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S. Alfonso Maria de Liguori
Apologia contro Adelfo Dositeo (Difesa...)

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§ II. - La legge dubbia non obbliga perché, essendo incerta, non può indurre un'obbligazione certa.

Questo è l'altro fondamento sul quale (come ho provato nella dissertazione) si appoggia il principio che la legge dubbia non obbliga, cioè perché la legge incerta non può indurre un obbligo certo; mentre è certa la libertà donata da Dio all'uomo, e perciò questa libertà non può esser legata che da una legge certa. Ecco un altro rifugio da disperati, al dire del mio oppositore. Già abbiam veduto di sopra non aver sussistenza quel che suppone il p. lettore, cioè che la legge eterna abbia obbligati gli uomini prima


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ch'ella fosse loro proposta; perché, siccome insegna S. Tomaso, 1, 2, quaest. 90, art. 4, la legge divina non obbliga se non quando è promulgata all'uomo, e questa promulgazione allora si fa, come dice il Santo, quando la legge gli è applicata coll'impressione del lume divino. E così ancora, come abbiam veduto, dicono tutt'i teologi rapportati di sopra, cioè che la legge eterna, quantunque eterna, non è stata legge obbligante prima che esistessero gli uomini, perché non era stata ancora ad essi applicata: onde dicono che allora la legge si promulga all'uomo e l'obbliga quando attualmente se gl'intima colla cognizione di quella. Il che si conferma maggiormente da S. Tomaso in quell'altro luogo riferito di sopra, 2, 2, qu. 91, a. 2, dove dice che la legge eterna è quella che riguarda Dio come regolante, ma la legge naturale (la quale per altro non è che una partecipazione della legge eterna) è propriamente quella che riguarda l'uomo regolato, giacché per la legge naturale s'imprime il lume divino, con cui l'uomo discerne il bene ed il male e riceve la regola colla quale dee regolarsi. Dal che si deduce che l'uomo prima di ricevere questo lume non è tenuto alla legge, perché non ancora ha ricevuta la regola con cui dee regolarsi. Ed a ciò si uniforma quel che dice l'Angelico


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nel luogo prima citato: Promulgatio legis naturae est ex hoc ipso quod eam mentibus hominum inseruit naturaliter cognoscendam.

Dunque, dirà il p. lettore, l'uomo nasce libero, non già suddito e dipendente da Dio? No, rispondo; egli nasce suddito, dipendente ed obbligato ad ubbidire, a tutti i precetti che Iddio gl'impone: ma acciocché tali precetti lo leghino, debbono essergli applicati colla promulgazion formale del precetto, la quale si fa appunto quando il precetto gli è manifestato per mezzo del lume della ragione: ma sin tanto che il precetto non gli è fatto noto, l'uomo possiede la sua libertà donatagli da Dio, la quale, essendo certa, non resta legata se non da un precetto certo; ed essendo la legge una misura con cui l'uomo dee misurare le sue azioni, fa d'uopo certamente che questa misura non sia incerta.

Se mai l'uomo nascesse obbligato alla legge eterna (come suppone il mio oppositore) prima che quella gli fosse manifestata, sicché non potesse fare altre azioni se non quelle che dalla legge eterna gli fossero permesse, non sarebbe stato necessario che Iddio avesse intimati all'uomo i suo i precetti divini coll'impressione del lume naturale ed anche colla legge scritta, ma sarebbe bastato che gli avesse dichiarate solamente quelle cose


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che permetteagli di fare. Io non nego che ben poteva il Signore in altr'ordine di providenza ordinare che gli uomini non potessero far altro se non quello che da lui fosse stato loro espressamente permesso. Ma non ha fatto così. Deus ab initio constituit hominem et reliquit illum in manu consilii sui; adjecit mandata et praecepta sua. Si volueris mandata servare, conservabunt te. Eccl. 15, 14, 15 et 16. Prima dunque il Signore ha creato l'uomo libero, donandogli per suo beneplacito la libertà, e poi gli ha imposti i precetti che dee osservare.

Ma per esser legato ciascun da tali precetti, non basta che ne abbia il dubbio; dice S. Tomaso, de verit. q. 17, art. 3, che dee averne la scienza, cioè la cognizione certa: Nullus ligatur per praeceptum aliquod, nisi mediante scientia illius praecepti. Questo testo è stato già da me addotto distesamente nella dissertazione: ma perché il p. lettore dice che dee intendersi diversamente da quel che io l'ho inteso, bisogna che qui di nuovo io lo ripeta, ed indi esaminiamo se dee aver luogo la spiegazione sua o la mia. Il santo Dottore propone ivi il quesito: Utrum conscientia liget, e poi dice: Ita se habet imperium alicujus gubernantis ad ligandum in rebus voluntariis illo modo ligationis qui voluntati accidere potest, sicut se habet actio


