respondens dicit: Signatum est super nos lumen vultus tui, Domine: quasi lumen rationis naturalis quo discernimus quid sit bonum et quid malum, quod pertinet ad naturalem legem, nihil aliud sit quam impressio divini luminis in nobis. Unde patet quod lex naturalis nihil aliud est quam participatio legis aeternae in rationali creatura. Non è dunque la legge naturale una legge diversa dalla legge eterna, come voi, monsignore, vi date a credere; ma una participazione di questa divina legge. E voi potevate vie più chiaramente vederlo nella risposta del Santo al primo argomento, ove, essendosi fatta l'obiezione, che d'uopo non v'era di legge naturale perché al governo dell'uomo bastava la legge eterna, la scioglie con dire quod ratio illa procederet, si lex naturalis esset aliquid diversum a lege aeterna: non autem est, nisi quaedam participatio ejus. Questa legge naturale pertanto, che non è diversa dalla legge eterna, non consiste in
altro, se non se nell'impressione del divin lume nelle menti create che loro palesa quello che si deve fare o fuggire col mezzo di certi generali dettami o giudizi assoluti e necessari del bene e del male, come sono, per cagione d'esempio: Bonum est faciendum- malum est fugiendum- Deus est colendus- parentes honorandi- quod tibi non vis fieri, alteri ne feceris etc., dai quali se ne ricavano mille e mille conclusioni morali appartenenti al diritto naturale per regola delle nostre azioni. E questa impressione fatta in noi del lume divino si chiama da S. Tomaso promulgazione della legge naturale nella q. 80, art. 4 ad 1, ove dice: Promulgatio legis naturae est ex hoc ipso quod Deus eam mentibus hominum inseruit naturaliter cognoscendam. Questa in breve è la netta, chiara e distinta dottrina del santo Dottore intorno la natura delle leggi umane e divine e la loro promulgazione: e voi, monsignore, potevate risparmiarvi la fatica di registrare quei molti testi che compariscono nel vostro libretto, i quali nulla giovano a rischiare questo punto, e sono o inutili o fuor di proposito o malamente intesi e spiegati»
In conclusione dunque dice qui il p. lettore che la differenza che corre tra la legge umana e la divina è che la legge umana, per esser propriamente legge, dee promulgarsi
a' sudditi formalmente, cioè con qualche formalità destinata a manifestare la volontà del principe; ma per le leggi divine basta la promulgazione casuale ed eminente, perché il decreto divino (ecco la ragione di questa dottrina non ancora intesa) porta seco stesso la formale promulgazione della legge e dà alla legge virtù perfetta di obbligare gli uomini futuri, ancorché non ancora abbiano essi avuti alcuna cognizione della legge. Onde con enfasi soggiunge: «È certo che secondo S. Tomaso la legge eterna di Dio ha tutto ciò che richiedesi per essere propriamente legge, prima ch'egli nel tempo la facesse nota alle creature.»
Dunque, secondo il p. lettore e secondo quei suoi teologi che han trattata (come dice) di proposito la materia, la legge eterna non solo ha tutta la proprietà compita di legge, ma di più ha tutta la promulgazione necessaria per obbligare prima che tal legge eterna nel tempo si facesse nota alle creature! Ma io trovo che una tal dottrina è contraria a S. Tomaso ed a tutti i teologi che trattano di proposito questa materia. Da questo punto dipende la fermezza della nostra sentenza: onde, per chiarirlo bene, mi bisogna rispondere a lungo. Rispondo dunque ed asseverantemente dico che il mio oppositore, per quanto rivolterà tutti i teologi
che trattano di proposito questa materia, non troverà alcuno che mai abbia scritto questo ch'egli dice, cioè che la legge eterna abbia avuta sino ab aeterno tutta la sua perfetta promulgazione necessaria per obbligare, sì che ab aeterno abbia obbligati gli uomini futuri. Troverà bensì chi dice, come vedremo, che la legge eterna non è stata propriamente legge, ma più presto una legge o, per meglio dire, una regola proposta da Dio a sé stesso, come regolante il governo delle creature. Al più troverà chi dice che la legge eterna sebbene è stata vera legge, non è stata mai però legge obbligante ab aeterno, ma solo destinata ad obbligare nel tempo per quando sarebbe stata ella applicata e promulgata attualmente alle creature per mezzo della legge di natura, cioè coll'impressione del lume naturale. Ma niuno mai ha detto che questa legge ha obbligati e legati gli uomini ab aeterno prima che fosse loro attualmente manifestata.
In quel che scrive poi il p. lettore, che la legge divina, affinché obblighi, non richiede la promulgazione formale, fatta con particolare formalità di pubblicazione scritta o solennemente intimata, in ciò siamo d'accordo. Ma se coll'escludere tal promulgazione formale pretende che la legge divina obblighi l'uomo prima che quella gli sia
applicata colla di lei notizia, questa è una dottrina, la quale se si abbracciasse, tenendo che basta per obbligare gli uomini quella promulgazione causale o sia virtuale, primieramente non potrebbe darsi più alcuna ignoranza invincibile delle leggi divine, ancorché remotissime da' primi principi; il che è contrario (come vedremo appresso) al comun sentimento de' teologi. Ma inoltre quel che più importa è ch'ella è una dottrina non secondo S. Tomaso, ma espressamente contraria a quel che insegna il Santo, 1, 2, qu. 90, a. 4, dove dice che la legge, essendo una regola ed una misura con cui dee il suddito regolarsi e misurarsi, acciocché ella possa obbligarlo, dee applicarsi al medesimo: Unde ad hoc quod lex virtutem obligandi obtineat, quod est proprium legis, oportet quod applicetur hominibus, qui secundum eam regulari debent. E dice che tal applicazione allora si fa quando l'uomo riceve la cognizione della legge per mezzo della stessa promulgazione: Talis autem applicatio fit per hoc quod in notitiam eorum deducitur ex ipsa promulgatione. Dunque la legge, prima che sia all'uomo applicata colla di lei notizia, non è legge che obbliga. E soggiunge nella risposta alla prima obiezione che lo stesso corre per la legge naturale, la quale anche ha bisogno di promulgazione
per obbligare; ma questa promulgazione quando si fa? Ecco come risponde il santo Dottore: Promulgatio legis naturae est ex hoc ipso quod Deus eam mentibus hominum inseruit naturaliter cognoscendam. Dunque la legge naturale allora si promulga agli uomini ed allora gli obbliga quando attualmente viene loro manifestata coll'impressione del lume naturale.
E così appunto intende la mente del Maestro angelico il dottissimo Francesco Silvio sovra il citato articolo, dicendo: Actualiter tunc (lex) unicuique promulgatur quando cognitionem a Deo accipit dictantem quid juxta rectam rationem sit amplectendum, quid fugiendum. In 1, 2, q. 90, a. 4 in fin. Così anche l'intende il card. Gotti: Ad hoc ut lex in actu secundo obliget, requiritur quidem indispensabiliter ut subditis promulgatione proponatur. Theol. t. 2, tract. 5 de leg., qu. 1, dub. 3, §3, n. 31. Si noti: ad hoc ut in actu secundo obliget. Così anche il p. Fulgenzio Cuniliati, il quale dopo aver detto: Legis violatores non sunt illi quibus nondum lex innotuit, dice: Actualis legis naturalis promulgatio evenit quando quis a Deo cognitionem accipit dictantem quid juxta rationem naturalem sit vel fugiendum vel amplectendum. Tract. 1 de reg. mor., cap. 2, §1, n. 5 et § 3, n. 1. Così
anche l'intendono tanti altri teologi, de' quali appresso addurremo le autorità tutte uniformi, col p. Gonet, il quale scrive nel luogo riferito di sovra esser questa sentenza comune de' teologi. Dunque prima che la legge divina sia manifestata all'uomo coll'impressione della ragion naturale, ella non obbliga; poiché siccome la legge eterna non può obbligare ab aeterno che ab aeterno non esiste, così neppure può obbligare nel tempo chi nel tempo non ha cognizione della legge. Ha sì bene la legge divina tutta l'efficacia di farsi conoscere con chiarezza dall'uomo quando Dio vuole; ed allorché si è promulgata abbastanza, certamente obbliga; ma non quando ella resta oscura e dubbiosa. Ma come poi può dirsi ch'ella obblighi e che sia abbastanza promulgata quando è probabile ch'ella neppure vi sia? Tutto l'equivoco del p. lettore consiste nel dire che la legge obbliga sempre che esiste; ma no, perché la legge, per obbligare, bisogna che ancora sia bastevolmente ed attualmente promulgata.
