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S. Alfonso Maria de Liguori
Istruzione e pratica pei confessori

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Punto III. Della coscienza probabile.

21. Della coscienza probabile.

22. In materia di fede.

23. Di medicina.

24. Di giudizio.

25. a 27. Di sagramenti.

28. In danno altrui.

29. Gradi della probabilità.

30. Della tenuamente probabile.

31. Della probabilissima.

32. Dell'opinione egualmente probabile.

33. a 71. Della probabile, o sia probabiliore.

21. La coscienza probabile è quella che per qualche probabile opinione detta, esser lecita un'azione. L'opinione poi probabile è quella che ha qualche grave fondamento atto a tirarsi l'assenso d'un uomo prudente. Ma in ciò prima di tutto bisogna intendere, non esser lecito operare coll'opinione probabile col pericolo di fatto del danno del prossimo, quando il prossimo sta in possesso del suo ius, dovendosi distinguere col p. Suarez, altro essere il caso quando si tratta del puro ius, cioè se possiamo lecitamente fare un'azione; altro quando si tratta del fatto e della verità della cosa, talmenteché se quell'opinione non è vera, certamente il prossimo riceverà il danno; poiché allora non possiamo servirci dell'opinione probabile. Spieghiamoci più chiaro coll'esempio: Se io dubito, che quegli sia uomo o fiera, io non posso ferirlo, se non son certo che sia fiera, ancorché probabilmente, anzi più probabilmente la stimassi fiera; perché altrimenti, se quegli è veramente uomo, io, ferendolo, colla mia opinione non evito il suo danno.

22. Da ciò s'inferisce per 1., che in materia di fede, e delle cose necessarie alla salute eterna, non solo è illecito il seguir l'opinione meno probabile, come diceva la propos. 4. dannata da Innocenzo XI., ma anche la probabiliore, e la probabilissima; e siam tenuti a seguire in ciò la sentenza più tuta, e per conseguenza la religione più sicura, ch'è la nostra; perché, essendo falsa ogni altra religione, ancorché alcuna di queste sembrasse mai a taluno più probabile, egli non evita il danno della sua eterna salute, restando privo de' sagramenti, e degli altri mezzi necessari a conseguirla.

23. S'inferisce per 2., che il medico è tenuto ad usare i rimedi più sicuri per la sanità dell'infermo; né gli è lecito di applicarli qualche medicina che non sa se sia per giovarli, o nuocergli, affin di farne la sperienza. Solamente si dubita tra' dottori se, stando già disperato l'infermo della vita, sia lecito al medico dargli alcun rimedio dubbio che possa guarirlo, ma che possa anche accelerargli la morte; altri lo negano, ma molti altri come Sanchez, Valenzia, Laymann, Bonac, l'ammettono, e non improbabilmente, sempreché altrimenti la morte è certa; mentre par che la stessa natura permetta di porre a rischio un poco di vita per la speranza di guarire in tutto2.

24. S'inferisce per 3., che il giudice dee giudicare secondo la sentenza più probabile, poiché egli è tenuto per legge divina ed umana a contribuire a ciascuno il di lui diritto, secondo la maggior probabilità delle ragioni che gli assistono. Che perciò giustamente fu dannata l'altra propos. 2. dal medesimo Innocenzo XI., la quale diceva: Probabiliter existimo, iudices posse iudicare iuxta opiniones etiam minus probabiles. Nel che nondimeno con molto fondamento notano il Cardenas, Filguera, La-Croix, ed altri, che se il reo possiede legittimamente la roba controversa, non può il giudice spogliarnelo, se l'attore non apporta ragioni tali, che non solo sieno probabiliori, ma convincenti: mentre (come di sovra si disse al n. 20.) il legittimo possesso un ius certo a ciascuno di ritener la roba, finché non consti del diritto altrui; e ciò lo prova il Cardenas con molti argomenti, e coll'autorità de' dottori, ed anche con espressi testi3.

25. S'inferisce per 4., che nella collazione de' sagramenti non può il ministro


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servirsi dell'opinione probabile, o sia probabiliore circa il loro valore, ma dee seguire le sentenze tute, quali sono o le tuziori, o le moralmente certe. Onde similmente fu dannata da Innocenzo XI. la propos. 1., che diceva: Non est illicitum in sacramentis conferendis uti opinione probabili de valore sacramenti, relicta tutiori; nisi id vetet lex, conventio, aut periculum gravis damni incurrendi. Hinc sententia probabili tantum utendum non est in collatione baptismi, ordinis sacerdotalis, et episcopalis. Dee tuttavia in ciò notarsi, che in due casi è lecito servirsi delle opinioni probabili anche circa il valore del sagramento, cioè:

26. Il primo caso è quando si sta in estrema necessità, essendo allora lecito di servirci d'ogni opinione probabile, ed anche della tenue probabile, come dicono molti dd.1, sempre non però amministrando allora il sagramento sotto la condizione, se vale, perché la condizione allora toglie l'ingiuria al sagramento, se mai restasse invalido; e la necessità all'incontro somministra giusta causa di dare il sagramento condizionato.

27. Il secondo casi è quando si presume che altronde supplisca la chiesa a far valido il sagramento, conforme avviene quando si contrae un matrimonio probabilmente valido; perché allora si presume, che la chiesa toglie l'impedimento, se mai vi fosse, per rendere il matrimonio certamente valido, secondo comunemente stimano i dottori con Suarez, Lessio, Coninch., Cardenas, Sporer, ed altri con Lugo, il quale attesta, questa esser la pratica di tutta la chiesa2. Lo stesso avviene nel sagramento della penitenza, trattandosi della giurisdizione del confessore; poiché quando v'è opinione veramente probabile per la suddetta giurisdizione, la chiesa ancora supplisce il conferirla, se mai il confessore non l'avesse, per ragione della consuetudine universale de' confessori di assolvere colla giurisdizione probabile, come attestano comunemente Suarez, Lugo, Cardenas, Sanchez, Bonac., Lessio, Coninch., Maldero, Castrop., i Salmaticesi, La-Croix ecc. Questa sentenza non però noi non l'ammettiamo, se non quando v'è causa di necessità grave, o almeno d'una grande utilità, come bene limitano Wigandt, Holzmann, Marchant., Sporer, Elbel ecc. collo stesso p. Suarez. Altrimenti non dee presumersi, che la chiesa voglia favorire la mera libertà de' sacerdoti3.

28. Sicché, come si è detto al n. 21., non è lecito avvalersi dell'opinione probabile col pericolo del danno altrui. Ciò non di meno (come già di sovra s'è accennato) s'intende quando il prossimo sta in possesso certo del suo ius; altrimenti l'opinione ben potrà essere praticamente probabile de iure, o sia probabile prossima, secondo dicono i dottori, com'è per esempio l'opinione, che quando alcuno è già diffamato in un luogo, non gli fa ingiuria grave chi lo diffama in un altro, benché ivi il delitto, sia occulto. Ma si legga quel che si dirà su questo punto al capo XI. n. 12. E si osservi ancora il libro grande, in cui si esemplifica la suddetta dottrina con più altri casi consimili4. E la ragione si è, che in tutti questi casi si considera, che il prossimo non abbia ius certo, o almeno possesso certo del medesimo.