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corporalis ad ligandum res corporales necessitate coactionis. Actio autem corporalis agentis nunquam inducit necessitatem in rem aliam, nisi per contactum coactionis ipsius ad rem in qua agit. Unde nec ex imperio alicujus domini ligatur aliquis, nisi imperium attingat ipsum cui imperatur. Attingit autem ipsum per scientiam. Unde nullus ligatur per praeceptum aliquod, nisi mediante scientia illius praecepti. Et ideo ille qui non est capax notitiae praecepto non ligatur; nec aliquis ignorans praeceptum Dei ligatur ad praeceptum faciendum, nisi quatenus tenetur scire praeceptum. Si autem non teneatur scire nec sciat, nullo modo ex praecepto ligatur. Sicut autem in corporalibus agens corporale non agit nisi per contactum; ita in spiritualibus praeceptum non ligat nisi per scientiam. De veri., qu. 17, a. 3. Udiamo ora che cosa dice il p. lettore: Dice che per la voce scienza non s'intende la cognizione certa del precetto, ma s'intende la semplice notizia di quello, come già nel caso nostro di due probabili ve ne sarebbe la probabile notizia. e quindi recita quelle parole del testo: Et ideo ille qui non est capax notitiae praecepti (siccome è colui che non ha l'uso della ragione, come glossa il p. lettore) non ligatur. Ma che sotto nome di scienza s'intenda la notizia probabile, questa è una significazione


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nuova, di nuovo vocabolario. Tutti i filosofi con S. Tomaso distinguono l'opinione dalla scienza, ch'è una cognizione certa di qualche verità; e S. Tomaso in questo passo replica tante volte scienza e non opinione. Che importa poi quel che S. Tomaso soggiunge, cioè che non è legato dal precetto chi non è capace d'aver notizia del precetto? Ciò non impedisce d'intendere quel che prima avea detto, cioè che niuno è legato dal precetto se non ha la scienza del precetto. Se in vece di scienza avesse detto cognizione certa, pure andavano bene le due proposizioni. E si noti che il mio oppositore scrive: Qui non est capax notitiae praecepti non ligatur; ma io trovo scritto così: Qui non est capax notitiae praecepto non ligatur; il che fa diverso senso, perché questo secondo modo dee intendersi necessariamente così, cioè: Chi non è capace di cognizione non è legato dal precetto, che all'incontro non lega se non chi ne ha scienza.

Ma via, concediamo che sotto nome di scienza venga altresì l'opinione probabile: almeno dee intendersi per quell'opinione ch'è probabile per la sola parte del precetto, senza probabilità in contrario, in modo che possa dirsi che l'uomo moralmente sappia che vi sia il precetto; altrimenti, quando vi sono due opinioni probabili, una che


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afferma il precetto, l'altra che lo nega, allora è certo che non v'è altro che un mero dubbio del precetto. E ciò me lo accorda lo stesso p. lettore nella p. 48, dove dice: «Troppo essendo evidente che due opinioni contraddittorie egualmente probabili non possono se non generare il dubbio.» Sicché allora non può dirsi che l'uomo ha cognizione del precetto, ma solo che la cognizione del dubbio o sia della questione se vi è o no il precetto. Onde S. Tomaso, se avesse voluto unirsi alla sentenza del mio oppositore, avrebbe dovuto dire: Nullus ligatur per praeceptum aliquod, nisi mediante dubio illius praecepti. Ma no, il Santo ha detto: nisi mediante scientia illius praecepti. E che il Santo col dire scientia ha inteso parlare della vera scienza, non del dubbio o sia opinione dubbiosa, si vede chiaramente da tutto il contesto di detto passo, mentre dice: Sicut autem in corporalibus agens corporale non agit nisi per contactum (e più sopra dice per contactum coactionis ad rem, sicché ha da essere un contatto che propriamente leghi e stringa la cosa), ita in spiritualibus praeceptum non ligat nisi per scientiam. E prima avea già detto: unde nec ex imperio alicujus domini ligatur aliquis, nisi imperium attingat ipsum cui imperatur; attingit autem ipsum per scientiam. Da che si vede ancora


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quanto sia lontano S. Tomaso dal sentimento del p. lettore, il quale vuole che l'uomo ab aeterno e prima di aver cognizione della legge divina sia stato già legato ed obbligato a quella per ragion della legge eterna ab aeterno promulgata con quella sua promulgazione causale ed eminente. Ma l'Angelico dice: Unde nec ex imperio alicujus domini ligatur aliquis, nisi imperium attingat ipsum cui imperatur; attingit autem ipsum per scientiam. Dunque l'uomo non è legato ab aeterno dalla legge eterna, ma allora solamente vien legato da quella quando di quella ne riceve la scienza, cioè quando sa che vi sia il precetto.