Ma dice il p. lettore: non è questa la mente di S. Tomaso; la mente di S. Tomaso si è che la legge naturale, essendo una partecipazione della legge eterna, ella sino ab aeterno ha avuta tutta quella promulgazione che richiedeasi per esser legge e per obbligare gli uomini futuri. E qui adduce il testo di
S. Tomaso: Dicendum quod promulgatio fit et verbo et scripto: et utroque modo lex aeternam habet promulgationem ex parte Dei promulgantis; quia et Verbum divinum est aeternum et Scriptura libri vitae est aeterna. Sed ex parte creaturae audientis et inspicientis non potest esse promulgatio aeterna. Sicché dice il mio oppositore che se la legge eterna fino ab aeterno è stata già promulgata, dunque sine ab aeterno ha avuta la virtù di obbligare. Ma questa conseguenza è quella che noi neghiamo; e perché? perché S. Tomaso immediatamente ivi soggiunge quelle altre parole: Sed ex parte creaturae audientis et inspicientis non potest esse promulgatio aeterna. Dunque sebbene la legge eterna è stata ab aeterno promulgata ex parte Dei promulgantis perché la ragione dell'ordine delle cose create, quale appunto da S. Tomaso è definita la legge eterna, ratio gubernationis rerum, è stata sempre presente alla sua mente divina (benché una tal promulgazione dicesi tale impropriamente, poiché non può mai dirsi vera e propria promulgazione di legge quella che si fa dal legislatore a sé stesso), nondimeno questa legge eterna non ha avuta la ragione compita di legge né è stata legge obbligante se non dopo ch'è stata applicata agli uomini colla promulgazione ex parte creaturae audientis
aut inspicientis, cioè se non dopo che la legge è stata intimata all'uomo o per udito o per intelligenza della ragion naturale, secondo S. Tomaso spiegò (come abbiam veduto di sovra) quando disse che la legge divina anche ha bisogno di promulgazione per esser legge obbligante, e che questa promulgazione est ex hoc ipso quod Deus eam mentibus hominum inseruit naturaliter cognoscendam.
Sicché la promulgazione della legge è un'applicazione della legge. Ma l'applicazione della legge suppone per necessità l'esistenza attuale de' sudditi a cui s'applica la legge. Dunque, se pure il p. lettore non volesse che gli uomini fossero stati ab aeterno, non può dirsi che la promulgazion della legge rispetto agli uomini sia stata eterna. È stata eterna la legge che doveasi promulgare agli uomini futuri, ma non è stata eterna agli uomini l'obbligazione d'osservarla, se non dopo che loro attualmente è stata promulgata; poiché la promulgazione non precede, ma suppone la libertà della creatura ragionevole. La promulgazion della legge, riguardo all'ubbidienza è come la rivelazione de' misteri riguardo alla fede. Siccome dunque, benché sia eterna la divina volontà di obbligarci a credere le verità della fede, non siamo però obbligati a crederle, se non dopo
la certa rivelazione a noi fatta, né perciò può dirsi eterna la rivelazione perché è eterna quella volontà divina; così quantunque fosse eterna la volontà di Dio di obbligarci a fare o evitare la tale azione, non siamo però tenuti ad ubbidire se non dopo che ci è promulgata la legge; e pertanto non può dirsi eterna questa promulgazione perché è eterna la volontà divina di obbligarci a quella cosa.
Inoltre S. Tomaso in altro luogo, 1, 2, q. 19, a. 4, dopo aver ripetute le parole del salmo 4, Multi dicunt: quis ostendet nobis bona? signatum est super nos lumen vultus tui, Domine, soggiunge: Quasi diceret: lumen rationis, quod in nobis est, in tantum potest nobis ostendere bona et nostram voluntatem regulare, in quantum est lumen vultus tui, idest a vultu tuo derivatum. Ecco dunque che la legge divina secondo la quale noi dobbiamo regolare la nostra volontà, non è la legge eterna, come vuol farci credere il p. lettore, promulgata ab aeterno con quella sua promulgazione causale ed eminente ch'è un atto intrinseco a Dio, ma è la legge eterna e che a noi con vera promulgazione formale si promulga allorché ci vien manifestata per mezzo del lume della ragione. Altrimenti come mai può intendersi che il lume
della nostra ragione sia un atto intrinseco a Dio? oppure che un atto intrinseco a Dio ed occulto a noi, qual è la promulgazione eterna, possa essere a noi regola da regolar la nostra volontà e che ci renda obbligati ad osservarla prima ch'ella ci sia manifestata? Sicché la legge eterna, secondo S. Tomaso, allora si fa legge che obbliga quando ci viene applicata col lume della ragione.
Lo stesso poi dicono gli altri teologi e discepoli di S. Tomaso. Così scrive il card. Gotti: Lex aeterna in actu secundo neminem obligavit, non ex defectu virtutis, sed ex defectu termini; sicut ab aeterno non obligans nec ligans, quia nondum applicata et promulgata. Theol. to. 2, tr. 5, qu. 2, dub. 1, n. 13. Si noti: non obligans nec ligans, quia nondum applicata et promulgata. Lo stesso scrisse in altro luogo: Ad hoc ut lex in actu secundo obliget, requiritur quidem indispensabiliter ut subditis promulgatione proponatur. Ed ivi ne apporta la ragione intrinseca, dicendo: Sicut mensura in actu secundo non mensurat, nisi mensurabili applicetur. Loc. cit., qu. 1, dub. 3, §3, n. 18. Siccome dunque la misura non può far l'officio suo di misurare se non quando attualmente s'applica a colui che dee misurarsi,
così la legge non obbliga se non quando attualmente si fa nota a chi con quella dee regolarsi. Così anche scrive Onorato Tournely: Quia tamen lex ante creaturarum exsistentiam vere obligans non fuit, cum nihil esset ad extra quod ea obligaretur, palam est rationem completam legis tunc tantum ei competere potuisse cum exstiterunt creaturae, quibus fuit lex promulgata aut saltem quae impressione ipsius moveri coeperunt. Praelect. theol. to. 2, c. 2, qu. 3. Lo stesso scrive il p. Gio. Lorenzo Berti, theol. lib. 2, de leg., cap. 3, n. 2 in fin., dicendo che la legge eterna non fu legge obbligante ma apparecchiata ad obbligare nel tempo quando sarebbe stata promulgata agli uomini: Nos promulgationem nihil aliud intelligimus, nisi paratae jam legis propositionem et publicationem; aeternam legem institutam dicimus ante tempora saecularia, promulgatam vero in temporum conditione. Lo stesso scrive Francesco Silvio: Actualiter tunc unicuique (lex aeterna) promulgatur quando cognitionem a Deo accipit dictantem quid juxta rectam rationem sit amplectendum, quid fugiendum. 1, 2, qu. 90, a. 4 in fin. E quindi dice appresso in altro luogo che la legge eterna ab aeterno fu legge solo materialmente, ma non formalmente, cioè che obbligasse; sicché da quella non restò già legato
l'uomo, perché non vi fu l'attuale e perfetta promulgazione: Lex aeterna fuit ab aeterno lex materialiter: non fuit tamen ab aeterno formaliter seu sub ratione legis actualiter obligantis, quia tunc non fuit actualis et perfecta promulgatio. 1, 2, qu. 91, a. 1 ad 2. Così anche scrive il p. Gonet, asserendo che ciò è comunemente insegnato da' teologi. Clyp. to. 3, disp. 1, a. 4, §1, n. 55, e nell'art. 3, n. 47. E perciò scrive (come riferimmo di sovra) che ben può darsi l'ignoranza invincibile de' precetti naturali rimoti da' primi principi, perché tali precetti, benché dipendenti dalla legge eterna, non hanno avuta virtù di obbligare gli uomini prima d'esser applicati loro colla promulgazione attuale, dicendo: Sed lex naturalis non promulgatur omnibus, hominibus quantum ad omnia praecepta.... Ergo non obligat omnes quantum ad illa praecepta. In clyp., to. 3, d. 1, a. 4, §1, n. 55. Ma le autorità di questi teologi io già le avea riferite distesamente nella mia dissertazione: come poi il p. lettore ha potuto dire che così S. Tomaso come i teologi erano a me contrari? Se quelli da me addotti non erano meco, egli era obbligato a dimostrarlo a me ed a chi legge: se poi erano meco, dovea contro di loro diriger le querele con dire: «Erra Silvio, erra Gonet, erra Gotti, erra Berti ed
erra Tournely»; e non dire: «Ma la cosa è troppo indubitabile e chiara nella dottrina del santo Maestro, siccome altresì de' teologi.»