29. Ciò che dunque abbiamo detto corre quando si tratta del puro fatto. Altrimenti è poi quando si tratta del puro ius, e della sola onestà dell'azione; poiché allora è ben lecito operare coll'opinione probabile. Ma qui bisogna vedere, quale e come dee esser la probabilità delle opinioni, acciocché possiamo lecitamente avvalercene. In ciò s'ha da distinguere l'opinione tenuamente probabile, la probabile, la probabiliore, la probabilissima, e la moralmente certa. L'opinione tenuamente probabile è quella che ha un qualche fondamento, ma non tale che sia atto a


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conciliarsi l'assenso d'un uomo prudente. La probabile all'incontro è quella, come di sovra già si è detto, che si appoggia ad un fondamento talmente grave che basti a formare un prudente assenso, benché con formidine dell'opposto. La probabiliore è quella, che ha un fondamento più grave, ma ben anche con prudente formidine in contrario, essendo che l'opinione opposta alla probabiliore ben può apparire alquanto probabile. La probabilissima è quella che s'appoggia ad un fondamento gravissimo, sicché la contraria si ha solo per tenuamente, o dubbiamente probabile; sicché la probabilissima, non eccedendo i confini della probabilità, sebbene abbia il luogo primario tra le opinioni probabili, non esclude però ogni formidine, che l'opposta in qualche caso, ma rarissimo, possa esser vera. L'opinione poi, o per meglio dire la sentenza moralmente certa, è quella che esclude ogni prudente formidine, sicché l'opposta si suppone affatto improbabile.

30. Posto ciò, due cose son certe. La prima, che non è lecito operare coll'opinione tenuamente probabile, com'è certo per la propos. 3. dannata da Innocenzo XI., la quale diceva: Generatim dum probabilitate intrinseca, sive extrinseca, quantumvis tenui, modo a probabilitatis finibus non exeatur, confisi, aliquid agimus, semper prudenter agimus. E la ragione si è, perché la tenue probabilità non può dirsi vera probabilità, siccome la tenue fortezza, o la tenue perizia non può dirsi vera fortezza, e vera perizia, ma più presto dee dirsi debolezza, ed imperizia. La seconda cosa certa all'incontro è, che ben lecito è l'operare coll'opinione probabilissima; come si ha dalla propos. 3. dannata da Alessandro VIII., la quale diceva: Non licet sequi opinionem vel inter probabiles probabilissimam. Così appunto diceano Sinnichio e Vendrochio.

31. Or restano a discutersi due questioni. La prima, se sia lecito seguitare l'opinione meno probabile contra l'opinione più probabile, che sta per la legge. La seconda, se essendo le due opinioni opposte egualmente, o quasi egualmente probabili, sia lecito seguire la meno tuta. Dicesi egualmente, o quasi egualmente probabili; perché (secondo convengono tutti i probabilisti ed antiprobabilisti) quando è poca la preponderanza tra l'una e l'altra opinione, sì che molto tenue e dubbioso è l'eccesso, allora ambedue le opinioni si reputano egualmente probabili, giusta l'assioma comune, che parum pro nihilo reputatur.

32. In quanto alla prima questione presto ci sbrigheremo, perché la risoluzione è troppo chiara. Diciamo, che non è lecito di seguitare l'opinione meno probabile, quando l'opinione che sta per la legge è notabilmente e certamente più probabile; perché allora l'opinione più tuta non è già dubbia (intendendo con dubbio stretto, siccome si dirà nella seconda quistione), ma è moralmente, o quasi moralmente certa, avendo per sé un fondamento certo d'esser vera; dove all'incontro l'opinione meno tuta, e molto meno probabile, non ha tal fondamento certo d'esser vera. Ond'è che allora questa rimane tenuamente o almeno dubbiamente probabile a confronto dell'opinione più tuta; e perciò non è prudenza, ma imprudenza grave il volerla seguire. Poiché quando apparisce all'intelletto con certezza, che la verità sta molto più per la legge, che per la libertà, allora non può la volontà prudentemente e senza colpa abbracciare la parte men tuta; perché in tal caso l'uomo non opererebbe per giudizio proprio, o sia propria credulità, ma per uno sforzo che colla sua volontà farebbe all'intelletto in rimuoversi dalla parte che gli apparisce molto più verisimile, ed appigliandosi alla parte che non solo non gli apparisce vera, ma neppure dimostra di aver fondamento certo di poter esser vera. E qui fa quello che dice l'apostolo: Omne autem quod non est ex fide, peccatum est.1.


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33. In quanto poi alla seconda questione (che qui di proposito ed a lungo esamineremo) diciamo, che quando l'opinione men tuta è egualmente probabile, può lecitamente seguirsi, perché allora la legge è dubbia, e perciò non obbliga per ragion del principio certo, siccome vedremo qui essere indubitabile secondo le dottrine di s. Tommaso, che la legge dubbia non può indurre un obbligo certo.

34. Esaminiamo la cosa da' suoi principii colla guida sempre del nostro angelico maestro. Egli così definisce la legge: Lex quaedam regula est, et mensura actuum, secundum quam inducitur aliquis ad agendum, vel ab agendo retrahitur; dicitur enim lex a ligando, quia obligat ad agendum1. Indi insegna s. Tommaso, che questa regola o sia misura della legge, acciocché i sudditi sian tenuti ad osservarla, dee esser loro manifestata colla promulgazione; e perciò nell'art. 4. della stessa questione propone il dubbio: Utrum promulgatio sit de ratione legis; e risponde così: Lex imponitur aliis per modum regulae et mensurae; regula autem et mensura imponitur per hoc quod applicatur his, quae regulantur et mensurantur. Unde ad hoc quod lex virtutem obligandi obtineat, quod est proprium legis, oportet quod applicetur hominibus, qui secundum eam regulari debent. Talis autem applicatio fit per hoc, quod in notitiam eorum deducitur ex ipsa promulgatione. Unde promulgatio ipsa necessaria est ad hoc, quod lex habeat suam virtutem. Dunque la legge prima della promulgazione non ha virtù di obbligare, poiché le leggi, come scrive Graziano,2 allora acquistan forza di legge, e son propriamente leggi, quando son promulgate: Leges tunc instituuntur, cum promulgantur. Quindi da s. Tommaso vien succintamente definita la legge: Quaedam rationis ordinatio ad bonum commune promulgata3. Si noti, ordinatio promulgata.

35. Questa promulgazione poi è necessaria per obbligare così nelle leggi umane, come nelle divine e naturali, secondo insegna il medesimo s. dottore, poiché nell'art. citato ad 1. si fa egli questa obbiezione: Lex naturalis maxime habet rationem legis; sed lex naturalis non indiget promulgatione; ergo non est de ratione legis quod promulgetur. Ed indi così risponde: Dicendum, quod promulgatio legis naturalis est ex hoc ipso quod Deus eam mentibus hominus inseruit naturaliter cognoscendam. Non dice dunque, che la legge naturale non ha bisogno di promulgazione, ma per opposto ha per certo, esser necessaria la promulgazione; dice solamente, che la promulgazione della legge naturale non si fa con modo umano, ma col lume naturale che ciò inserisce nelle menti degli uomini. Ciò più chiaramente lo spiega Silvio, dicendo, che la legge naturale allora si promulga attualmente a ciascuno, quando ciascuno attualmente la conosce: Actualiter tunc (lex) unicuique promulgatur, quando cognitionem a Deo accipit dictantem, quid iuxta rectam rationem sit amplectendum, quid fugiendum4. Lo stesso dice il cardinal Gotti5, scrivendo, che non per tutte le leggi si richiede egual promulgazione, poiché la legge umana si promulga per segni esterni, e con qualche solennità; ma la legge naturale per l'impressione dello stesso lume naturale si promulga; del resto non dubita l'autor nominato, che così per l'una, come per l'altra legge è necessaria la promulgazione: Ad hoc ut lex in actu secundo obliget, requiritur quidem indispensabiliter, ut subditis promulgatione proponatur; sicut mensura in actu secundo non mensurat, nisi mensurabili applicetur.6. Lo stesso scrive il p. Gonet7, dicendo, che ciò comunemente è insegnato da' teologi. E ciò più diffusamente l'espone in altro luogo8, dove per provare, che ben può darsi l'ignoranza invincibile de'


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precetti naturali, che mediatamente, e per lungo discorso si deducono da' primi principii, argomentò così: Lex enim vim obligandi non habet, nisi applicetur hominibus per promulgationem; sed lex naturalis non promulgatur omnibus hominibus quantum ad omnia praecepta, quae sunt remotissima a primis principiis; ergo non obligat omnes quantum ad illa praecepta. Subindeque potest dari de illis ignorantia invincibilis et excusans a peccato. Indi1 in conferma di più segue a dire: Plerumque esse fortunae, non voluntatis, quod homines peccent, vel non peccent, prout videlicet id quod agunt est conforme vel difforme iuri naturali ab eis ignorato; quod etiam absurdissimum est; cum vera et sola causa peccati sit voluntas creata, ut operans difformiter ad regulas morum. Da tutto ciò si fa manifesto, che l'uomo non vien ligato dalla divina legge prima che quella gli si applichi colla scienza di le.