Di più S. Tomaso, seguendo la sua etimologia che la legge dicitur a ligando, scrive nel medesimo luogo che siccome le funi legano le cose corporali, così la coscienza o sia la cognizione della legge lega l'uomo, il quale allora soltanto perde la potestà di partirsi dal luogo ove è legato e di andare altrove quando è stato già legato: Dicendum quod conscientia procul dubio ligat. Ad videndum autem quomodo liget, sciendum quod ligatio metaphorice a corporalibus ad spiritualia sumpta necessitatis impositionem importat. Ille enim qui ligatus est necessitatem habet consistendi in loco ubi ligatus est, et aufertur ei potestas alio divertendi. Ma


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siccome, ancorché vi sieno le funi, se quelle non sono applicate all'uomo con legarlo effettivamente, egli è libero a camminare; così, quantunque esista la legge, se quella non gli è applicata colla di lei certa cognizione, sicché l'uomo con verità possa dire che sa il precetto, egli è libero ad operare. Or come poi può dirsi che sa il precetto chi sa esser probabile che il precetto vi sia ad esser probabile insieme che non vi sia? Allora necessariamente dee dirsi che il precetto gli è ignoto e non lo sa. Mi pare che questo non già sia un discorso di mente storta, come mi dipinge il p. lettore, ma un raziocinio giusto e certo presso d'ognuno che ha lume di ragione. Il p. lettore dice ch'io non intendo e malamente spiego le dottrine di S. Tomaso; vorrei sapere almeno circa la presente dottrina com'ella meglio s'ha da intendere e spiegare, e se può mai intendersi da alcuno altrimente di quello ch'io l'ho intesa. Le sottigliezze poi alle quali si rampica per ajutarsi il mio oppositore, nel dire che basta la sola notizia, benché dubbia, per aver la scienza della legge (come di sovra si è detto), o pure che tal dottrina non corre per li precetti divini, che da tutti debbono sapersi (del che appresso qui parleremo), non so se possano aver forza presso d'altri che di coloro i quali sono appassionati per lo tuziorismo


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come lui e vogliono far dire a S. Tomaso tutto il contrario di quel che il Santo ha detto ed ha inteso dire.

Il mio oppositore si appiglia poi a quelle altre parole del testo: Nec aliquis ignorans praeceptum Dei ligatur ad praeceptum faciendum nisi quatenus tenetur scire praeceptum. Sovra queste ultime parole- nisi quatenus tenetur scire praeceptum- egli scrive così: «Quando taluno, benché non abbia notizia del precetto, se tuttavia sia tenuto ad averlo, ligatur praecepto e non è scusato dalla trasgressione se non l'osserva.» Dunque il p. lettore tiene la sentenza, e vorrebbe che ella fosse ancora di S. Tomaso, che l'uomo, quantunque non abbia alcuna notizia del precetto, neppure oscura ovvero in causa, sempreché opera contro il precetto divino, sempre pecca; e lo prova così: «Secondo l'idea che ne abbiamo dalle divine Scritture, dai santi Padri, da S. Tomaso e dal consenso comune degli antichi ed anche de' migliori moderni teologi, i peccati d'ignoranza, quando siamo tenuti a sapere la legge, sono quelli (parlando con esattezza e proprietà) che si commettono e de' quali ci rendiamo colpevoli dinanzi a Dio in un tempo nel quale noi non sappiamo di commetterli, perché nasce da colpa nostra che non lo sappiamo. E però S. Tomaso assegnò su questo


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quella massima luminosa e certa, che ignorantia, quae causatur ex culpa non potest subsequentem culpam excusare. In cap. I epist. ad Rom. E per tal modo si pecca quantunque non si abbia non solo la scienza da voi pretesa, cioè la cognizione certa ed evidente, ma né tampoco la incerta ed oscura del peccato, la quale si poteva e si era tenuto ad averla.» E poi conclude: «Questo poco vi basti a vostra istruzione sopra di una materia sulla quale sembra non abbiate formata la giusta idea

Oh bene! Primieramente io trovo dannata la proposizione 46 di Bajo, che diceva: Ad rationem et definitionem peccati non pertinet voluntarium. Dunque per incorrer nel peccato bisogna che l'atto sia in qualche modo volontario. Ma acciocché l'atto sia volontario, si richiede che vi sia la cognizione dell'oggetto almeno in confuso. Scrive S. Tomaso: Voluntarium dicitur, secundum definitionem Aristotelis, Gregorii nysseni et Damasceni, non solum cujus principium est intra, sed cum additione scientiae. 1, 2, q. 6, a. 1. Conferma ciò il Santo in altro luogo, quodlib. 3, a. 27, dove dice: Actus humanus judicatur virtuosus vel vitiosus secundum bonum apprehensum in quod voluntas fertur, et non secundum materiale objectum actus.


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osta il dire che S. Tomaso, quando dice che l'ignoranza scusa, parla dell'ignoranza di fatto, non di jus, come alcuno può prendere equivoco sovra quelle parole che scrive il Santo nella 3 p., q.... a. 4, ad 5, dove dice che in due modi può taluno ignorare il peccato, uno modo per culpam suam, vel quia, per ignorantiam juris quae non excusat, reputat non esse peccatum quod est peccatum, puta si aliquis reputaret fornicationem non esse peccatum etc. Si vero ignorat hoc quod facit esse actum peccati propter ignorantiam facti quae excusat etc. Non osta, dico; perché il Santo ivi parla della ignoranza vincibile, come apparisce dall'esempio che ivi porta della fornicazione. Onde quel per ignorantiam juris quae non excusat s'intende di quell'ignoranza che non può scusare perché è vincibile; siccome all'incontro quando dice propter ignorantiam facti quae excusat, deesi intendere di quell'ignoranza di fatto che veramente scusa, perché è invincibile; altrimenti, se è vincibile, neppure può scusare. Del resto il medesimo santo Dottore in altro luogo, 1, 2, q. 19, a. 6, espressamente dice che tutte quelle cose che si fanno per ignoranza invincibile, cioè senza volontà, non sono alcun peccato: Manifestum est quod illa ignorantia quae causat involuntarium tollit rationem boni et mali moralis.