Ma essendosi osservati altri autori, si sono ritrovate dottrine più espresse che confermano tutto ciò che da noi si è detto. Andrea Duvallio dottore della Sorbona, in 1, 2, S. Thom., de leg., qu. 2, pag. 293, si fa l'opposizione stessa di S. Tomaso, che, non essendo eterne le creature, non poteva esservi legge eterna; e risponde: Respondetur: legem aeternam, spectatam ad intra, esse ab aeterno in intellectu Dei; ad extra vero, esse tantum in tempore, sicut creaturae ipsae sunt tantum in tempore.- Lex aeterna non refert Deum in finem, sed tantum creaturas, quibus in tempore fuit imposita et impressa. Indi pag. 296 fa il dubbio: Postremo dubitabis an ipsa lex (aeterna) semper habuerit et habeat veram et propriam rationem legis. Risponde il p. lettore che sì; ma Duvallio e gli altri (come vedremo appresso) non dicono così: Respondeo: in tempore, quando productae sunt creaturae, habere de facto rationem legis, siquidem vere et proprie omnibus creaturis tanquam subditis est indita et imposita; si tamen ab aeterno spectetur, dicendum est eam non esse vere et proprie legem, sed tantum aliquid quod se habeat
instar legis (e sentiamo la ragione): tum quia de ratione verae legis est ut imponatur et promulgetur subditis; nulli autem fuerunt subditi ab aeterno: tum quia lex essentialiter est regula quaedam practica; haec autem regula non potuit imponi Verbo et Spiritui Sancto, quia ipsimet sunt regula et rectitudo ipsa: non potuit etiam creaturis imponi, cum hae ab aeterno non fuerint. Lo stesso scrive Pietro de Lorca, in 1, 2 S. Thom., disp. 5, membr. 2, dicendo che la legge eterna non è propriamente legge a rispetto delle creature: Si quomodo autem lex aeterna respicit creaturas, remote respicit, quatenus a Deo moventur et gubernantur, non vero quia sit imperium in creaturas latum, aut quia proponatur ipsis ut regula qua suas actiones mensurare et componere possint.- Lex aeterna non est principium et ratio agendi alicui qui legi subditus sit, neque est illi regula proxima suarum actionum; sed est ratio agendi ipsi Deo et regula divinarum actionum qua mundum gubernat. Si cui ergo esset lex, esset Deo. E parlando di quelle parole di S. Tomaso, et verbo et scripto, dice: Expressio illa in Verbo divino aeterna fuit in Deo, necessitate naturae facta, et non relata ad aliquas creaturas, quod promulgatio legis requirit; semper enim promulgatio legis ad subditos refertur. Lo
stesso scrive Lodovico Montesino, disp. 20, de leg., q. 4, n. 83, pag. 494, dicendo che la legge eterna non è legge né regola per le creature, ma solo per Dio stesso: Resp.: hujusmodi legem aeternam promulgatam esse ab aeterno ipsimet Deo... Deus sibimet est lex et sibi est regula; et ita intelligimus Deum sibi promulgare legem etc. Lo stesso scrive Jodoco Lorichio, thesaur. novus utr. theol., verb. Lex, n. 6, parlando della legge eterna: Hac lege Deus omnia ordinat ad seipsum, et est promulgata apud ipsum ab aeterno; hominibus autem promulgatur quando eis innotescit. Or come dunque si accorda quel che dicono tutti questi teologi con quel che dice il p. lettore «che la legge eterna di Dio ha tutto ciò che richiedesi per essere propriamente legge, prima ch'egli nel tempo la facesse nota alle sue creature?» E poco appresso replica: «La legge eterna di Dio con rigore e proprietà è legge ed ha tutta quella promulgazione che per essere tale richiedesi.» Ma ciò non trovo che lo dica altri ch'egli solo; gli altri (come abbiam veduto) dicono che la legge eterna non è propriamente legge a rispetto delle creature, se non dopo che per mezzo del lume naturale è loro proposta e manifestata.
Ma per vedere più chiaramente quel ch'io dicea, cioè che la legge eterna, ancorché fosse
stata vera e propria legge, almeno non è stata sino ab aeterno legge obbligante, si consideri quel che dice S. Tomaso in altro luogo, 1, 2, q. 91, a. 2. Ivi insegna che quantunque la legge naturale non è diversa dalla legge eterna (cosa non mai da me negata), nondimeno la legge naturale è quella che obbliga l'uomo, non l'eterna: appunto perché la legge naturale è quella che si promulga e s'applica attualmente all'uomo coll'impressione della ragion naturale, non già l'eterna. Vediamolo. Il Santo propone ivi il quesito: Utrum sit in nobis aliqua lex naturalis: E risponde: Respondeo: dicendum quod lex, cum sit regula et mensura, dupliciter potest esse in aliquo: uno modo sicut in regulato et mensurato; quia in quantum participat aliquid de regula, sic regulatur.... Et talis participatio legis aeternae in rationali creatura lex naturalis dicitur. Soggiunge poi il santo Dottore che tal partecipazione della legge eterna si fa quando s'imprime in noi il lume divino: Unde cum Psalmista dixisset: Sacrificate sacrificium justitiae, quasi quibusdam quaerentibus quae sint justitiae opera, subjungit: Multi dicunt: Quis ostendet nobis bona? Cui quaestioni respondens dicit: Signatum est super nos lumen vultus tui, Domine: quasi lumen rationis naturalis, quo
discernimus qui sit bonum et quid malum, quod pertinet ad naturalem legem, nihil aliud sit quam impressio divini luminis in nobis. Unde patet quod lex naturalis nihil aliud est quam participatio legis aeternae in rationali creatura.
Dice dunque per prima S. Tomaso che secondo la creatura ragionevole partecipa alcuna cosa della legge eterna per mezzo della legge naturale, così si regola e si misura: In quantum participat aliquid de regula et mensura, sic regulatur vel mensuratur. Dice poi che la legge naturale è quella per cui s'imprime nell'uomo il lume divino, ch'è la regola e misura con cui dee egli diriger le sue azioni. Dunque, avanti che s'imprima questo lume alla mente dell'uomo per la legge naturale, non v'è legge che l'obbliga, perché non ancora egli ha ricevuta la regola con cui regolarsi. Pertanto la legge eterna, secondo S. Tomaso, è regola per Dio regolante, ma per l'uomo regolato la sua regola è la legge naturale, cioè quel lume che per mezzo della legge naturale gli viene impresso. Né tengo io già, come vuol far credere il p. lettore, che la legge naturale sia diversa dalla legge eterna; ma dico con S. Tomaso che la legge eterna è quella che lega l'uomo solamente in quanto si fa legge naturale, cioè in quanto l'uomo ne partecipa
per mezzo del lume naturale, il quale è, per così dire, il banditore per cui si promulga la legge; poiché in ciò appunto consiste, dice S. Tomaso, la promulgazione della legge naturale, nell'inserirla Iddio nelle menti umane col lume della natura, che ce la dà a conoscere: Promulgatio legis naturae est ex hoc ipso quod Deus eam mentibus hominum inseruit naturaliter cognoscendam.