36. Dico scienza, perché la cognizione della legge che l'uomo dee proporre a se stesso come misura delle sue azioni, ha da esser certa; altrimenti come mai può misurare le sue azioni con una misura ambigua ed incerta? Per legem enim cognitio peccati, scrisse l'apostolo2. Il che s. Tommaso sul citato luogo così lo spiega: Per legem enim datur cognitio peccati, quid agendum, quid vitandum. E perciò la legge, acciocché obblighi, dee esser manifesta, come insegnò s. Isidoro: Erit autem lex manifesta. Can. Erit autem, dist. 4. Quindi scrisse il Panormitano: Ubi lex est multum dubia, excusatur quis a iuris ignorantia3. Per altro la stessa ragion naturale persuade, che niuno dee stimarsi obbligato ad osservare quei precetti de' quali si dubita, se vi sono o non vi sono, come si ha nell'autentica, Quibus modis nat. eff. §. Natura, dove dicesi: In dubio nullus praesumitur obligatus. Lo stesso insegna l'angelico4, dicendo, che la legge (e parla della legge divina ed eterna) per obbligare dee esser certa. Ivi il santo si fa questa obbiezione: Mensura debet esse certissima; sed lex aeterna est nobis ignota; ergo non potest esse nostrae voluntatis mensura, ut ab ea bonitas voluntatis nostrae dependeat. E così risponde: Licet lex aeterna sit nobis ignota, secundum quod est in mente divina innotescit tamen nobis aliqualiter per rationem naturalem, quae ab ea derivatur ut propria eius imago, vel per aliqualem revelationem superadditam. Non tenga dunque san Tommaso, che la legge divina come nostra misura dee esser certa; ma solo dice, non esser necessario, ch'ella da noi si conosca nello stesso modo come si conosce da Dio, ma bastare, che a noi sia nota per la ragion naturale, o per qualche speciale rivelazione.

37. Ciò più fermamente lo stabilisce s. Tommaso in altro luogo5, dove sul quesito Utrum conscientia liget, così parla: Ita se habet imperium alicuius gubernantis ad ligandum in rebus voluntariis illo modo ligationis, qui voluntati accidere potest, sicut se habet actio corporalis ad ligandum res corporales necessitate coactionis. Actio autem corporalis agentis numquam inducit necessitatem in rem aliam, nisi per contactum coactionis ipsius ad rem in qua agit. Unde nec ex imperio alicuius domini ligatur aliquis, nisi imperium attingat ipsum, cui imperatur. Attingit autem ipsum per scientiam. Unde nullus ligatur per praeceptum aliquod, nisi (si noti) mediante scientia illius praecepti. Et ideo ille qui non est capax notitiae praecepti, non ligatur; nec aliquis ignorans praeceptum Dei ligatur ad praeceptum faciendum, nisi quatenus tenetur scire praeceptum. Si autem non teneatur scire, nec sciat, nullo modo ex praecepto ligatur. Sicut autem in corporalibus agens corporale non agit nisi per contactum, ita in spiritualibus praeceptum non ligat nisi per scientiam. Ha dunque per certo il s. dottore, che l'uomo in niun modo vien ligato dal precetto,


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se non ha la scienza di quello; ed allora solamente (come parla) perde la libertà di andar dove vuole, quando è già ligato dal precetto per la scienza del medesimo, siccome prima avea scritto nello stesso articolo: Ille enim qui ligatus est, necessitatem habet consistendi in loco ubi ligatus est, et aufertur ei potestas ad alia divertendi.

38. osta quell'eccezione espressa di sovra dell'angelico maestro: Nec aliquis ignorans praeceptum Dei ligatur ad praeceptum, nisi quatenus (ecco l'eccezione) teneatur scire praeceptum. Poiché con queste parole non intende già il santo insegnare, che pecca colui il quale è tenuto a sapere il precetto, se opera contro di quello, ancorché invincibilmente l'ignori; intende ivi solamente avvertire, che non è scusato dal peccato chi è tenuto a sapere il precetto, e benché allora la sua ignoranza è vincibile e colpevole. E pertanto nello stesso articolo1 dice: Tunc conscientia erronea non sufficit ad absolvendum, quando in ipso errore peccat. È chiaro che pecca nello stesso errore solamente colui che colpevolmente trascura di sapere ciò ch'è tenuto a sapere; siccome lo stesso s. Tommaso in altro luogo più diffusamente spiegò coll'autorità di s. Agostino, dicendo: Ignorantia quae est omnino involuntaria, non est peccatum. Et hoc quod Augustinus dicit: Non tibi imputatur ad culpam, si invitus ignoras, sed si scire neglexeris2. per hoc autem quod ait, si scire neglexeris, dat intelligere, quod ignorantia habet quod sit peccatum ex negligentia praecedente, quae nihil est aliud quam non applicare animum ad sciendum ea quae quis scire debet3. E lo stesso ripete poco appresso, dicendo, che pecca solamente colui il quale, ne impediatur a peccato quod diligit, scientiam recusat; et sic ignorantia est a voluntate quodammodo imperata4. Dunque allorché l'ignoranza non è volontaria in qualche modo, almeno per ragione della volontaria negligenza, ella non è colpevole, siccome dimostreremo più a lungo nel capo VIII. al n. 8. Si dimanda qui per 5.

39. Sempre che dunque (ritorniamo al nostro assunto) la legge è incerta, non può imporre un obbligo certo; perché allora la legge non è abbastanza proposta all'uomo, come ben riflette il p. Suarez: Quamdiu est iudicium probabile, quod nulla sit lex non est sufficienter proposita homini; unde cum obligatio legis sit ex se onerosa, non urget, donec certius de illa constet5. La ragione è patente, perché allora non vien proposta la legge, ma solamente l'opinione che asserisce, esservi la legge, siccome scrisse saggiamente il p. Paolo Segneri nelle sue pistole per l'opinione probabile6, le cui parole giova qui trascrivere, perché son molto convincenti: «La legge non è legge, fino che non sia bastevolmente promulgata, ond'è che Graziano dist. 3. scrisse: Leges instituuntur, dum promulgantur. né da ciò discordò s. Tommaso7, dove trattando della legge, insegnò, non bastare che venga da chi presiede, ma convenire di più ch'ella si promulghi: Unde promulgatio ipsa necessaria est ad hoc, quod lex habeat suam virtutem. Ora come può dirsi mai promulgata una legge a sufficienza, intorno a cui i dottori contendono? Fino a che la legge persiste entro a' termini di contrasto, non è ancor legge, è opinione; e se è opinione, non è legge. Fino a che è probabile, non esservi una tal legge, è indubitato, che una tal legge non vi è, perché non è promulgata a segno che basti. Non sembrerebbe pertanto a tutte le anime buone una crudeltà il vedersi obbligate a seguitare ogni opinione probabile come legge? Avverrebbe, che le opinioni probabili, che ne' casisti si possono annoverare quasi a migliaia, ad un tratto diventerebbero tante leggi. »