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Inoltre che diasi l'ignoranza invincibile anche circa le cose di legge naturale si prova dalla condanna fatta da Alessandro VIII della prop. 2 di Bajo, che dicea: Tametsi detur ignorantia invincibilis juris naturae, haec in statu naturae lapsae non excusat a peccato. La Chiesa non avrebbe avuta certamente premura di dichiarare che l'ignoranza invincibile anche circa i precetti naturali scusa dal peccato, se non avesse avuto per vero che anche circa tali precetti può darsi l'ignoranza invincibile.

Quantunque poi non si dia ignoranza invincibile circa i principi della legge naturale né circa le conclusioni prossime, ben però si circa le rimote. Questa è dottrina comune di S. Tomaso, 1, 2, q. 76, art. 3, di S. Bonaventura in 2, dist. 39, a. p., q. 1, e di S. Antonino, 1 p., tit. 3, c. 50, p. 10, il quale dice: Cum autem dicitur ignorantia juris naturalis non excusare, intelligitur de his quae expresse per se vel reductive sunt circa jus naturale divinum..., et non de his quae per multa media et non clare probantur esse contra praecepta. Inoltre è di S. Anselmo, tract. 7, di Soto, de just. l. 1, q. 4, art. 4, di Silvio, 1, 1, q. 76, art. 8, di Gammacheo, 1, 2, q. 94, d'Isamberto, 1, 2, q. 79, art. 6, del card. Aguirre, tom. 3, de' Salmaticesi, schol. t. 3, tr. 2,


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disp. 6, dub. 2, part. 5, del p. Gonet, disp. tom. 3, disput. 1, art. 4, par. 1, il quale dice che l'opinione contraria è di molto pochi ed è singolare ed improbabile. Lo stesso dicono Maldonato, Duvallio, Tostato, il card. Gotti, Wigandt, tr. 2, ex art. 3, n. 24, il contin. di Tournely ed altri molti. «Benché ignorar non si possono (scrisse ultimamente monsig. di Beaumont) invincibilmente monsig. di Beaumont) invincibilmente i principi del dritto naturale e le loro conclusioni prossime, con tutto ciò le loro conseguenze più oscure e rimote possono essere e spesso sono la materia di un'ignoranza veramente invincibile; questo punto in tutte le parole riunisce i suffragi de' teologi più rinomati.» E parlando il p. Gonet specialmente dell'ignoranza invincibile che si ha nel seguire l'opinione probabile, scrive così: Eum qui, facta sufficienti diligentia ad inquirendam veritatem, agit ex opinione probabili, quando alia probabilior ei non occurrit, non agere cum conscientia practice dubia, subindeque nulli peccandi periculo se exponere; quia tunc certificatur moraliter per judicium reflexum quod habet per istud: qui facit totum quod in se est ad inquirendam veritatem, et illam consequi non valet, excusatur a peccato ratione ignorantiae invincibilis. Quod principium est omnino certum et unanimi fere theologorum calculo


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et consensu firmatum, ut in tract. de peccatis ostendemus. Man. to. 3, tr. 3, c. 16, circa fin., versic. Ad fundamentum.

Ma dice il mio oppositore che S. Tomaso insegna il contrario nel testo di sopra riferito. Il testo dice così: Ne aliquis ignorans praeceptum Dei ligatur ad praeceptum faciendum, nisi quatenus tenetur scire praeceptum. Dunque, dice il p. lettore, chi è tenuto a sapere il precetto è legato da quello, ancorché l'ignori. Ma doveva avvertire il mio istruttore che S. Tomaso nello stesso articolo, siccome già notai nella dissertazione, risponde e dichiara come ciò s'intende; mentre nella risposta ad quartum scrive: Tunc conscientia erronea non sufficit ad absolvendum quando in ipso errore peccat. Che viene a dire peccare nello stesso errore? Se non che quando l'errore è colpevole, cioè quando la persona avverte all'obbligo di sapere il precetto e trascura di saperlo; poiché allora l'ignoranza non è più invincibile. Lo stesso insegna il Santo nel quodlib. 8, art. 15: Quandoque vero error conscientiae non habet vim excusandi, quando scilicet ipse peccatum est. E così anche lo spiega il Gaetano dicendo: Si, cum posset, noluit scire. A proporzione dunque della colpa che accompagna l'ignoranza, l'opera contro del precetto è colpevole.


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All'incontro in altro luogo dice S. Tomaso che quando l'errore è per ignoranza invincibile non s'imputa né a negligenza né a peccato: Non autem imputatur homini ad negligentiam, si nescit ea quae scire non potest; unde ea ignorantia invincibilis dicitur quia studio superari non potest. 1, 2, q. 76, a. 2. Ma con quale studio, dimando, sarà vincibile l'ignoranza della legge a colui il quale ha usata la diligenza dovuta in ponderar le ragioni e l'autorità de' dottori e non ha potuto accertarsi della verità?