E lo stesso dice Duvallio, in 1, 2, de leg., q. 3, a. 3, il quale fa il quesito: Quaeres quo tempore lex naturae unumquemque obligare incipiat. Resp.: incipere quando promulgatur; tunc autem sufficienter promulgari quando quisque annos discretionis incipit. E nella pag. 296 scrive: Quaeres quomodo nobis innotescit lex illa aeterna; quod idem est ac si quaeratur quomodo publicetur. Dico eam, ut est in creaturis tanquam subditis, per alias leges nobis innotescere, cum leges illae sint illius participationes. Lo stesso scrive Pietro de Lorca cisterciense, in 1, 2, S. Thom., disp. 5 de leg. nat., p. 386: Praecepta (naturalia) non aliter lex naturae sunt et legis vim habent quam quatenus a ratione apprehendi et judicari possunt.... Naturali enim lumine intellectus lex naturae promulgatur hominibus. Et quemadmodum promulgatio est intrinseca et essentialis humanis legibus, sic rationis judicium et cognitio
intrinseca est legi naturae. Lo stesso scrive il p. Lodovico Montesino, disp. 20 de leg. q. 4, n. 85: Lex naturalis promulgatur in unoquoque dum primo venit ad usum rationis; et quamvis pro tunc solum promulgetur ista lex quantum ad principia communissima juris naturae, tamen postea paulatim per discursum promulgatur eadem lex quantum ad alia. Lo stesso scrive Domenico Soto, de just. lib. 1, quaest. 3, art. 3: Nulla lex ullum habet vigorem legis ante promulgationem. Nullam exceptionem conclusio haec permittit... Coepit lex illa (aeterna) innotescere in mundi primordio per legem naturalem et antiquis patribus praescriptam, et denique nobis per evangelicam, quam Verbum ipsum homo factum nobis promulgavit. Lo stesso scrive Francesco di Aravio, in 1, 2, q. 90, disp. 1, sect. 5, p. 525: Promulgatio legis naturae fit per hoc quod Deus mentibus hominum eam inseruit naturaliter cognoscendam. Deinde cum lex aeterna non obliget creaturas rationales, nisi mediante lege naturali vel positiva divina vel humana, ad istarum promulgationem illa quoque sufficienter promulgatur. Ecco come tutti concludono che la legge eterna allora si promulga ed allora solamente obbliga quando per mezzo della legge naturale o positiva viene intimata all'uomo colla di lei cognizione.
Concludiamo finalmente questo punto, ripigliando quel che dice il p. lettore, e conferendolo con quel che dicono S. Tomaso e gli altri suoi discepoli che lo spiegano. Primieramente alla pag. 23 egli mi dice: «Sembra che vogliate mettere in dubbio se la legge eterna sia con rigore e proprietà vera legge e se abbia promulgazione sufficiente per costituirla tale.» Io ho detto nella mia dissertazione: diversi dotti teologi inferiscono che la legge eterna non è propriamente legge, ma più presto è la ragione delle leggi che sono state poi date nel tempo. Ma poi ho soggiunto che S. Tomaso par che voglia il contrario. Del resto tutti i discepoli di S. Tomaso, dicono che la legge eterna non è stata propriamente legge o almeno che non è stata legge obbligante, se non dopo ch'è stata intimata e promulgata agli uomini. Pietro di Lorca, commentando S. Tomaso, espressamente nota, in 1, 2, S. Thom., disp. 5, membr. 2, che la legge eterna non è propriamente legge, aggiungendo: Si cui esset lex, esset Deo. Lodovico Montesino dice che se la legge eterna è promulgata: Promulgata est ipsimet Deo.. Deus sibi est lex et sibi est regula. Andrea Duvallio dottor sorbonico, commentando anche S. Tomaso, in 2, 2, q. 2, pag. 293, scrive: Respondeo: in tempore (legem aeternam) habere de facto
rationem verae legis... Si tamen ab aeterno spectetur, dicendum est eam non esse vere et proprie legem. Bartolomeo Medina, in 1, 2, q. 91, pag. 485, scrive: Dico quod lex aeterna dicitur quia est conceptus Dei aeternus, non quod ab aeterno praecipiat. Pietro Collet, celebre continuatore del Tournely, to. 2, tract. de leg., cap. 2, pag. 17, scrive: Quia tamen lex aeterna ante creaturarum exsistentiam vere et stricte obligans non fuit, palam est rationem plenam et completam legis tunc tantum ei competere potuisse cum exstiterunt creaturae quibus intimata fuit, ac promulgata.
Siegue a dire il p. lettore: «Laonde quei teologi che han trattata di proposito la materia, osservano questa essere la differenza tra le leggi divine ed umane, che le umane, perché siano propriamente leggi, devono promulgarsi formalmente a' sudditi, cioè con qualche segno esteriore o formalità destinata a manifestare la volontà del principe; ma altrettanto non è necessario per leggi divina, bastando per esse la promulgazione che chiamano causale, virtuale ed eminente, per cui intendono un atto a Dio intrinseco ed immanente il quale è cagione che inferisce nel tempo la promulgazione eziandio formale.» Io non so perché il mio oppositore non abbia voluto farmi sapere chi sono
questi teologi che han trattata di proposito la materia e dicono che per le leggi divine basta (per obbligare) la promulgazione causale ec. Ora io dico che quantunque il p. lettore avesse ritrovati alcuni teologi che, per salvare alla legge eterna l'essere di vera legge, ricorressero a questa promulgazione causale, al certo non ha trovato né troverà mai alcuno il quale abbia detto che la legge (sia umana, sia divina) per obbligare non abbia bisogno d'esser promulgata ed attualmente intimata a sudditi. La differenza che pongono tutti tra le leggi umane richiedesi la promulgazione fatta con segni esterni, ma per le divine basta che il precetto divino facciasi noto all'uomo in qualunque modo, o per legge scritta o per lume naturale: basta, dico, ma sempre assolutamente è necessario, per obbligarlo, che il precetto in qualche modo gli sia manifestato. Quando dunque dice il p. lettore che alla legge eterna, per esser legge, basta la promulgazione causale, se intende le legge eterna la stessa ragione esistente in Dio del governo delle cose, come insegna l'Angelico, Ipsa ratio gubernationis rerum in Deo exsistens legis habet rationem, 1, 2, q. 91, a. 1, tutti glielo concediamo; ma non possiamo concedergli il dire che è bastata la promulgazione
causale a far che la legge eterna abbia legati et obbligati gli uomini prima d'essere stata loro nel tempo manifestata; mentre, come abbiam veduto di sovra, universalmente i teologi con S. Tomaso dicono che le leggi divine allora obbligando quando son fatte note agli uomini per mezzo del lume naturale.
