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S. Alfonso Maria de Liguori
Dissertazioni teologiche-morali

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§. 6. Dell'eternità delle pene de' dannati.

 

33. Origene fu il capo che negò l'eternità delle pene infernali11; a lui si aggiunsero poi i sociniani e molti protestanti. Del resto l'errore di Origene fu condannato come contrario alla fede cattolica dal concilio ecumenico costantinopolitano


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II., e comunemente da tutti i santi padri riferiti dal p. Patuzzi1. L'eternità delle pene de' dannati non può dirsi mai ingiusta; perché ognuno che offende Dio con peccato mortale, essendo l'ingiuria infinita, merita una pena infinita; onde per quanto grande sia la pena, e per quanto sia lunga, non può mai giungere a punirla quanto merita. Maiestas Dei (scrive s. Tommaso) est infinita, ergo quicumque peccat mortaliter, dignus est infinita poena; et ita videtur quod iuste pro peccato mortali quis perpetuo puniatur2.

 

34. Né vale a dire, che non sembra cosa giusta dare una pena eterna ad un peccato che dura un momento; perché risponde s. Agostino3, che la pena non dee misurarsi secondo dura la colpa, ma secondo la sua gravezza; anche nei tribunali terreni si la pena di esilio perpetuo o della morte a delitti che in breve tempo si commettono. Aggiunge l'angelico nel luogo citato, che non dee cessar la pena, sempre che non cessa la colpa: Culpa manet in aeternum, cum culpa non possit remitti sine gratia, quam homo non potest post mortem acquirere; nec debet poena cessare, quamdiu culpa manet. Come dicemmo di sopra, il dannato è ostinato nel male, onde ama il suo peccato, nello stesso tempo che ne prova la pena; come dunque Iddio dovrà mai liberarlo dalla pena, mentr'egli seguita ad amar la sua colpa? e come Dio può perdonargli il peccato, mentre il dannato sta così imperversato nell'odio contra Dio, che quantunque Iddio gli offerisse il perdono e la sua amicizia, il dannato la rifiuterebbe?

Ma vediamo le altre opposizioni degli eretici. Dicono per 2. che non conviene alla pietà ed alla clemenza d'un Dio, il veder patire eternamente una sua creatura nelle peneterribili dell'inferno. Ma risponde s. Tommaso4, che Dio abbondantemente ha dimostrata la sua pietà e clemenza cogli uomini; qual maggior pietà usar poteva Iddio cogli uomini, che, vedendoli perduti per la colpa di Adamo, ed anche per li peccati proprj, scendere da cielo in terra a farsi uomo, e dopo una vita povera, umile e tribulata, spargere tutto il suo sangue a forza di tormenti, e morir di dolore sovra un patibolo di vituperio? Qual pietà maggiore, che lasciar poi agli uomini questo suo corpo e sangue nel sagramento dell'altare, acciocché se n'avvalessero per alimento delle loro anime, e con tal mezzo si conservassero, e si aumentasse il loro spirito sino alla morte; in cui trovandosi poi più uniti con Dio, entrassero in cielo a godere eternamente una vita beata? Ah che nel giorno del giudizio il Signore farà conoscere a tutto il mondo, quante misericordie, quanti lumi, e quanti aiuti ha dispensati a ciascun uomo in sua vita! ed a molti, che in vece di grazie meritavano gastighi, con quanta pazienza gli ha aspettati, e con quanto amore gli ha tante volte chiamati a penitenza! Quelli poi che han voluto disprezzar tutti questi favori, e che per non lasciar le loro passioni e gusti terreni han voluto vivere e morire separati da Dio, volontariamente abbandonandosi alla loro eterna ruina, se nell'inferno restando ostinati nel lor peccato, saran puniti in tutto il tempo che durerà il lor peccato, chi potrà dire che Iddio con essi non ha usata pietàclemenza?

 

35. Si oppone per 3., che le pene si danno per emenda de' rei, o almeno per dar timore agli altri; ma nell'inferno né i dannati son capaci di emenda, né i loro compagni possono cavar profitto dalle loro pene; a che serve dunque il tenerli eternamente in tormenti? Risponde s. Tommaso5, e dice che tali riguardi si appartengono a' reggitori delle repubbliche umane; ma Iddio ch'è reggitore dell'universo, deve aver cura di conservare quei beni che cospirano al bene universale del tutto; e perciò dee conservar la giustizia, la quale esige che i buoni abbiano il degno premio delle loro virtù, e gli empi abbian la pena degna de' loro delitti; e così la giustizia senza macchia di parzialità dispensa i premj, e senza macchia di crudeltà eseguisce le pene.

 

36. Si oppone per 4., che i santi del cielo, che sono così potenti con Dio, e così pieni di carità, non lasceranno di pregare per li dannati, e così ne libereranno molti dall'inferno. Risponde s. Tommaso6, che i santi pregano per li peccatori che vivono in questa terra, mentre questi sono in istato di convertirsi; ma i dannati che han finita la vita in peccato non sono più in istato di convertirsi; e perciò né la chiesa militante né la trionfante fa più orazione per essi.