Inoltre S. Tomaso in altro luogo scrive più chiaramente lo stesso, valendosi dell'autorità di S. Agostino: Ignorantia quae est omnino involuntaria non est peccatum. Et hoc est quod Augustinus dicit: Non tibi imputatur ad culpam si invitus ignoras, sed si scire neglexeris. lib. 3, de lib. arbitr., cap. 19. Per hoc autem quod ait- sed si scire neglexeris- dat intelligere quod ignorantia habet quod sit peccatum ex negligentia praecedente, quae nihil est aliud quam non applicare animum ad sciendum ea quae quis scire debet. De verit., qu. 7, ad 7. E lo stesso ripete poco appresso, che colui solamente è reo d'ignoranza colpevole il quale, ne impediatur a peccato, quod diligit, scientiam recusat: et sic ignorantia est a voluntate quodammodo imperata. Ibid.


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ad 8. Dunque, sempreché l'ignoranza non è volontaria in qualche modo, almeno per ragion della volontaria negligenza, ella non è colpevole, come con altri testi di S. Tomaso abbiam dimostrato più a lungo nella nostra Opera morale.

Ma il p. lettore vuole che sia colpevole qualunque ignoranza de' precetti naturali, ancorché rimotamente possano dedursi da' primi principi: perché (come dice) una tal ignoranza nasce sempre da qualche nostra colpa; onde sempreché si trasgredisce un precetto naturale che noi siam tenuti a sapere, sempre si pecca. Dunque taluno potrà ritrovarsi reo di molte colpe gravi, senza averne avuta né cognizionedubbiosospetto? E perché? Risponderà il p. lettore: per altre sue colpe, che ne sono la cagione. Dico la verità, questa opinione mi pare troppo dura e crudele. Ma se fosse vero ciò, che, contro qualunque precetto naturale operandosi, non può darsi ignoranza invincibile, ne nascerebbe che non basta a scusare neppure l'opinione probabilissima, perché taluno, anche seguendo la probabilissima, può errare. Ma questa proposizione fu dannata già da Alessandro VIII nella proposizione 3, che diceva: Non licet sequi opinionem inter probabiles probabilissimam. Di più, se ciò fosse vero, dice S. Antonino, p. 1, tit. 3, cap. 10, §10,


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come mai avrebbero potuto esservi tante opinioni contrarie tra' santi in materia morale? Il Santo ne adduce più esempi, e specialmente quello di S. Bonaventura, il quale volea che chi sta in peccato mortale è tenuto subito a confessarsi; ma S. Tomaso negava quest'obbligo. Lo stesso scrive il dotto Morino, dicendo: Quicumque annales Ecclesiae attenderit, facile animadvertet auctores ecclesiasticos multa aliquando opinionum varietate discordes fluctuasse. Part. 3, exerc. 5, cap. 9 de sacr. ord. Di più Natale Alessandro asserisce che molti santi Padri son caduti in alcuni errori, ma incolpabilmente: Fatemur in singulis pene Patribus naevos reperiri, in plerisque etiam errores. To. 3, disp. 16, sect. 2. Idem scribit p. Berti, theol. l. 21, c. 17, n. 5. Ed in fatti riferisce Sisto senese di S. Gio. Grisostomo: Restat tertium quod in praemissis Chrysostomi verbis continetur assertum, videlicet Saram in eo potissimum esse laudandam atque imitandam quod, servandi mariti caussa, barbarorum sese adulterio exposuerit, consentiente tamen marito in ejus adulterium, immo etiam suadente. Bib. sacr., adnot. 99. Dovremmo dunque dire che questi santi son dannati, mentre hanno proferite opinioni senza dubbio erronee, senza poi emendarle; o almeno dire che in quelle han sempre peccato mortalmente: ma non so chi avrà animo di ciò asserire.


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Ma S. Tomaso, dice il p. lettore, insegna: Ignorantia quae causatur ex culpa non potest subsequentem culpam excusare. In cap. 1 epist. ad Rom. Ma S. Tomaso parla di quella ignoranza che in sé è colpevole per essere o affettata o supina, com'egli stesso si spiega in altri luoghi e specialmente nella Somma, 1, 2, q. 76, a. 3, dove dice che in due modi l'ignoranza può essere volontaria e colpevole: vel directe, sicut cum aliquis studiose vult nescire ut liberius peccet; vel indirecte, sicut cum aliquis propter laborem vel propter alias occupationes negligit addiscere id per quod a peccato retraheretur. Talis enim negligentia facit ignorantiam ipsam esse voluntariam et peccatum..... Si vero ignorantia sit involuntaria, sive quia est invincibilis sive quia est ejus quod quis scire non tenetur, talis ignorantia omnino excusat a peccato.