Non bene dunque soggiunge il p. lettore: «Dal che è più che evidente che S. Tomaso riconosce la legge eterna qual vera e propria legge cui nulla manca ab aeterno per esser veramente promulgata, comunque dall'eternità non vi fossero creature che l'udissero o la conoscessero.» Indi soggiunge: «Che se la legge eterna di Dio con ragione e proprietà è legge ed ha tutta quella promulgazione che per esser tale richiedesi, voi ne potete facilmente raccogliere che di tal ragione pur goda quella che naturale si appella.» Dunque, secondo il p. lettore, così la legge eterna come la naturale obbliga e lega gli uomini prima che loro sia fatta nota. Ma questa (dico) è quella dottrina che si oppone in tutto a quel che dicono S. Tomaso e gli altri teologi. S. Tomaso insegna che la promulgazione è necessaria alla legge affinché abbia virtù di obbligare, e che la promulgazione della legge di natura si fa quando Iddio la dà a conoscere agli uomini
col lume naturale. Dice poi che la legge eterna ha la promulgazione per parte di Dio promulgante, ma non per parte della creatura che dalla legge dee esser legata; perché la legge eterna riguarda Dio regolante, ma la naturale è quella che, intimata col lume naturale, riguarda l'uomo, che con quel lume dee regolarsi. Onde saggiamente scrisse il card. Gotti che quantunque la legge naturale sia una partecipazione della legge eterna e perciò non sia diversa dalla legge eterna, come dice l'Angelico, nondimeno la legge naturale è quella che obbliga; e non obbliga precisamente perché è partecipazione della legge eterna, ma perché ella propriamente ha ricevuta da Dio la forza di obbligare: Lex naturalis obligat de jure divino non quia praecise est participatio legis aeternae, sed quia habet Deum auctorem. Theol. t. 3, tract. 5, qu. 2, dub. 1, n. 9. Del resto tutti dicono almeno che la legge eterna non ha avuta virtù di obbligare se non dopo che per mezzo della legge naturale o sia per l'impressione del lume della natura è stata promulgata ed intimata agli uomini. Così scrive il p. Gonet al n. 19: Legem aeternam defectu promulgationis non potuisse obligare creaturas ab aeterno. In clyp. to. 3, tract. 6 de leg., d. 2, a. 2. Ed al n. 22: Ratio est, quia Deus non promulgavit legem
aeternam ut creaturae subderentur sibi ab aeterno, sed ut sibi subjicierentur in tempore quo erant futurae in propria mensura. Ed al n. 24 dice: Quaeres quomodo lex aeterna creaturis existentibus in tempore promulgetur. Respondeo: eam creaturis intellectualibus promulgari per quamdam impressionem luminis in intellectu, juxta illud: Signatum est super nos etc. Ed in altro luogo, diss. theol. de opin. probab., art. 6, §1, n. 172, scrive: Promulgatio legis naturalis fit per dictamen rationis intimantis homini ea quae lege naturae praescripta aut prohibita sunt: ergo cum deest tale dictamen lex naturae non obligat ad ejus observationem; subindeque ignorantia juris naturalis a peccato excusat. Così anche scrive Domenico Soto: Nulla lex ullum habet vigorem legis ante promulgationem: nullam exceptionem conclusio haec permittit.... Coepit ergo lex illa innotescere in mundi primordio per legem naturalem. De just., lib. 1, qu. 1, art. 4, et qu. 3, art. 2. Così Francesco di Aravio, anche discepolo di S. Tomaso (ho voluto notare le parole di tutti questi autori per far vedere che tutti dicono lo stesso e parlano sempre nello stesso modo): Deinde, cum lex aeterna non obliget creaturas rationales nisi mediante lege naturali vel positiva divina vel humana, ad istarum promulgationem
illa quoque sufficienter promulgatur. In 1, 2, q. 90, disp. 1, sect. 5. Montesino scrive: Lex naturalis promulgatur in unoquoque dum primo venit ad usum rationis: et quamvis pro tunc solum promulgetur ista lex quantum ad principia communissima juris naturae, tamen postea paulatim per discursum promulgatur eadem lex quantum ad alia. Disp. 20 de leg. q. 4, n. 85. Duvallio scrive: Quaeres quo tempore lex naturae unumquemque obligare incipiat. Resp.: incipere quando promulgatur; tunc autem sufficienter promulgari, quando quisque annos discretionis attingit. In 1, 2 S. Th., tr. de leg., q. 3, art. 3. Così Pietro di Lorca: Lex aeterna non est principium et ratio agendi alicui qui legi subditus sit, neque est illi regula proxima suarum actionum, sed est ratio agendi ipsi Deo. In 1, 2, d. 5, membr. 2. Così il p. Berti, parlando della legge eterna, dice ch'ella fu solamente vim habitura in rerum creatarum conditione. Sicché dice il p. Berti che la legge eterna non ebbe la forza ab aeterno di obbligare, ma che l'avrebbe avuta quando vi sarebbero state già le creature. E poi soggiunge: Aeternam legem institutam dicimus ante tempora saecularia, promulgatam vero in temporum conditione. De theol. disc. lib. 20, cap. 3, n. 2. Così il p. Cuniliati, tract. de reg. mor., c. 2, §3,
n. 1: Actualis legis naturalis promulgatio evenit quando quis a Deo cognitionem accipit dictantem quid juxta rationem naturalem sit vel fugiendum vel amplectendum. Il p. Suarez: Lex aeterna, praecise spectata ut aeterna est, non potest dici obligare... Ratio est, quia lex non potest actu obligare, nisi sit exterius promulgata. Item lex aeterna ut sic non connotat effectum temporalem jam factum, quia sic repugnaret esse aeternam: sed actu obligare est temporalis effectus. Unde etiam fit ut lex aeterna nunquam per seipsum obliget separata ab omni alia lege, sed necessario debet alicui aliae conjungi ut actu obliget; quia non actu obligat nisi quando actu exterius promulgatur... Atque hoc modo potest dici legem aeternam nunquam obligare immediate, sed mediante aliqua alia lege. De legib. l. 2, cap. 4, n. 10. Alessandro alense, 3 p., qu. 26, membr. 1, dice che la legge può dirsi a legendo ed a ligando, e che nel primo senso la divina legge è eterna, perché leggeasi nella mente divina, ma nel secondo senso non è eterna, poiché per legare ha bisogno di promulgazione. Bartolomeo Medina: Lex aeterna dicitur... non quod ab aeterno praecipiat etc. In 1, 2, q. 91. Pietro Collet: Ante creaturarum existentiam (lex aeterna) vere et stricte obligans non fuit. Loc. sup. cit. Il
card. Gotti: Lex aeterna in actu secundo neminem obligavit.- Ab aeterno fuit in mente Dei, quamvis pro aeterno obligans nec ligans, quia nondum applicata et promulgata. To. 2, tr. 5, qu. 2, dub. 1, n. 13. Jodoco Lorichio: Hominibus autem (lex aeterna) promulgatur quando eis innotescit. Thes., v. Lex, n. 6. Silvio: Lex aeterna fuit ab aeterno lex materialiter, non fuit tamen ab aeterno formaliter seu sub ratione legis actualiter obligantis; quia tunc non fuit actualis et perfecta promulgatio. In 1, 2, qu. 91, ar. 1 ad 2. Posto ciò, io non so come la dottrina di S. Tomaso e di tutti gli altri teologi riferiti possa mai accordarsi con quel che dice il p. lettore, cioè che la «la legge eterna è vera e propria legge cui nulla manca ab aeterno per essere veramente promulgata, comunque dall'eternità non vi fossero creature che l'udissero e la conoscessero.»
Restringiamo il punto in breve. Non è vero dunque che la legge eterna abbia avuta ab aeterno la virtù perfetta di obbligare gli uomini, dicendo ch'ella è stata vera e propria legge ed ha avuta tutta la promulgazione che per esser tale richiedeasi. Primieramente, come abbiam detto di sovra, dicono più teologi che la legge eterna non è stata vera e propria legge a riguardo delle creature, ma più presto ella è stata una legge o
sia regola che riguardava Dio stesso come regolante. Ma dato che la legge eterna sia stata vera e propria legge, scrivono tutti, fondati sul principio di S. Tomaso, che niuna legge ha virtù di obbligare se non è applicata a' sudditi colla promulgazione (conclusione, come scrive Soto, che non ammette eccezione): fondati, dico, su questo principio scrivono tutti che la legge eterna non è stata mai legge obbligante prima d'essere stata promulgata agli uomini. Ella certamente non ha obbligati gli uomini futuri ab aeterno, e ciò per mancanza della promulgazione, senza cui la legge eterna non ha potuto avere la virtù compita di obbligarli. Ha avuta ella bensì la virtù di poter obbligarli nel tempo, per quando sarebbe stata promulgata, ma non ha potuto obbligarli prima della sua promulgazione. E perciò saggiamente dice il p. Berti che la legge eterna non ebbe forza prima della creazione delle cose, ma doveva averla quando elle sarebbero state già create: Vim habitura in rerum creatarum conditione. Perciò scrisse ancora Alessandro di Ales che la legge può dirsi a legendo ed a ligando, ma che in questo secondo senso la legge non è eterna, perché ha bisogno della promulgazione per obbligare. Il card. Gotti disse: Ab aeterno (lex aeterna) fuit in mente Dei, quamvis pro aeterno non obligans
nec ligans, (ecco la ragione) quia nondum applicata et promulgata. Il p. Gonet: Legem aeternam, defectu promulgationis, non potuisse obligare creaturas ab aeterno. Il p. Medina: Lex aeterna dicitur... non quia ab aeterno praecipiat etc. Il p. Suarez: Lex aeterna, ut aeterna est, non potest dici obligare, quia non potest actu obligare nisi sit promulgata. Duvallio dimanda quando la legge comincia ad obbligare, e risponde incipere quando promulgatur. Lo stesso dicono Domenico Soto, Francesco Silvio, Lodovico Montesino, Francesco d'Aravio ed altri riferiti di sovra. Aggiungo solo quel che scrive Francesco Henno probabiliorista: egli dice in primo luogo che la legge naturale non si distingue dalla legge eterna; ma poi si fa questa opposizione: Promulgatio est de essentia legis; sed lex naturalis tantum fuit promulgata in tempore; ergo tantum coepit esse proprie lex in tempore; ergo tantum coepit esse proprie lex in tempore, et consequenter distinguitur a lege aeterna. E risponde così: Fuit ab aeterno lex naturae potens obligare, licet non obligaverit antequam promulgaretur in tempore per dictamina rationis. Et idem est de lege aeterna, cum qua coincidit: unde sicut non fuit lex aeterna obligans ab aeterno, sed in tempore, quo sensu dici potest temporalis; ita et lex naturae. Secondo dunque il senso comune di
tutti questi teologi e degli altri riferiti di sopra, par che non possa più dubitarsi che la legge divina (sia eterna o sia naturale) non ha avuta virtù di obbligare gli uomini prima che loro fosse attualmente promulgata e che questa promulgazione non si fa se non quando la legge divina è applicata a ciascuno coll'impressione del dettame della ragion naturale. Sicché la legge eterna non ha avuta virtù di obbligare ab aeterno non solo perché mancavano le creature che doveano essere obbligate, ma perché mancava la necessaria promulgazione, senza cui la legge non ha virtù di obbligare.