40. Ultimamente a' nostri tempi il


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dotto p. Eusebio Amort ha difesa fortemente questa nostra sentenza nella sua teologia morale e scolastica stampata in Bologna nell'anno 1753, dopo essere stata fatta emendare in Roma da Benedetto XIV, siccome n'era stato supplicato il medesimo dall'autore, secondo sta scritto nella prefazione. Scrive l'autore, che dove l'opinione per la legge non apparisce evidentemente e notabilmente più probabile, è moralmente certo, che non v'è legge che obbliga, dicendo, che Iddio secondo la sua divina provvidenza quando vuole che obblighi alcuna sua legge, è tenuto a renderla evidentemente e notabilmente più probabile: Quandocumque (così egli parla) existentia legis non redditur credibilior, non ipsa, moraliter certum est, non dari legem; quia ex natura providentiae divinae Deus, sicut tenetur suam religionem reddere evidenter credibiliorem, non ipsa; ita etiam tenetur suam legem reddere notabiliter credibiliorem, seu probabiliorem non ipsa1. Intende quel non ipsa, cioè che dee il Signore farci conoscere la legge più probabile, per obbligarci ad osservarla, non per mezzo della stessa legge, ma per mezzo di ragioni che ce la rendano notabilmente ed evidentemente più probabile. In altro luogo poi, dove fonda più diffusamente questa sentenza, ne apporta la ragione (da noi anche addotta di sovra), cioè che quando la legge è strettamente dubbia, ella non ha la sufficiente promulgazione, senza cui la legge non è legge, o almeno non è legge che obbliga: In hoc casu non datur lex directa prohibens, quia in casu (cioè quando le due opinioni sono egualmente probabili) non datur sufficiens promulgatio legis, quae est character inseparabilis et essentialis legis; siquidem illa est sola legis promulgatio, qua lex fit credibilior, non ipsa2. E soggiunge, che questo è stato anche il sentimento de' padri: Patres in dubio stricte tali, ubi in neutram partem inflectitur mentis sententia, relinquunt homini potestatem sequendi benigniorem; ergo agnoscunt aliquod generale principium, quo possit formari prudens iudicium comitans de non existentia legis. Ed infatti s. Gregorio Nazianzeno3, parlando ad un certo Novaziano, dice: Anne iuvenibus viduis propter aetatis lubricum ineundi matrimonii potestatem facis? At Paulus hoc facere minime dubitavit, cuius scilicet te magistrum profiteris. At haec minime post baptismum, inquis. Quo argumento id confirmas? Aut rem ita se habere proba, aut si id nequis, ne condemnes. Quod si res dubia est, vincat humanitas et facilitas. In oltre s. Gregorio Magno4 così scrive: Melius est in dubiis non districtionem exequi, sed ad benignas potius partes inflecti. In oltre scrive s. Leone5: Sicut quaedam sunt quae nulla possint ratione convelli (come sono i precetti del decalogo, e le forme de' sagramenti, secondo spiega la Glossa), ita multa sunt, quae aut pro necessitate temporum, aut pro consideratione semper servata, ut in iis quae vel dubia fuerint, aut obscura, id noverimus sequendum, quod nec praeceptis evangelicis contrarium, nec decretis sanctorum patrum inveniatur adversum. Dice sequendum, perché i superiori (giacché s. Leone scrive ad un vescovo) debbono in quanto a' sudditi inclinare alle opinioni men rigide, dov'elle non ritrovansi opposte a' precetti del vangelo, o a' decreti de' santi padri, giusta l'avvertimento di s. Giovan Grisostomo: Circa vitam tuam esto austerus, circa alienam benignus6. In oltre Lattanzio7 scrive: Stultissimi est hominis praeceptis eorum velle parere, quae utrum vera sint, an falsa, dubitatur. Ed a ciò ben fa quello che dice s. Paolo; Etenim si incertam vocem det tuba, quis parabit se ad bellum? Ita et vos per linguam, nisi manifestum sermonem dederitis, quomodo scietur id quod dicitur?.... Si ergo nesciero virtutem


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vocis, ero ei cui loquor barbarus; et qui loquitur, mihi barbarus1. Quando dunque la legge a noi non è manifesta, come dovremo credere, che sia legge che obblighi? Si aggiunge quel che si dice s. Agostino, il quale con brevi parole conferma tutto quel che si è detto: Quod enim contra fidem, neque contra bonos mores esse convincitur, indifferenter esse habendum2. Si noti la parola convincitur, sicché secondo la dottrina di s. Agostino a noi è lecita ogni azione, purché non siamo convinti e moralmente certi, ch'ella sia contra la fede, o contra i buoni costumi. Si aggiunge quel che scrisse s. Agostino scrivendo a san Girolamo3: Alios autem (parlando degli scrittori che non sono canonici) ita lego, ut quantalibet sanctitate, doctrinaque praepolleant, non ideo verum putem, quia ipsi senserunt; sed quia mihi vel per illos auctores canonicos, vel probabili ratione, quod a vero non abhorreat, persuadere potuerunt. Si noti vel probabili ratione, quod a vero non abhorreat; dunque s. Agostino per quietarsi in qualche opinione non richiedea la moral certezza, che fosse vera, ma gli bastava una ragione probabile, che non abborrisse dalla verità, viene a dire, che probabilmente potesse esser vera. Si aggiunse s. Ambrogio, che, scrivendo a Gennaro, rimprovera quegli animi troppo timidi, che ne' dubbi niente stimano retto, se non quello ch'è certo per autorità della scrittura, o per la tradizione della chiesa, o per l'utilità della correzion della vita. Ecco le sue parole: Sensi enim saepe dolens multas infirmorum perturbationes fieri per quorumdam fratrum contentiosam obstinationem, vel superstitiosam timiditatem, qui in rebus huiusmodi, quae neque scripturae sanctae auctoritate, neque universalis ecclesiae traditione, neque vitae corrigendae utilitate ad certum possunt terminum pervenire... tam litigiosas excitant quaestiones, ut nisi quod ipsi faciunt, nihil rectum existiment4. Si aggiunge s. Basilio, il quale parlando di taluni che pretendeano, essere stato invalido un certo giuramento da essi dato, scrisse così: Consideranda autem sunt et species iurisiurandi, et verba et animus quo iuraverunt, et sigillatim quae verba addita fuerunt; adeo ut si nulla prorsus sit rei leniendae ratio, tales omnino dimittendi sunt5. Disse dunque, che allora solamente costoro non doveano udirsi, quando affatto non vi fosse stata alcuna ragione benigna a lor favore. Dunque ben doveano udirsi, se qualche ragione vi fosse stata. Si aggiunge s. Bernardo, il quale parlando in generale delle cose controverse, scrive così ad Ugone di s. Vittore: Sane ibi unusquisque in suo sensu securus abundat, ubi aut certae rationi, aut non contemnendae auctoritati quod sentitur, non obviat6. Dunque dice il santo, che ognuno va sicuro, seguendo quelle opinioni che non si oppongono ad una ragione certa, o ad alcuna autorità di tanto peso, che niuno da quella possa appartarsi. Si aggiunge s. Bonaventura, il quale parlando de' voti, in cui il papa può dispensare, porta tre sentenze, e poi conchiude: Quae istarum trium opinionum sit verior, fateor me nescire; et satis potest quaelibet sustineri. Si quis tamen velit hanc ultimam acceptare, non occurrit ei inconveniens manifestum7. Non dice dunque, che dee preferirsi la sentenza più tuta, ma che ciascuna di loro può sostenersi.