 

37. Si oppone per 5., ma Gesù Cristo disse: Beati misericordes, quoniam ipsi misericordiam consequentur7. Quelli dunque che avranno in vita usata carità col prossimo, riceveranno finalmente dopo


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qualche tempo la misericordia dal Signore d'esser liberati dall'inferno. Risponde s. Tommaso1, che riceveranno la misericordia coloro, Qui misericordiam ordinate impendunt, non autem qui se ipsos in miserendo negligunt; riceveranno misericordia quei che usano la carità ordinata, ma non coloro che, usando carità cogli altri, trascurano se stessi, e volontariamente vogliono perdersi.

 

38. Si oppone per 6. da altri, che almeno riceveranno la misericordia quei cristiani, che, avendo ricevuto il battesimo, hanno anche poi ricevuto il battesimo, hanno anche poi ricevuto il sagramento dell'altare, ed avranno perseverato nella fede sino alla morte; questi almeno, dopo aver laggiù sofferti molti supplicj, e per molto tempo, avranno la grazia della salute. Ciò lo ricavano primieramente dal testo di s. Giovanni: Si quis manducaverit ex hoc pane, vivet in aeternum2. E da quell'altro di s. Matteo: Qui autem perseveraverit usque in finem, hic salvus erit3. Ma si risponde al primo, che viverà in eterno chi mangerà il corpo del Signore degnamente, ma chi lo mangia indegnamente, dice s. Paolo, Iudicium sibi manducat et bibit4. Al secondo testo poi risponde s. Tommaso5, che riceveranno la salute quei che sino alla morte conserveranno la fede formata, cioè unita colla grazia divina, altrimenti dice s. Giacomo, Fides sine operibus mortua est6.

 

39. La maggiore ed ultima opposizione che si affaccia, è l'autorità di s. Girolamo: il quale, comentando Isaia, e parlando di Origene, che difendeva dovere aver fine un tempo le pene dell'inferno, s. Girolamo non solo non oppone alcuna nota a tal sentenza, ma, discendendo al particolare, dice che i soli demonj, gli atei e gl'infedeli, debbono esser puniti eternamente; ma che i cristiani, dopo aver soddisfatte le pene meritate un giorno saranno liberati: Et tamen christianorum, quorum opera in igne probanda sunt, atque purganda, moderatam arbitramur, et mixtam clementia sententiam Iudicis7. Parimente nel dialogo contra i pelagiani dice che Origene vuole che non tutte le creature ragionevoli si debbano perdere, ed al demonio concede la penitenza; ma il s. dottore dice, che così il demonio, come tutti gli uomini empj e prevaricatori, debbono perpetuamente perire: ma parlando poi degli altri cristiani, dice così: Et christianos, si in peccato praeventi fuerint, salvandos esse post poenas. Questo luogo è massimamente censurato da Petavio e da Daniele Uezio8. Ciò però non ostante, dice il p. Patuzzi9, che niun savio si persuaderà che s. Girolamo abbia tenuta questa sentenza, che non tutti i mali cristiani dannati patiranno eternamente nell'inferno; ma che il s. dottore più presto ha parlato di quei cristiani peccatori, che si son pentiti de' loro gravi peccati, i quali dovranno poi espiarsi col fuoco, non dell'inferno, ma del purgatorio. Chi desidera vedere meglio esaminato questo punto, veda Natale Alessandro10.

 

40. Non mancano poi altri autori eretici, i quali, inventando opinioni secondo il loro genio, dicono non essere improbabile che le pene de' dannati dopo qualche tempo saranno almeno mitigate, o interrotte per qualche tempo. Ma ciò è contrario espressamente alle scritture. Isaia, parlando de' reprobi, dice: Vermis eorum non morietur, et ignis eorum non extinguetur11. Gesù Cristo poi, nella sentenza contra i medesimi del giudizio finale, dice: Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum12. Ma dice un bell'umore: il Signore dice che il fuoco è eterno, ma non dice che il supplicio de' dannati è eterno. Ma per non perdere parole inutilmente, vediamo se la scrittura esprime che il supplicio anche è eterno; io trovo scritto in s. Matteo, parlandosi de' dannati: Ibunt hi in supplicium aeternum13. S. Paolo dice: Qui poenas dabunt in interitu aeternas14. Dunque il fuoco dell'inferno, non solo sarà esso eterno, ma in eterno tormenterà il dannato; e la ragione è chiara, che nell'inferno non vi può essere tregua o sollievo; perché durando il medesimo peccato ne' dannati, dee sempre durar la stessa pena.