Ma se anche la divina legge, come insegna l'Angelico, dee essere promulgata ed applicata agli uomini per renderli obbligati a quella, da ciò ne nasce che questa legge per obbligare dee esser promulgata come certa: poiché se la legge divina è una misura con cui dee misurarsi l'uomo, per conseguenza questa misura dee esser certa; altrimenti come può l'uomo misurarsi con una misura incerta? Quindi insegna S. Tomaso che questa misura dee esser certissima. Il Santo, 1, 2, qu. 19, art. 4, propone il quesito: Utrum bonitas voluntatis dependeat ex lege aeterna. E dice che sì. Si fa poi questa obiezione: Mensura debet esse certissima; sed lex aeterna est nobis ignota; ergo
non potest esse nostrae voluntatis mensura, ut ab ea bonitas voluntatis nostrae dependeat. E così risponde: Licet lex aeterna sit nobis ignota secundum quod est in mente divina, innotescit tamen nobis aliqualiter per rationem naturalem (ecco come il Santo è sempre uniforme nel dire che la legge naturale è quella che lega l'uomo col lume naturale), quae ab ea derivatur, ut propria ejus imago, vel per aliqualem revelationem superadditam. Non nega dunque S. Tomaso che la divina legge, per dover ella esser la nostra misura, dee esser a noi certa, ma solamente dice non richiedersi ch'ella sia da noi conosciuta nel modo stesso come la conosce Iddio; ma esser sufficiente che a noi sia nota (sempre intendesi come certa) o per la ragion naturale o per qualche special rivelazione. E perciò lo stesso Santo, parlando della promulgazione della legge naturale (come abbiam veduto di sovra), dice ch'ella consiste nell'impressione del lume della ragion naturale quo discernimus quid sit bonum, quid sit malum. 1, 2, q. 91, a. 2. La parola discernimus non dinota già una notizia dubbia e confusa, ma una cognizione certa e distinta. Ciò lo conferma più distesamente il Santo in altro luogo, de verit., qu. 17, art. 3, dove dice: Nullus ligatur per praeceptum aliquod, nisi mediante scientia illius praecepti. Dice:
mediante scientia; la scienza importa una cognizione certa, non dubbiosa. Ma di questo testo toccherà a parlarsi a lungo nel § II, dove bisognerà esaminare se può valere la spiegazione che ne fa il mio oppositore. Per ora non ci partiamo dal punto proposto, che la legge dubbia non è legge che obbliga perché non è promulgata abbastanza. Ma se ciò fosse vero, scrive il p. lettore, ne nascerebbero più assurdi. Vediamo quali sono questi assurdi. Egli ne assegna non meno di sette, sperando forse che i lettori del suo libro fra sette assurdi gliene facciamo buono almeno uno. Ma povero me, quando egli leggerà ch'io glieli nego tutti!
Il primo assurdo che assegna è questo. «Quando vi sono opinioni contrarie per l'una e per l'altra parte, e voi dite che la legge non è legge, ecco che allora venite a dire nel tempo stesso che la legge sarà probabilmente vera e certamente falsa: cosa che implica ec.» E siegue ciò a provarlo col p. Cardenas e col p. Bovio, il quale dice «essere una chimera che sia probabilmente vera la legge e certamente falsa.» Ed ecco, ripiglia il p. lettore, un'assurdità e contraddizione, per cui finalmente mi rimprovera così: «Qual motivo non avete mai di confondervi per esser caduto con lui (cioè col p. Segneri) in una delle maggiori assurdità!»
No, rispondo al p. lettore; io non ho alcun motivo di confondermi per questa assurdità e chimera che dice. Sarebbe chimera il dire che quando vi sono due probabili la legge sia probabilmente vera e certamente falsa: ma noi diciamo che in tal caso l'opinione per la legge è probabilmente vera ed è probabilmente falsa; onde allora la legge è dubbia, ed essendo dubbia, non è abbastanza intimata e perciò non obbliga. Bisogna dunque distinguere l'esistenza della legge dall'obbligazione che induce la legge. Implica certamente il dire che la legge la quale è probabilmente esistente ed è probabilmente non esistente sia certamente non esistente; ma non implica il dire che la legge sia probabilmente esistente e sia certamente non obbligante, per ragion che l'opinione contraria (cioè ch'ella non esista) anche è probabile, poiché allora, non essendo a sufficienza promulgata, non induce obbligazione.
Il secondo assurdo che nasce dallo stesso mio principio dice il mio oppositore esser questo, cioè «che le opinioni degli autori cancellino e rendano nulle le leggi sì umane che divine.» Rispondiamo colla stessa risposta: quando le opinioni degli autori sono egualmente probabili, non è che cancellino le leggi, ma dimostrano che tali leggi non sono
certe; e perciò non essendo abbastanza promulgate, non obbligano. Sicché quando vi è qualche opinione egualmente probabile che non vi sia qualche legge divina, la quale dall'opinione contraria si contende esservi, non è che gli uomini cancellino le divine leggi, ma Iddio allora non richiede l'osservanza di tal legge da colui al quale ella non è stata sufficientemente promulgata. Oltreché, la legge che non è sufficientemente promulgata propriamente non è legge, perché non è legge che obbliga; e perciò non può dirsi che tali leggi si cancellino dalle opinioni degli uomini, perché non può cancellarsi una legge che non v'è, cioè una legge che non obbliga; siccome le opinioni opposte de' teologi nelle controversie di fede non cancellano i veri dommi, ma fan conoscere che l'articolo non è a sufficienza definito dalla Chiesa e perciò non v'è obbligo di crederlo. Chi mai può dire che S. Agostino: de praedest. sanctor., vide apud Tourn. comp. theol., part. 1, disp. 2, art. 1, e S. Ilario, vide card. Noris lib. 2 histor. pelag., cap. 2, avessero peccato, avendo tenuto un tempo il sistema de' semipelagiani? o che S. Ireneo e S. Giustino, vide apud Berti, theol. lib. 3, cap. 8, num. 3, avessero peccato seguendo la sentenza de' millenari? Così le opinioni opposte in materia di costumi non tolgono
le leggi se mai vi sono, ma solo fan vedere ch'elle non sono bastantemente promulgate, e perciò non obbligano. Non dipende dalle opinioni degli uomini l'esistenza delle leggi, ma l'obbligazione delle leggi. Sicché l'essere allora la legge non obbligante, non dipende dalle opinioni degli uomini ma dal non essere ella stata da Dio a sufficienza proposta, sul che appunto son fondate le opinioni degli uomini.