41. Ciò posto, non vale il dire, che l'uomo nasce soggetto alla legge eterna, la quale precede alla nostra libertà, onde l'uomo non può fare alcuna cosa, se non certamente sa, che quella è permessa dalla legge eterna, ed è conforme alla volontà divina. Poiché si risponde, che se ciò fosse, la divina legge non avrebbe avuto bisogno di alcuna promulgazione, ma solamente sarebbe stato necessario, che Iddio avesse dichiarate a noi tutte quelle cose che ci permettea di fare, cioè di possedere,


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di vendere, di andare a caccia, e simili. Ma non ha fatto così Iddio, come c'insegna l'Ecclesiastico, dicendo: Deus ab initio constituit hominem, et reliquit illum in manu consilii sui. Adiecit mandata et praecepta sua.. Si volueris mandata servare, conservabunt te1. Prima dunque il Signore ha creato l'uomo, e gli ha donato l'arbitrio di operare il bene e 'l male; indi gli ha imposti i precetti che a ciascuno poi degli uomini prepone ed intima, allorché gl'inserisce nelle loro menti. Niuno dunque, come vedemmo con s. Tommaso, vien ligato da alcun precetto. E perciò il nostro Salvatore a quel giovine che l'interrogò, Magister bone, quid boni faciam, ut habeam vitam aeternam? non disse: Non far niente fuori di quelle cose che espressamente io ti ho permesse; ma rispose: Si vis ad vitam ingredi, serva mandata... non homicidium facies, non adulterabis etc.2. Ma dove (dico) circa alcuna azione vi è l'opinione probabile, che non vi sia legge che la proibisca, come si dirà, che l'uomo abbia la scienza di tal precetto?

42. Oppongono: La legge eterna ha il possesso anteriore al possesso delle nostra libertà; e perciò in dubbio dee preferirsi l'opinione che sta per la legge. Ma per chiarirci di questo punto, vediamo in primo luogo, che cosa sia legge eterna: e poi vediamo, quando e come ella obblighi. La legge eterna si definisce da s. Agostino così: Ipsa ratio, vel voluntas Dei ordinem naturalem conservari iubens3. Ed in altro luogo: Ratio, qua iustum est, ut omnia sint ordinatissima4. Lo stesso par che senta s. Tommaso, dicendo: Ratio divinae sapientae moventis omnia ad debitum finem, obtinet rationem legis, cioè della legge eterna; poiché di questo parla il santo5, avendo prima detto nello stesso luogo: In quolibet gubernante oportet, quod praeexistat ratio ordinis eorum, quae agenda sunt per eos qui gubernationi subduntur. Da ciò dunque che insegnano s. Agostino e s. Tommaso, che l'ordine di quelle cose che debbono osservare i sudditi, par che sia la legge naturale data agli uomini; la ragione poi di quest'ordine, o sia governo, par che sia la legge eterna, siccome altrove più chiaramente spiega l'angelico: Ipsa ratio gubernationis rerum in Deo existens, legis habet rationem; et quia divina ratio habet aeternum conceptum huiusmodi legem oportet dicere aeternam6.

43. Quindi diversi dotti teologi inferiscono, che la legge eterna non è propriamente legge, ma più presto è la ragione delle leggi, che sono state poi date nel tempo alle creature ragionevoli. Altri non però tengono, esser vera e propriamente legge. Ma checché sia di ciò, dato anche per vero, che la legge eterna sia propria legge, come in altro luogo in verità par che asserisca lo stesso s. Tommaso, non si deduce da ciò, che il possesso della legge eterna preceda il possesso della libertà donata da Dio agli uomini. Imperciocché quantunque in Dio non vi sia successione di cognizioni, e di deliberazioni, perché tutte le cose son presenti a Dio ab eterno; nulladimeno, prioritate rationis, o sia naturae, l'uomo nella mente divina è stato contemplato antecedentemente alla legge; poiché prima si considerano dal legislatore i sudditi secondo la loro natura, e poi la legge che loro dee imporsi. La divina legge dunque, benché eterna, presuppone gli angeli e gli uomini, che nel tempo doveano esservi, giacché Iddio certamente una legge diversa per gli angeli, ed un'altra diversa per gli uomini. Tutto ciò è dottrina di s. Tommaso registrata nel citato artic. I. della quest. 91., dove sul quesito: Utrum sit aliqua lex aeterna? si fa (ad primum) questa obbiezione: Videtur, quod non sit aliqua lex aeterna: omnis lex aliquibus imponitur; sed non fuit ab aeterno cui aliqua lex posset imponi; solus enim Deus fuit ab aeterno: ergo nulla lex est


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aeterna. E risponde: Ad primum dicendum, quod ea quae in seipsis non sunt, apud Deum existunt, in quantum sunt ab ipso cognita, et praeordinata, secundum illud1: Qui vocat ea quae non sunt, tamquam ea quae sunt. Sic igitur aeternus divinae legis conceptus habet rationem legis aeternae, secundum quod a Deo ordinatur ad gubernationem rerum ab ipso praecognitarum2. Si notino le parole, rerum ab ipso praecognitarum. Sicché, prioritate rationis, da Dio prima fu considerato l'uomo, come libero e sciolto; dipoi fu considerata la legge, da cui doveva esser ligato l'uomo. Per ragion d'esempio, Iddio

abeterno ha proibito l'omicidio, dunque prioritate rationis prima considerò gli uomini, e poi diè loro il precetto, che uno non uccidesse l'altro.

44. Dunque (diranno) l'uomo nasce libero, ed indipendente da Dio? No, nasce bensì libero, ma non indipendente: nasce l'uomo suddito alla potestà di Dio, e per conseguenza obbligato ad ubbidire a tutti i precetti che da Dio gli sono imposti; ma acciocché venga ligato da questi precetti, si richiede, che quelli se gli promulghino, e gli si faccian noti nel tempo di sua vita, come insegna lo stesso angelico dottore nel medesimo articolo 1. ad. 2. dove, dopo aver provato, darsi la legge eterna, si fa la seguente obbiezione: Promulgatio est de ratione legis; sed promulgatio non potuit esse ab aeterno, quia non erat ab aeterno, cui promulgaretur; ergo nulla lex potest esse aeterna. E così risponde: Ad secundum dicendum, quod promugatio fit et verbo, et scripto, et utroque modo lex aeterna habet promulgationem ex parte Dei promulgantis... Sed ex parte creaturae audientis, aut inspicientis, non potest esse promulgatio aeterna3. Non nega dunque s. Tommaso, che anche la legge eterna ha dovuto promulgarsi agli uomini, per obbligarli ad osservarla, essendoché la promulgazione (come qui anche esprime), è di ragione __della legge. Onde poi dice, che sebbene per parte di Dio la legge eterna abbia avuta la sua promulgazione prima che fosse creato l'uomo, per parte non però dell'uomo non ha potuto la legge essergli intimata, prima che l'uomo vi fosse, e conseguentemente non ha potuto obbligarlo, se non nel tempo in cui l'uomo legem audit, aut inspicit, cioè quando sente intimarsegli la legge della chiesa, o pure quando la conosce per lume naturale, come saggiamente spiega Silvio: Actualiter tunc unicuique (lex aeterna) promulgatur, quando cognitionem a Deo accipit dictantem, quid iuxta rectam rationem sit amplectendum, quid fugiendum4. E quindi dice Silvio, che la legge eterna abeterno fu legge solo materialmente, ma non formalmente; sicché da quella non restò già obbligato l'uomo, perché non vi fu l'attuale e perfetta promulgazione: Lex aeterna fuit ab aeterno lex materialiter, non fuit ab aeterno formaliter, seu sub ratione legis actualiter obligantis; quia tunc non fuit actualis et perfecta promulgatio5. Così parimente scrive il dotto p. Giovan Lorenzo Berti6 dicendo, che la legge eterna non fu legge obbligante, ma apparecchiata ad obbligare nel tempo, in cui dovea promulgarsi agli uomini. Lo stesso scrive il cardinal Gotti: Lex aeterna in actu secundo neminem obligavit, non ex defectu virtutis, sed ex defectu termini; sicut ab aeterno fuit lex in mente Dei, quamvis pro aeterno fuit lex in mente Dei, quamvis pro aeterno non obligans nec ligans, quia nondum applicata, et promulgata7. Lo stesso scrive il p. Gonet: Deus non promulgavit legem aeternam, ut creaturae subderentur sibi ab aeterno, sed ut sibi subiicerentur in tempore, pro quo erant futurae in propria mensura8. Lo stesso dice Onorato Tournely, il quale difende per altro, che la legge eterna fu vera legge, ma poi aggiunge: Quia tamen lex ante creaturarum existentiam vere obligans non


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fuit, cum nihil esset ad extra, quod ea obligarentur, palam est, rationem completam legis tunc tantum ei competere potuisse, cum extiterunt creaturae, quibus fuit lex promulgata, aut saltem quae impressione ipsius moveri coeperunt1.