Replica il p. lettore: ma S. Tomaso dice espressamente nel luogo di sopra citato: Nec aliquis ignorans praeceptum Dei ligatur ad praeceptum faciendum nisi quatenus tenetur scire praeceptum. Se ognuno dunque è tenuto a sapere i precetti divini, ognuno che li trasgredisce non può essere scusato da colpa. Ma ciò, come di sopra dicemmo, lo stesso santo Dottore spiega come debba intendersi, cioè che allora non è scusato e pecca quando


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in ipso errore peccat, cioè quando erra per negligenza. Ecco come scrive in conferma di ciò il p. Cuniliati: Legis violatores non sunt illi quibus nondum lex innotuit. Si autem data opera et dolosa arte illius notitiam declinare studeant, jam sunt violatores culpabiles in volita causa ignorantiae. De leg., cap. 2, §1, n. 5. Del resto S. Tomaso senza dubbio ammette darsi l'ignoranza invincibile anche ne' precetti naturali, secondo le parole poc'anzi notate di sopra: Si vero ignorantia sit involuntaria, sive quia (si noti) est invincibilis, sive quia est ejus quod quis scire non tenetur, talis ignorantia omnino excusat a peccato. 1, 2, q. 76, art. 3. Dice dunque che l'ignoranza scusa affatto dal peccato, o perché è di cose che non siam tenuti a sapere, o perché l'ignoranza è invincibile. Dunque, ancorché l'ignoranza sia di cose che siam tenuti a sapere, quando ella è invincibile, dice S. Tomaso che affatto scusa dal peccato. E parla ivi, com'egli stesso avverte, della legge universale divina, della quale avea parlato nell'art. 2 antecedente.

Ma torniamo al punto, che una legge incerta non può indurre un'obbligazione certa, perché la legge dubbia non può togliere all'uomo la libertà che certamente possiede. Dunque, dirà il p. lettore, il possesso della


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libertà che ha l'uomo precede il possesso della legge divina? Sì signore, così va certamente, e così insegna ancora lo stesso angelico Maestro: perché sebbene la divina legge è eterna, nondimeno nella mente di Dio l'uomo ancora è eterno e prioritate rationis da Dio è stato contemplato l'uomo antecedentemente alla legge; poiché secondo la retta ragione e la natura delle cose prima dal legislatore si considerano i sudditi e poi la legge proporzionata che dee loro imporsi. Dico proporzionata: perché Dio certamente fece una legge diversa per gli angioli ed un'altra diversa per gli uomini; ed intorno agli stessi uomini fece una legge diversa per li sacerdoti, un'altra per li secolari; una diversa per gli ammogliati, un'altra per coloro che non han moglie. Questa dottrina, dico, non è mia, è di S. Tomaso, il quale, 1, 2, qu. 91, art. 1, fa il quesito: Utrum sit aliqua lex aeterna. E poi ad primum vi fa questa obiezione: Videtur quod non sit aliqua lex aeterna: omnis enim lex aliquibus imponitur: sed non fuit ab aeterno cui aliqua lex possit imponi; solus enim Deus fuit ab aeterno: ergo nulla lex est aeterna. E risponde: Ad primum dicendum quod ea quae in se ipsis non sunt, apud Deum exsistunt in quantum sunt ab ipso cognita et praeordinata, secundum illud, Rom. 4, 17: Qui vocat ea


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quae non sunt tamquam quae sunt. Sic igitur aeternus divinae legis conceptus habet rationem legis aeternae, secundum quod a Deo ordinatur ad gubernationem rerum ab ipso praecognitarum. 1, 2, q. 91, a. 1, ad 1. Si notino le parole: rerum ab ipso praecognitarum. Ciò lo spiega diffusamente Bartolomeo Medina, in 1, 2 S. Thom., q. 91, pag. 485, dicendo: Lex imponitur illis qui exsistunt in se vel in esse cognito; e poi soggiunge: Creaturae sunt Deo praesentes in aeternitate, non tantum secundum esse cognitum, sed etiam secundum veras exsistentias et naturas reales. Sicché, prioritate rationis, prima da Dio fu contemplato l'uomo come libero, e poi fu considerata la legge che dovea legarlo. Per ragion d'esempio, Iddio ab aeterno ha proibito l'omicidio, ma prioritate rationis prima considerò gli uomini liberi ed indi loro vietò che uno uccidesse l'altro.

Udiamo le altre opposizioni del p. lettore: «L'uomo (dice) non possiede altra libertà se non quella ch'è soggetta alla legge: onde nulla può fare se non a norma di quanto ella prescrive.» Ma bisogna distinguere: altro è il possesso del dominio di Dio, altro è il possesso dell'esistenza della divina legge. È certo che Iddio ha il dominio sovra dell'uomo d'imporgli quelle leggi che vuole; ma questo dominio non importa già che ogni