Il terzo assurdo che assegna è questo. «Nel contrasto di due opinioni voi dite che la legge non è legge perché dubbiosa. Vi dimando: ammettete voi, monsignore, che fra due opinioni probabili quella che favorisce la libertà possa esser falsa? Certamente. Ma ditemi: come può esser falsa, se, atteso il vostro principio, non si oppone mai ad alcuna legge? Stante che, se la legge non v'è, non può tampoco aver colla legge opposizione di sorta alcuna.» E qui poi adduce l'esempio d'un contratto il quale da alcuni autori è stimato probabilmente lecito, da altri probabilmente illecito. Or quegli autori che lo stimano illecito possono dir la verità, sì che il contratto sia in realtà illecito e proibito dalla legge: ma come (dice) può esser illecito e proibito, se giusta il vostro principio la legge è dubbia, e la legge dubbia non è legge, ma opinione? Forse che
sarà illecito perché è contrario ad una mera opinione? «Adunque (ecco l'assurdo che ne ricava) se non v'è legge, l'opinione favorevole alla libertà sarà sempre vera né potrà mai esser falsa: e l'opinione contraria che asserisce la legge sarà sempre falsa né potrà mai esser vera. Che ve ne pare, monsignore di questo paradosso?»
Che me ne pare? Mi pare che questo argomento niente prova e conclude. Sarebbe sì bene paradosso il dire che quando la legge è dubbia, l'opinione favorevole alla libertà sarà sempre vera né potrà mai esser falsa. Ma non è paradosso il dire quel ch'io dico, cioè che ben può esser falsa l'opinione per la libertà, ma quando ella è egualmente probabile che l'opinione che sta per la legge, allora la legge è dubbia; ed allora non dico già che la legge certamente non v'è, ma che non v'è legge che obbliga, perché non è a sufficienza promulgata, come ho ripetuto più volte ed appresso mi bisognerà ripetere, con tedio mio e di chi legge, più volte per rispondere a tutti questi assurdi addotti dal mio oppositore.
Chi non vede qui che il p. lettore confonde il giudizio speculativo col pratico, mentre vuole che, speculativamente parlando, essendo solamente probabile, non certa, l'opinione diretta, cioè quella che sta per la
libertà, praticamente poi parlando non possiamo servirci di quella, perché, essendo anche probabile l'opinione che sta per la legge, non possiamo operare in modo come quella fosse affatto falsa. Ma bisogna distinguere. Speculativamente parlando, ben può esser vera l'opinione per la legge è certamente falsa, ma, perché insieme è probabilmente falsa ed è probabilmente vera, ella è dubbia con dubbio stretto; e quindi per lo principio da noi provato, che la legge dubbia non obbliga perché non è proposta a sufficienza, non siamo in tal caso obbligati a seguir l'opinione più tuta. Che poi l'uomo possa operare colla certezza morale riflessa dell'onestà dell'azione, ciò l'accordano comunemente i teologi anche della rigida sentenza; e me l'accorda lo stesso mio contraddittore nella pag. 45 del suo libro. In più luoghi poi egli mi oppone ch'io sono confuso e non mi fo intendere. Gran cosa! tutti m'intendono e mi dicono ch'io son chiaro nello spiegarmi, solo col p. lettore incontro la mala sorte di non farmi intendere.
Il quarto assurdo che adduce è questo. «Insegnano i probabilisti che, quando mai fosse falsa l'opinione che nega la legge e si operasse con quella, la trasgressione della
legge sarebbe almeno peccato materiale, che scusa dal formale (come dicono), cioè dall'offesa di Dio. Ma se fosse ciò vero, che la legge dubbia non è legge perché non è a sufficienza promulgata, non vi sarebbe neppure il peccato materiale, perché se non è legge, come può ella trasgredirsi materialmente? Confessando dunque il peccato materiale, bisogna confessare che nel contrasto delle opinioni persiste la legge e sia a sufficienza promulgata.»
Ma questa seconda parte della conseguenza- e sia a sufficienza promulgata-, con buona licenza del p. lettore, non so come si ricavi dalle sue premesse. Dico primieramente che se tal legge fosse a sufficienza promulgata, allora la trasgressione non sarebbe materiale ma formale. Dico per secondo che nel caso che l'opinione men tuta fosse falsa, perché nondimeno ella apparisce probabile, la legge non può dirsi sufficientemente proposta, e per conseguenza non può dirsi legge che obbliga. Onde, se mai vi fosse la legge, operandosi il contrario, non si opererebbe allora formalmente contro quella, ma solo materialmente; e così il peccato sarebbe solamente materiale, per cui il Signore non condanna l'uomo, mentre il peccato materiale non è altro che un'azione che sarebbe materia di peccato se vi fosse la cognizione della legge,
ma essendo la legge invincibilmente ignota (poiché nel contrasto di due probabili non è nota la legge, ma solamente il dubbio della legge), pertanto la trasgressione non è colpevole.
Né può dirsi che siam tenuti ad evitare che il pericolo d'ogni peccato anche materiale, perché, se fosse ciò vero, non potrebbe seguirsi neppure l'opinione più probabile, anzi neppure la probabilissima; poiché, se illecito fosse il servirsi della probabile e della più probabile per lo pericolo del peccato materiale, sarebbe ancor illecito servirsi della probabilissima, giacché nell'uso della probabilissima anche v'è il pericolo del peccato materiale. Ma che il pericolo del peccato non impedisca di operare anche ne' casi dubbi, dove si ha giusto fondamento di operar lecitamente, ciò sta ben dichiarato dal testo nel cap. Dominus, de secund. nupt., dove si prescrive che se un marito è dubbio del valore del matrimonio non può già chiedere il debito, ma è tenuto poi renderlo alla moglie che lo domanda in buona fede. Ora io dico: è certa già la legge che vieta al marito di accostarsi ad una donna che non è sua. Ma supponiamo che quel matrimonio veramente sia nullo; io domando: se in tal caso il marito si accosta per rendere il debito pecca egli contro la legge, la quale già
persiste, accedendo ad non suam, col pericolo certo del peccato materiale? No, e perché? perché in tal caso la legge non obbliga, e non obbliga appunto perché in tal caso non è certa, ma dubbia, ond'ella per lui non è legge che obbliga.
Né vale il dire che in tal caso la moglie possiede il jus di cercare, onde entra la legge certa di non potersi negare il dritto a chi tocca: perché, atteso il principio del p. lettore, che la legge eterna, come vera e propria legge e perfettamente ab aeterno promulgata, ha obbligate le creature sino ab aeterno prima ch'elle esistessero, ed atteso il dubbio esistente del valore del matrimonio, dovremmo dire che la moglie, quantunque fosse stata sempre in buona fede, non avrebbe mai potuto acquistare il jus certo di cercare il debito contro la legge divina, se realmente il matrimonio fosse nullo; perché sempre la legge eterna avrebbe avuto il possesso anteriore alla libertà umana. Dunque, per salvare la verità della disposizione del testo, dobbiam necessariamente supporre che la legge eterna non sia stata legge obbligante prima d'esser attualmente promulgata agli uomini, e che in tanto il marito può e dee render il debito alla moglie in quanto ella certamente possiede il suo dritto di cercarlo, ed all'incontro il pericolo del peccato
materiale non impedisce al marito di rendere; perché sebbene il matrimonio in fatti fosse nullo e si operasse contro la legge, ella non è legge che obbliga, poiché non è applicata alla coscienza colla sufficiente cognizione.
Qui poi il p. lettore mi domanda se io credo che la Chiesa ha giustamente condannate tante proposizioni. E poi soggiunge: «Ora se nel contrasto di opinioni probabili non vi fosse legge perché non è promulgata, la chiesa ingiustamente avrebbe condannate quelle opinioni, molte delle quali eran tenute per sodamente ed egualmente probabili. Se dunque erano tali e non v'era legge sufficientemente promulgata contro di loro, ingiustamente la Chiesa le proibì.» Indi conclude: «Non è giusta, monsignore, la conseguenza? Giustissima.»
Risponde monsignore: no, tal conseguenza è ingiustissima. Per prima dice monsignore che tali opinioni benché un tempo fossero stimate probabili da taluni, in verità però erano improbabili, siccome col solamente leggerle chiaramente si scorge; e perciò si vede che tutte o quasi tutte erano già prima della condanna riprovate dagli stessi autori probabilisti. In secondo luogo dico che prima della condanna vi erano bensì le leggi, ma perché non erano a tutti promulgate, perciò non obbligavano: onde coloro
che teneano in buona fede le opinioni contrarie per probabili, non peccavano né offendeano le leggi, perché allora quelle non eran leggi che gli obbligavano. Siccome dicesi de' libri deuterocanonici, v. g. della Sapienza, dell'Ecclesiastico ec., che sempre sono stati libri ispirati, ma non sempre han fatta autorità di fede divina, se non dopo che dalla Chiesa sono stati dichiarati per canonici; così può darsi che qualche legge naturale, apparendo dubbia ad alcuno, non l'obblighi, perché non ancora a lui promulgata: ma quando poi vien promulgata dalla Chiesa, ella obbliga tutti. Onde i pontefici han potuto giustamente condannare quelle proposizioni, perché in ciò non han fatto altro che promulgare tutte quelle leggi già esistenti ma che non erano prima a tutti sufficientemente promulgate.