45. In oltre s. Tommaso nell'art. 2. della stessa quaest. 91. dice, che la legge che propriamente obbliga l'uomo, è la legge naturale, non già l'eterna; perché la legge eterna riguarda solamente Iddio regolante, ma la legge naturale è quella che riguarda l'uomo regolato. Il santo propone ivi il quesito: Utrum sit in nobis aliqua lex naturalis? E (ad primum) si fa l'obbiezione: Videtur, quod non sit in nobis aliqua lex naturalis; sufficienter enim homo gubernatur per legem aeternam. E così risponde, prima in corpore: Respondeo dicendum quod lex, cum sit regula, et mensura, dupliciter potest esse in aliquo: uno modo sicut in regulante et mensurante, alio modo sicut in regulato et mensurato: quia in quantum participat aliquid de regula, sic regulatur... Talis participatio legis aeternae in rationali creatura lex naturalis dicitur. Indi rispose individualmente all'obbiezione fattasi: Ad primum ergo dicendum, quod ratio illa procederet, si lex naturalis esset aliquid diversum a lege aeterna; non autem est nisi quaedam participatio eius2. Sicché secondo insegna s. Tommaso, la legge eterna riguarda solamente Iddio come regolante, ma la legge naturale è quella che riguarda ed obbliga solamente l'uomo regolato. Onde scrive il cardinal Gotti, che quantunque la legge naturale sia una partecipazione della legge eterna, e perciò non diversa dalla legge eterna, come dice l'angelico, nulladimeno la legge naturale è quella che obbliga, non perché è partecipazione della legge eterna, ma perché ella propriamente ha ricevuta da Dio la forza di obbligare: Lex naturalis obligat de iure divino, non quia praecise est participatio legis aeternae, sed quia habet Deum auctorem3. Ciò sia detto per esuberanza; del resto o sia la legge eterna o naturale, quella che propriamente obbliga e liga l'uomo; è certo, ch'ella non obbliga, se non dopo ch'è applicata all'uomo colla promulgazione; altrimenti, come vedemmo con s. Tommaso, la legge non ha virtù di obbligare; poiché la legge (come il santo insegna) è una misura, con cui dee misurarsi l'uomo; se la misura non gli viene applicata colla promulgazione, egli con tal misura non può misurarsi.

46. Replicano: ma a noi niuna cosa è lecita, se non ci vien permessa dalla volontà di Dio; pertanto, acciocché lecitamente operiamo, dobbiamo prima conoscere, se quell'azione è conforme o no alla volontà divina. Si risponde, che in Dio bisogna supporre due volontà, l'una generale, l'altra particolare: la generale è che noi nel nostro operare attendiamo l'onestà dell'azione, cioè che non facciamo altre operazioni, se non quelle che ci appariscono oneste, e lecite, siccome già è onesto e lecito il servirci della libertà da Dio a noi donata. La volontà particolare poi è quella, per la quale il Signore, proibendo di servirsi della nostra libertà, ci manifesta in particolare ciò che in qualche caso dobbiamo fare, o evitare. Posto ciò diciamo, che sino a tanto che non ci è manifestata la volontà di Dio in particolare, basta che ci conformiamo alla divina volontà generale, cioè che operiamo colla credenza di onestamente operare. Questa tutta è dottrina di s. Tommaso, il quale dice: Voluntas igitur humana tenetur conformari divinae voluntati formaliter, sed non materialiter4. Quel formaliter lo spiega il santo, in volito boni communis, cioè che in ogni azione intendiamo il bene onesto, siccome già è cosa onesta per ciascuno il servirsi della libertà donatagli da Dio, poiché ogni cosa che da Dio non ci è vietata, è onesta; e dove la volontà divina in particolare non ci è nota,


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noi non siamo obbligati a seguirla. Così insegna lo stesso s. Tommaso, dicendo: Et ideo quicumque vult aliquid sub quacumque ratione boni, habet voluntatem conformem voluntati divinae, quantum ad rationem voliti. Sed in particulari nescimus, quid Deus velit; et quantum ad hoc non tenemur conformare voluntatem nostram divinae voluntati1. Dunque non è tenuto l'uomo conformarsi alla divina volontà, dove questa volontà di Dio non gli è manifesta; siccome più distintamente dichiara il p. Gonet: Homo non tenetur conformari voluntati divinae in volito materiali, nisi quando voluntas divina nobis praecepto vel prohibitione manifestatur2. Lo stesso scrive il cardinal Gotti: Ratio legis non consistit solum in esse ostensivo boni et mali, sed in esse praeceptivo et obligativo3. Sicché dove non si conosce la volontà di Dio in particolare, che ci obblighi a seguirla, noi non siamo obbligati di conformarci a quella4. E ciò prima l'insegnò s. Anselmo dicendo: Non semper debemus velle quod Deus vult, sed quod Deus vult nos velle debere5. E lo stesso scrisse s. Tommaso: Etsi non teneatur homo velle, quod Deus vult; semper tamen tenetur velle, quod Deus vult eum velle, et homini praecipue innotescit per praecepta divina6.

47. Un certo moderno autore cerca per altra via di confutare la nostra sentenza; e dice così: per dirsi, che una legge sia dubbia dovrebbe dubitarsi, se una tal legge esiste, o no; ma questo (dice) non può essere; perché le leggi così divine, come umane, che dobbiamo osservare, tutte son certe, ed abbastanza promulgate. Il dubbio dunque cade, non già sopra l'esistenza della legge, ma sopra i casi particolari, se quelli sien compresi o no nelle leggi universali; ond'è che se vogliamo servirci del principio supposto, cioè che la legge dubbia non può indurre un obbligo certo, non possiamo dire, che la legge dubbia o non abbastanza promulgata, non sia legge, ma solo dobbiamo dire: quando v'è opinione probabile da ambedue le parti, che la legge si stenda, o no, a quel caso, la legge certamente non si stende. Ma dicendo così ritorna la difficoltà del principio; poiché quando v'è il dubbio; se sia lecita, come compresa, o non compresa dalla legge, non può assegnarsi un tal principio come certo. Sin qui l'accennato autore, seguendo in ciò quel che prima di lui scrisse il p. Daniele Concina nella sua teologia cristiana.