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divina legge stia in possesso di obbligare l'uomo, quantunque ella sia dubbia. E come mai può dirsi che la legge abbia il possesso di obbligare l'uomo quando si dubita s'ella vi sia o no? Se la legge non è certa, tanto meno è certo il suo possesso. Sicché l'uomo possiede bensì la sua libertà, soggetta alla legge generale, cioè a quella legge che l'obbliga come creatura dipendente da Dio di dover ubbidire a tutti que' precetti che Dio gl'imporrà: ma parlando poi delle leggi particolari, quando elleno sono state già manifestate all'uomo, allora la di lui libertà non più possiede, ma è soggetta a quella; ma ben la possiede sin tanto che quelle non gli sono abbastanza promulgate colla loro scienza, perché frattanto elle non obbligano. E questo appunto è quel che insegna S. Tomaso nel luogo a principio citato, 1, 2, q. 91, a. 4, dicendo che la legge non ha virtù di obbligare se non dopo che è applicata agli uomini, e che questa applicazione si fa colla notizia che ricevono gli uomini della legge per mezzo della stessa promulgazione: Talis applicatio fit per hoc quod in notitiam eorum deducitur ex ipsa promulgatione. Dunque, secondo S. Tomaso, è certo che l'uomo prima d'essergli notificata la legge non è legato da quella e in conseguenza possiede la sua libertà, non soggetta a tal legge.


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Ma replica il p. lettore e dice: «L'uomo prima si considera secondo la ragione e poi secondo la libertà o sia la volontà. Or questa ragione, per esser retta, dee dipendere dalla legge divina; altrimenti, se ella non si uniformasse alla legge, non sarebbe retta. Dunque, se la ragione, essendo ella una participazione della legge divina, si considera prima della libertà, la legge prima della libertà possiede

Qui vi bisogna una risposta ponderata, per togliere ogni equivoco. Rispondo dunque col p. Bovio che nell'uomo debbon considerarsi due sorte di libertà: la libertà che dicesi fisica e quella che dicesi morale. La libertà fisica consiste nel poter fare alcun'azione o pure ommetterla o vero far la contraria. Questa libertà presuppone già nell'uomo la ragione; ma a riguardo della libertà fisica la parola ragione altro non importa che la facoltà intellettuale per mezzo di cui si rappresenta l'oggetto come appetibile o pure evitabile secondo le forze naturali, ma senza che s'induca necessità. La libertà morale aggiunge poi sopra la fisica il far quell'azione lecitamente o illecitamente. Questa seconda libertà anche presuppone nell'uomo la ragione, ma diversamente: poiché la parola ragione a riguardo della libertà morale dinota una cognizione che non rappresenta


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semplicemente la cosa si è come appetibile o evitabile, come la rappresenta nello stato di libertà fisica, ma la rappresenta secondo che la cosa è vietata o comandata dalla legge, la quale rende lecito o illecito quell'esercizio di libertà.

Ciò premesso, ognun vede che la libertà fisica è più ampia della morale; giacché la fisica si estende per quanto le voglie e le forze umane possono estendersi, laddove la morale è ristretta fra' termini delle leggi, con un restringimento però tale per cui l'uomo, quantunque perda il poter lecitamente fare, nulladimeno non perde il poter assolutamente fare tutto quello ch'è dentro la sfera de' suoi appetiti e delle se forze naturali. Dunque se la libertà fisica è posta nel poter fare e la morale nel poter lecitamente fare, è cosa manifesta che la libertà fisica precede la morale; e la precede con priorità di natura, perché l'uomo può aver la facoltà di fare o di omettere alcun'azione senza che gli venga ristretta, ma non gli può esser ristretta questa facoltà, se prima non l'avea. Sicché la ragione della libertà morale è posteriore alla ragione della libertà fisica e da questa dipende. E se la legge si dice a ligando perché lega la libertà, dunque suppone la libertà, siccome la forma presuppone il soggetto. La legge toglie


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all'uomo il poter fare quel che vuole; dunque presuppone che l'uomo era antecedentemente libero a fare quel che volea. Quindi dice S. Tomaso che la legge presuppone le creature come precognite, cioè come costituite nella loro libertà fisica e secondo la ragione considerata nel primo odo, e poi legate dalla legge.

Ora l'avversario vuole che il possesso stia per parte della legge, per causa che la libertà dell'uomo, come dice, è preceduta dalla ragione, e la ragione non è che una partecipazione della legge. Ma se gli dimanda: di qual libertà e di qual ragione egli parla? Se parla della libertà fisica, non dice bene, perché certamente ciò si dee intendere della libertà morale, la quale è regolata da quella ragione ch'è participazione della legge o, per meglio dire, da quella ragione che rappresenta la legge; poiché da quel che si è detto apparisce che la libertà fisica, la quale non ha per sua regolatrice la ragione che rappresenta la legge, ma la ragione che rappresenta le cose come appetibili e fattibili, secondo si è spiegato di sopra, questa libertà fisica (dico) precede la libertà morale e precede la ragione regolatrice di questa libertà morale. L'uomo dunque è in possesso della sua libertà fisica, e quindi può secondo quella liberamente operare, finché però la


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ragione regolatrice della libertà morale col rappresentargli la legge vietante non gli restringa l'anteriore libertà fisica di poter fare tutto il fattibile a più angusti termini del giusto e dell'onesto. Posto poi che l'uomo è in possesso della sua fisica libertà di eleggere quel che può fare, la rappresentazione della legge, affinché sia sufficiente a circoscrivere e limitare la libertà naturale, dee farsi con giudizio certo e non basta che sia fatta con giudizio dubbio, qual nasce dal concorso di due opinioni probabili; perché allora la ragione regolatrice non già gli rappresenta la legge, ma il solo dubbio della legge, il quale non è legge.