 

41. Si accenna qui per ultimo la questione, se i dannati nell'inferno son puniti citra condignum, o iuxta condignum, cioè se la loro pena è minore di quella che meritano, o pure è corrispondente a' loro demeriti? Il cardinal Gotti15 riferisce prima la sentenza di coloro che dicono, esser la pena de' dannati minore di quella che meritano, primieramente per le scritture, le quali dimostrano, che Iddio con tutti usa misericordia: Deus omnium miseretur16: Aut obliviscetur


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misereri Deus? aut non continebit in ira sua misericordias suas1? Miserationes eius super omnia opera eius2. Secondariamente per la ragione che il Signore, per quanto punisca il dannato, non può mai punirlo quanto merita; poiché il male della pena non può mai compensare il male di un peccato mortale, ch'è di malizia infinita, mentr'è un'offesa infinita che si fa a Dio.

 

42. Ma al cardinal Gotti pare più probabile che Dio punisca i dannati iuxta condignum, cioè colla pena corrispondente alle loro colpe. Ed in prova di ciò rapporta più testi, ne' quali si esprime che il reprobo è gastigato nell'inferno per quanto merita. S. Giovanni scrive: Quantum glorificavit se et in deliciis fuit, tantum date illi tormentum et luctum3. S. Matteo riferisce le parole dette da Gesù Cristo: Amen dico tibi, non exies inde, donec reddas novissimum quadrantem4. S. Agostino, parlando del dannato e riflettendo a questo passo, dice: Semper solvit novissimum quadrantem, dum sempiternas poenas terrenorum peccatorum luit5. S. Paolo scrive: Secundum autem duritiam tuam et impoenitens cor, thesaurizas tibi iram in die irae, et revelationis iusti iudicii Dei qui reddet unicuique secundum opera eius6. E s. Giacomo scrive nella sua epistola7: Iudicium enim sine misericordia illi qui non fecit misericordiam. La ragione convincente che recano i fautori di questa sentenza è perché nulla si rimette dalla pena, quando nulla si toglie della colpa; la quale non può rimettersi al peccatore, se non per li soli meriti di Gesù Cristo; ma de' meriti di Cristo i dannati si son renduti affatto e per sempre indegni, e perciò non sono più capaci di remissione.

 

43. S. Agostino poi riferisce la prima sentenza di coloro i quali tengono che Dio punisca i dannati per sua misericordia meno di quel che meritano, citra condignum; e poi dice che non intende di approvarla; Quod quidem non ideo confirmo, quia non resisto8. S. Tommaso all'incontro lascia la questione indecisa, dicendo che Dio non usa misericordia co' dannati, se non solo forse castigandoli non quanto si meritano: Non quod damnatorum misereatur, nisi forte puniendo citra condignum9. Ma oppongono i contrarj, che gli eletti certamente son rimunerati in cielo supra condignum; e così anche dee supporsi che i dannati almeno iuxta condignum siano puniti nell'inferno. Ma adequatamente rispondono gli autori della sentenza opposta, che quantunque sia certo che i beati son premiati in cielo supra condignum, secondo quel che si dice in s. Luca, ch'essi riceveranno una misura sovrabbondante: Mensuram bonam, et confertam, et coagitatam, et supereffluentem dabunt in sinum vestrum10; e secondo quel che dice ancora s. Paolo: Non sunt condignae passiones huius temporis ad futuram gloriam quae relevabitur in nobis11: nulladimeno dicono esservi molta differenza tra' beati e' dannati circa la rimunerazione, poiché i beati son rimunerati da Dio sovra i loro meriti, perché sovra di essi stendesi la beneficenza de' meriti di G. C., ma non si stende già sovra i reprobi, affinché si diminuisca la pena che meritano; con tutto ciò la sentenza opposta non lascia di essere più probabile.

 




11 L. 3. de Angel. c. 6.

1 De sede inf. l. 3. c. 16.



2 Suppl. 3. p. q. 99. a. 1.



3 De civ. Dei l. 21. c. 11.



4 2. 2. q. 157.



5 P. 3. q. 87. a. 1.



6 P. 3. suppl.



7 Matth. 5. 7.

1 Loc. cit. a. 5. ad 1.



2 Io. 6. 25.



3 Matth. 10. 22.



4 1. Cor. 11. 29.



5 Q. 99. a. 4. ad 3.



6 Iac. ep. c. 2. v. 26.



7 S. Hier. in Commento sup. Isaiam.



8 Petav. l. 3. de Angel c. 7. et Huetius in Originian. l. 2.



9 De sede inf. l. 3. c. 11. n. 12.



10 Histor. eccl. tom. 3. in dissert. contra Originian.



11 Isa. 66. 24.



12 Matth. 25. 11.



13 Matth. 25. 46.



14 2. Thess. 1. 9.



15 T. 3. in fin. q. 8. dub. 3. §. 2.



16 Sap. 11. 14.

1 Ps. 76. 10.



2 Ps. 144. 9.



3 Apoc. 18. 7.



4 Matth. 5. 26.



5 L. 1. de serm. dom. c. 11.



6 Rom. 2. 5. 6.



7 C. 2. v. 13.



8 L. 21. de civ. Dei c. 24.



9 Suppl. 3. p. q. 94. a. 2. ad 2.



10 Luc. 6. 38.



11 Rom. 8. 18.




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