48. Ma si risponde con quel che scrisse lo stesso p. Concina nel compendio di detta teologia7, dove dice, che benché la legge sia certa, non però le circostanze diverse che occorrono fanno che la legge ora obblighi, ed ora non obblighi; giacché i precetti sono bensì immutabili, ma alle volte non comandano sotto questa o quella circostanza. Quindi (noi ripigliamo) non vale dunque il dire, che le leggi son certe; perché mutandosi le circostanze de' casi, si rendono dubbie, e come dubbie non obbligano. Dunque, replica l'autore riferito, secondo il vostro principio, che la legge dubbia non obbliga, voi conchiudete, che nel dubbio se la legge si stende o no a quel caso, certamente non si stenda? Ma noi rispondiam ritorcendo l'argomento, e diciamo: dunque secondo la vostra sentenza, in dubbio se la legge si stende a quel caso, dovremo dire, che certamente si stende? Ma ciò è quello che noi neghiamo. Non già asseriamo, che la legge in dubbio certamente non si stende al caso, ma diciamo, che quando vi sono dall'una e dall'altra parte opinioni egualmente probabili, allora non essendo certo, che la legge si stenda a quel caso, a rispetto di quel caso la legge si rende dubbia, e come dubbia non obbliga, poiché allora non è abbastanza promulgata. Coll'esempio si rende la cosa più chiara. Abbiamo noi la legge universale,


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che vieta l'usura, ma quando da ambedue le parti vi è eguale probabilità, che alcun contratto sia o non sia usurario, allora non vi apparisce alcuna legge certa che lo proibisca. E perciò finché prudentemente si dubita, se quel contratto sia o no usurario, vi sarà bensì l'opinione che quel contratto sia vietato dalla legge, ma frattanto non v'è legge certa che lo vieti, e pertanto circa di tal contratto resta dubbia la legge. Rispetto all'usura, è certa la legge che la proibisce; ma rispetto a quel contratto, la legge è incerta. A che serve dunque l'opporci (secondo dicono i contrari), che qui non si tratta, se la legge esiste o no, mentre è certa la legge che proibisce l'usura; ma solo si cerca se a quel caso si stenda o non si stenda la legge? poiché diciamo: posto che veramente sia probabile, che quel caso non sia compreso dalla legge, lo stesso è dire, che sia cosa dubbia che a quel caso si stende la legge, che 'l dire, che la legge a rispetto di quel caso è dubbia; e se la legge a rispetto di quel caso è dubbia, per conseguenza a rispetto di quel caso non obbliga. Quoties dubium est (scrive il p. Sanchez con altri), an appositum sit praeceptum naturale vel humanum de aliqua re, non obligatur dubitans, quia donec constat de praecepto, possidet voluntatis libertas. Et idem dicendum est (aggiunge) quando post prudentem inquisitionem dubitatur, an haec res comprehendatur sub praecepti verbis, quia perinde est ac dubitare, utrum de hac re lata sit lex1. Lo stesso scrive il p. Suarez: Etiam lex naturalis nunquam obligat cum solo dubio, v. g. an talis actus sit prohibitus; tunc non obligantur homines ex vi legis ad abstinendum a tali actu, quia non est eis lex sufficienter intimata2. Lo stesso ripete in altro luogo: Quamdiu est iudicium probabile, quod nulla sit lex prohibens actionem, talis lex non est sufficienter proposita homini; unde, cum obligatio legis sit ex se onerosa, non urget, donec certius de illa constet3. Dove finalmente (io dimando) sta scritta questa legge dagli avversari supposta, che sempreché si dubita, se la legge si stende o no a qualche caso, ed è probabile che non si stenda, siam tenuti ad osservarla? almeno questa nuova legge universale ella è dubbia; e come dubbia non obbliga.

49. Dicono: ma se in verità quel caso è compreso dalla legge, allora operando secondo l'opinione men tuta, già resterebbe offesa la legge, e si oprerebbe contro la divina volontà. Abbiamo qui voluto registrare tutte le opposizioni de' contrari, per rispondervi, e far vedere, che tali opposizioni, quante più sono, tanto più rendono chiara la nostra sentenza. Rispondiamo dunque, che in tal caso affatto non si offende la legge, e non si opera contro la divina volontà. Non si offende la legge, perché allora la legge è dubbia, e perciò non obbliga, e conseguentemente ella non può chiamarsi legge, o almeno legge che liga, giacché la libertà dell'operante (la quale è certa) non può esser ligata che da una legge parimente certa. Sicché in tal caso non si opera contro la legge, ma solamente contro l'opinione che difende esservi la legge; poiché la legge, fin tanto ch'ella è dubbia, è opinione, ma non legge, almeno non è legge che obbliga. Né si opera allora contro la divina volontà, perché (siccome abbiam dimostrato di sopra con san Tommaso) non v'è obbligo di conformarsi a quella volontà divina, che non ci è manifestata. Come mai in verità può dirsi, che siam tenuti a conformarci alla volontà di Dio in astenerci da qualche azione, quando non sappiamo, che Iddio la proibisca? ripetiamo le parole di s. Tommaso già di sopra riferite: Sed in particulari nescimus, quid Deus velit, et quantum ad hoc non tenemur conformare voluntatem nostram divinae voluntati4. Ripetiamo ancora le parole del p. Gonet: Homo non tenetur conformari voluntati divinae


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in volito materiali, nisi quando voluntas divina nobis praecepto vel prohibitione manifestatur1.

50. Ma replica l'autor moderno accennato di sopra, e dice: quando vi sono due opinioni probabili dall'una e dall'altra parte, è illecito il seguir la benigna, se non in vigor della legge ch'è incerta, almeno in vigor del principio tenuto dagli stessi probabilisti, cioè che ad operar lecitamente non basta il giudizio probabile, ma è necessario il giudizio certo dell'onestà dell'azione. Queste son le parole individuali dell'autore suddetto. Ma ad una tale obbiezione la risposta è patente: sempre e quando non è vietato il seguir l'opinione benigna in vigor della legge, per esser ella incerta, allora manca il ligame, da cui venga a restar ligata la libertà dell'uomo; e perciò, non essendovi allora legge che liga, e le proibisce l'azione, resta la libertà nel suo possesso; e per conseguenza l'azione è certamente onesta, giusta il comune assioma presso tutti noto: Cuique facere libet, nisi id a iure prohibeatur, come si ha nel testo Instit. de iure person. §. 1. E come ancora insegna per principio certo l'angelico dicendo: Illud dicitur licitum quod nulla lege prohibetur2. E si avverta, che ivi il s. dottore parla di cosa che propriamente s'appartiene alla libertà dell'uomo, ed alla legge naturale.

51. Non voglio tralasciare qui di rispondere ad una certa decisione che si asserisce dagli avversari fatta dal clero gallicano, cioè che non sia mai lecito seguir l'opinione probabile in concorso dell'egualmente probabile più tuta. Per 1. diciamo, che malamente si chiama questa decisione del clero gallicano, poiché non fu fatta che da soli quattordici prelati, quandoché i vescovi della Francia sono da cento in circa. Per 2. rispondiamo, che costoro ben diceano ciò, parlando contra quei dottori probabilisti, che voleano essere per se stesso lecito il seguire ogni opinione egualmente probabile, per quella massima da essi comunemente adottata, che qui probabiliter agit, prudenter agit. Ma questa massima, in sé parlando, è certamente falsa, perché non è prudenza, né è lecito l'operare coll'opinione solamente probabile avverso l'opinione più tuta egualmente probabile, senza riflettere ad altro principio, che al riferito di sopra, cioè che opera prudentemente, chi probabilmente opera coll'opinione egualmente probabile; giacché in tal caso vi manca la moral certezza dell'onestà dell'azione, senza cui non si può operare. Ma altro è poi il seguire l'opinione egualmente probabile col giudizio riflesso, o sia concomitante, ch'essendo in tal caso dubbia la legge, la legge non obbliga. Sicché i prelati di Francia giustamente han detto, non esser per sé lecito l'uso dell'opinione probabile in concorso dell'egualmente probabile, che sta per la legge: parlando (dico) in sé, precisa la riflessione del giudizio, che allora la legge è dubbia. Almeno, dice il p. Amort, essi a tal riflessione non vi avran badato: che se poi hanno inteso dir ciò, anche attenta la riflessione suddetta, ingiustamente han posto l'obbligo di seguir la più tuta nelle opinioni egualmente, o quasi egualmente probabili; poiché attento il principio riflesso, o sia concomitante, che la legge dubbia non può imporre un obbligo certo, allora si opera col giudizio pratico moralmente certo dell'onestà dell'azione.