Il quinto assurdo che mi oppone è questo. «Se la legge non obbligasse colui al quale ella fosse dubbia per non essergli promulgata abbastanza, non obbligherebbe neppur colui al quale la legge fosse certa per qualche particolar rivelazione o dimostrazione evidente; perché sarebbe quella una notizia privata, la quale non impedirebbe che fra' dottori vi fosse contrasto di opinioni egualmente probabili. Onde, essendo certo, secondo il benigno sistema, che quando si dà
contrasto di opinioni la legge non è legge perché non è abbastanza promulgata, neppur lui sarà tenuto ad osservarla con tutta l'evidente notizia che ne ha avuta.»
Ma io ho detto sempre che non solo chi ha una cognizione evidente della legge, ma ancora chi giudica secondo il lume della ragione che l'opinione che sta per la legge è certamente più probabile, è tenuto ad osservarla, quantunque siavi contrasto fra' dottori: come in fatti molte opinioni approvate già da molti autori io per me le ho riprovate nella mia Opera morale, come certamente meno probabili. Or tanto più dico esser tenuto alla legge colui al quale per qualunque via ella è manifesta. Che importa poi che gli sia manifesta per notizia privata o pubblica? Già dicemmo di sovra che le leggi naturali non s'intimano agli uomini con atti esterni e pubblici, come le leggi umane, ma coll'impressione interna del lume della ragione: onde ben dice il p. Gonet, riferito di sovra, che qualche legge naturale può essere sufficientemente promulgata ad uno e non ad un altro.
Il sesto assurdo che oppone è questo. «Se la legge dipendesse in quanto alla sua esistenza dalle opinioni degli uomini, avverrebbe che una legge nel tempo ch'è stimata certamente esistere sarebbe legge; ma quando
poi apparisse probabile qualche opinione che sta per la libertà, quella non sarebbe più legge; e se poi quell'opinione benigna, pesate meglio le ragioni, fosse giudicata improbabile, allora la legge tornerebbe ad esser legge. Ed ecco la legge ora ridotta da vita a morte ed ora restituita da morte a vita.»
Rispondo che in tal caso non già varia la legge, ma varia il giudizio dell'operante secondo la cognizione ch'egli ha della legge. La legge vive e muore non già in sé, ma in quanto all'atto di legare, e perciò quando apparisce certa, allora lega, quando apparisce dubbia, non lega. Ond'è che quand'io stimava che l'opinione benigna non era egualmente probabile, allora io era tenuto alla legge, perché allora la legge era già per me abbastanza promulgata. Ma quando appresso mi si presentasse qualche grave ragione che rendesse l'opinione benigna egualmente probabile, allora non dico già che la legge prima esisteva ed ora non esiste e che prima era viva ed ora è morta, ma dico che, apparendo appresso l'opinione men tuta egualmente probabile, allora si giudica che la legge è ed è stata sempre dubbia, benché prima appariva certa; e per conseguenza si giudica ch'ella non sia stata mai abbastanza promulgata: onde, se prima io mi stimava obbligato a quella legge perché mi parea
certa ed abbastanza promulgata, ora, che probabilmente la giudico dubbia e non abbastanza mai promulgata, non sono a quella obbligato. In somma non diciamo già noi esser lecito servirsi in pratica di qualche opinione benigna in virtù di quei motivi diretti che la rendono probabile, ma per lo principio riflesso certo ch'essendo probabile quell'opinione, allora la legge è dubbia e perciò, non essendo abbastanza promulgata, non obbliga. E questa è la risposta con cui ognuno può sciogliere tutti questi assurdi opposti dal p. lettore.
Per lo settimo assurdo adduce il cap. 17 de Deutoronomio, dove al n. 8 sta scritto: Si ambiguum apud te judicium esse perspexeris inter sanguinem et sanguine, caussam et caussam, lepram et lepram, et judicum intra portas tuas videris verba variari, surge et ascende ad locum quem elegerit Dominus Deus tuus, veniesque ad sacerdotes levitici generis et ad judicem qui fuerit eo tempore, quaeresque ab eis qui judicabunt tibi judicii veritatem, et facies quodcumque dixerint qui praesunt loco quem elegerit Dominus, et docuerint te juxta legem ejus. Indi adduce S. Tomaso, che spiega questo testo e dice che se il dubbio era tra' sudditi, doveano essi ricorrere a' giudici inferiori che costituivansi per ciascuna tribù. Se poi il dubbio era tra'
periti, allora doveasi ricorrere al sinedrio, ch'era il luogo eletto da Dio per decider le cause con sentenza finale. Ecco poi l'assurdo che il p. lettore ne ricava contro la nostra sentenza: A che bisognava (dice) ricorrere al tribunale supremo quando, essendovi disparere tra quei periti, la legge non era legge?
Ma il p. Calmet, spiegando più distintamente il testo riferito, dice che non tutti i dubbi doveano rapportarsi a' giudici ed al sommo sacerdote, ma solamente ardua quaeque. Dice di più che tre generi di cause eran quelle sovra cui cadeva il suddetto precetto giudiziale, e scrive così: Nobis ea sedet persuasio verba illa, inter sanguinem et sanguinem, criminales omnes caussas complecti; alia vero, inter caussam et caussam, caussas omnes civiles minoris momenti; postrema tandem, inter lepram et lepram, leges omnes caeremoniales, quae maculas vel lustrationes legales inferebant. Posto ciò, chi può mai persuadersi che ogni dubbio di azion particolare si dovea esporre per precetto a' giudici del luogo ed indi al sinedrio? Inoltre si sa che lex Moysis in synagoga per omne sabbathum legebatur, ed ivi ognun proponeva i suoi dubbi. Se poi le risoluzioni fossero sempre secondo le opinioni più tute, ciò potrà indovinarcelo il p. lettore. Certo è che
queste minute difficoltà non si proponevano né a' giudici né al sinedrio né al sommo sacerdote. Vorrei però sapere che cosa con ciò pretende il p. lettore. Pretende forse che in tutti i dubbi e casi di coscienza dovessimo ricorrere all'oracolo del papa? Ma quando il papa non risponde, che abbiamo a fare? Volesse Dio che la santa sede decidesse tutti i dubbi che occorrono tra' fedeli! Ma se il papa volesse attendere a ciò; dovrebbe star occupato continuamente soltanto in questo impiego, e neppure gli basterebbe il tempo.
Ma vediamo finalmente come conclude il mio oppositore. Dice così: Dite voi, non bisognava ricorrere al giudizio de' sacerdoti perché, posto il contrasto tra quei periti, la legge non era legge. Sicché è inutile lo stadio delle Scritture, il consigliarsi co' savi; ma basta trovar un'opinione disputata da' teologi, basta scartabellare il libro di qualche casista, dell'Escobario, del Diana, e concludere che si opera con sicurità perché in tal caso non v'è legge che proibisce di operare secondo tale opinione. Rispondo brevemente, perché non mi pare bisognarvi molte parole a rispondere. Non signore, non basta ad operare con sicurtà scartabellare l'Escobario o il Diana, ma bisogna studiar le Scritture, i canoni ed i teologi; e quando l'opinione
che sta per la legge si scorge notabilmente più probabile, quella dee seguitarsi. Ma quando poi l'opinione che sta per la libertà apparisce egualmente probabile, può ella lecitamente seguirsi; perché allora la legge, non essendo abbastanza promulgata, non obbliga. Il p. lettore chiama tutte le ragioni principali o sieno fondamentali della nostra sentenza, li chiama (dico) rifugi da disperati: a me pare che più presto sieno rifugi da disperati tutti questi argomenti insussistenti e sottigliezze che egli oppone.