In conclusione, per vedere se la ragione precede o no la libertà, bisogna vedere che cosa intendasi sotto nome di ragione: se s'intende il raziocinio o sia la facoltà che ha l'uomo, quando giunge all'uso di ragione, di saper discernere le cose vere dalle false, concediamo che questa sorta di ragione precede la libertà e la volontà; ma questa ragione nulla toglie alla libertà dell'uomo. Se poi per ragione s'intende l'attuale discernimento retto delle verità, allora neghiamo che tal ragione possiede prima della libertà: perché tal ragione non lega la libertà, se non dopo che gli è manifestata colla di lei cognizione. Ed in tal senso diciamo che l'uomo anche


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dotato di ragione, ma secondo il primo senso, nella mente divina è stato contemplato antecedentemente alla legge, come scrivemmo di sovra.

Oppone di più e dice: «Da questo vostro principio (cioè che la legge incerta non può indurre un obbligo certo) non altro può dedursi se non che quando vi sono due opinioni probabili l'azione non sia certamente proibita, ma non già che non sia neppure probabilmente proibita. Onde l'opinione che sta per la legge se non indurrà un obbligo certo, l'indurrà almeno probabile. Onde non sarà mai lecita l'azione perché manca il dettame moralmente certo; poiché, posta la probabilità eguale, dov'è mai la certezza morale?» E ciò siegue il p. lettore a provarlo per più carte. Cosa che potea farne di mano, perché niuno gli nega che per operar lecitamente si richiede il dettame moralmente certo. Ma il punto sta che questo dettame certo non solo può aversi da un principio certo diretto, ma anche da un principio certo riflesso, com'egli stesso me l'accorda nella pag. 45, dicendo: «Se fosse vero che nel caso d'incertezza della legge la legge non vi fosse perché non promulgata abbastanza, allora (siccome accennai) avreste un principio certo, se non diretto, almeno riflesso, onde formare un dettame prudente certo di


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poter celebrare lecitamente quel contratto, attesoché, non essendovi legge che lo proibisca, qual timor saggio potrebbevi essere di trasgredire la legge che certamente non v'è?»

Egli però nega questo mio primo fondamento del principio, cioè che la legge dubbia non obbliga perché non è promulgata abbastanza; e qui riprova insieme il secondo mio fondamento, che la legge incerta non può indurre un obbligo certo, e dice così: «Ma siccome questo principio si è dimostrato falsissimo, il ricorrere all'incertezza della legge che non può indurre un'obbligazione certa non può esservi di veruno ajuto, perché l'argomento dimostra che con tale incertezza della legge non si potrà mai formare un dettame prudente certo dell'onestà di celebrare il contratto.» Ma io rispondo al p. lettore: posto che egli accorda potersi avere il dettame certo da un principio certo riflesso, perché ora dice che quando vi sono due opinioni probabili «non sarà mai lecita l'azione, perché manca il dettame moralmente certo; poiché, posta la probabilità eguale, dov'è mai la certezza morale?» Perché, io rispondo, se manca nel concorso di due probabili il dettame certo per lo principio diretto, basta per render lecita l'azione che vi sia il dettame per qualche principio


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riflesso che sia certo. Posto dunque che fosse vero uno de' due fondamenti del nostro sistema, che la legge dubbia non obbliga, o perché non è abbastanza promulgata o perché, essendo incerta, non può indurre un obbligo certo, ecco ch'io avrei già il dettame certo, per cui posso lecitamente operare.

Esclami poi egli quanto vuole, dicendo che sono falsi falsissimi i suddetti due fondamenti della nostra sentenza. In quanto al primo, che la legge dubbia non obbliga perché allora è abbastanza promulgato il solo dubbio della legge, ma non la legge, a me basta l'aver addotte le autorità di S. Tomaso e degli altri teologi che di sovra ho riferite: risponda a quelle il mio oppositore con ragioni che persuadono, ed avrà vinta la causa. In quanto poi al secondo fondamento, che la legge incerta non può indurre un obbligo certo, credo d'averlo ancora bastantemente provato con provare colle dottrine dello stesso angelico Dottore che la libertà donata da Dio all'uomo possiede anteriormente alla legge, avendo il Signore ab aeterno contemplato l'uomo prima sciolto e dotato della libertà da esso medesimo Dio donatagli, e poi legato dalla legge; onde la di lui libertà non resta legata se non dopo ch'egli ha avuta la scienza della legge. E questo dico è l'altro fondamento che rende


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certo il principio riflesso col quale formasi il dettame certo che sia lecito l'uso dell'opinione egualmente probabile, perché una legge incerta non può legare la libertà, ch'è certa e che ha il possesso anteriore all'obbligo del precetto. Se non vi fosse altro, basta a provar questo fondamento la massima generale insegnata e provata da S. Tomaso: Nullus ligatur per praeceptum nisi mediante scientia illius praecepti.




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