52. Ma diranno: se 'l giudizio speculativo dell'opinione, che favorisce la libertà, è solamente probabile contro l'opinione più tuta anche probabile, come può essere poi, che 'l giudizio pratico sia moralmente certo, qual vi bisogna a lecitamente operare? come mai (dicono) il giudizio pratico può esser diverso dallo speculativo? Ma a tal difficoltà si risponde con mons. Abelly vescovo rutenense, e con Eusebio Amort, che altre son le ragioni, che riguardano la verità della cosa, e che rendono l'opinione probabile; altre poi le ragioni, che riguardano l'onestà dell'azione


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e ci rendono moralmente certi di bene operare. Per esempio altra è la ragione che rende giusta la guerra: altra è la ragione (cioè il comando del principe) che rende lecito al suddito il militar nella guerra dubbiamente giusta. Ciò posto, non vale a dire, che 'l giudizio pratico non può esser certo, quando lo speculativo è solamente dubbio; poiché quando l'opinione è veramente probabile (come si oppone), il suddito per lo giudizio speculativo, solamente probabile circa la verità della cosa, giudica, che sia la guerra solo probabilmente giusta; ma all'incontro per un altro giudizio certo, anche speculativo circa l'onestà dell'azione, giudica, che può in pratica, anzi dee militare, essendo il suddito obbligato di ubbidire al suo principe, sempre che 'l di lui precetto non è certamente illecito. Sicché il giudizio pratico certo vien formato da due giudizi speculativi, ma che riguardano diversi oggetti; poiché il primo riguarda la verità della cosa, cioè che la guerra è probabilmente, o dubbiamente giusta, e questo primo giudizio speculativo è solamente probabile, o dubbio: il secondo giudizio poi speculativo riguarda l'onestà dell'azione di militare, cioè che in dubbio dell'ingiustizia della guerra, stante il precetto del principe, il suddito lecitamente ubbidisce, anzi è tenuto ad ubbidire al suo principe; e questo secondo giudizio è certo, e da questo giudizio speculativo certo, ma riflesso, si rende certo anche il giudizio pratico del suddito circa l'onestà dell'azione, cioè che lecitamente egli può militare nella guerra dubbiamente giusta. E lo stesso dee dirsi in ogni caso, nel quale vi sono opinioni probabili dall'una e dall'altra parte, dove il giudizio pratico si rende certo dal principio riflesso da noi provato, che la legge dubbia non può indurre un'obbligazione certa.

53. Ciò si conferma da quel che dicono gli stessi nostri avversari, e specialmente da quel che scrive il p. Lorenzo Berti nella sua teologia1, il quale sostiene già contro di noi, non esser lecito seguire l'opinione egualmente probabile meno tuta: ma come lo prova? lo prova col confutare due principii per altro falsi degli autori probabilisti. Per due principii (secondo parlando in verità molti probabilisti) può seguirsi l'opinione probabile meno tuta, e per quelli il giudizio speculativo dubbio si rende certo in pratica. Il primo principio è quello: Qui probabiliter agit, prudenter agit. Ma questo principio (dice il p. Berti, e saviamente dice, siccome ancor noi abbiam detto di sopra) non basta a lecitamente operare coll'opinione solamente probabile, perché essendo la contraria per la legge probabile egualmente, noi non abbiamo la certezza dell'onestà necessaria per bene operare. Il secondo principio, o sia ragione d'alcuni probabilisti è, che quando le opinioni sono ambedue probabili, l'uomo sospende il giudizio circa le opinione che condanna l'azione, ed opera appoggiandosi alla probabilità dell'opinione che la permette. Ma ciò (dice, e ben anche saviamente dice il p. Berti), neppure può render noi certi dell'onestà di quell'azione, perché una tal sospensione volontaria di giudizio va congiunta con una ignoranza vincibile, anzi affettata; onde chi operasse così, opererebbe non prudentemente, ma imprudentissimamente, poiché in pratica non deporrebbe il dubbio, ma resterebbe nello stesso dubbio dell'onestà dell'azione. Dunque, dice il p. Berti, quando non si ha altro fondamento che della probabilità dell'opinione meno tuta, noi non possiamo mai per alcun giudizio riflesso renderci certi di operar rettamente in servirci di quella. Altrimenti è poi, egli dice, quando oltre della probabilità dell'opinione vi è altronde una nuova ragione, o sia principio fondato, che rende il giudizio praticamente certo dell'onestà dell'azione; giacché allora la certezza del giudizio non si appoggia alla riflessione dello stesso dubbio precedente, ma alla riflessione del motivo certo sopravveniente. E porta l'esempio del religioso, che dubitando


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se può rompere il digiuno per attendere allo studio, ben può romperlo, quando dal superiore ne ha il precetto, che lo rende certo di potersi cibare senza colpa. Porta di più l'esempio del possessore, che nel dubbio se giustamente possiede un fondo, lecitamente può seguire a possederlo, quando un dotto l'assicura, ch'egli in dubbio non è tenuto a spogliarsi della roba legittimamente posseduta. Quindi conclude: Procul dubio potest hoc pacto ex reflexione mentis antea perplexae fieri iudicium practicum moraliter certum. Sicché può formarsi la coscienza moralmente certa nelle sentenze morali non solo co' principii diretti, ma anche cogli indiretti riflessi.

54. Or questo appunto è il caso nostro. Noi per seguire l'opinione egualmente probabile, diciamo, che non basta la sola probabilità dell'opinione; secondo li due mentovati principii, di cui molti autori malamente s'avvagliono. Ed io dico, e lo tengo per certo, che l'insussistenza di questi due falsi principii ha indotti molti scrittori moderni a riprovare la sentenza egualmente probabile; ed eglino col confutare tali principii (siccome era facile il confutarli), così poi si hanno acquistati molti seguaci, che oggidì esclamano contra il probabilismo, e tanto esaltano la rigida sentenza. Diciamo dunque, che in tanto può seguirsi l'opinione egualmente probabile, in quanto la legge in tal caso è dubbia: e che la legge dubbia non possa indurre un obbligo certo, è un principio (come abbiam dimostrato) troppo chiaro ed evidente, poiché quando la legge è dubbia, ella non può essere promulgata, o sia intimata come legge, ma solo come opinione, o questione: e mancando a tal legge (se mai vi fosse) la promulgazione, le manca il requisito essenziale per obbligare, come insegna s. Tommaso, e tutti gli autori, antichi e moderni, rigidi e benigni. Questo nostro principio in somma è tale, che gli avversari, conoscendone la forza, altri han tralasciato di farne menzione, il perché io non lo so: altri poi per quanto si hanno assottigliato il cervello a confutarlo per mille vie, e con mille sottigliezze, non mai vi son riusciti, anzi col contrastarlo, tanto più l'han confermato, e chiarito.

55. Ma no (dicono finalmente gli avversari); ben vi è la legge generale ne' canoni, dove si dice, che ne' dubbi dee eleggersi la via più tuta, come si ha nel c. Illud Dominus, de sent. excomm., nel c. Ad audientiam, de homic., nel c. Petito tua, eod. tit., nella Clement. Exivit, §. Item quia, de verb. signif., e nella c. Juvenis, de sponsal. Ma rispondiamo , che un tal detto, o sia regola de' canoni non può assegnarsi per legge universale, che vieti l'uso dell'opinione egualmente probabile; giacché (oltre gli autori innumerabili seguaci della nostra sentenza) gli stessi autori antichi addotti da' contrari, come fautori della loro sentenza rigida, altrimenti l'interpretano, e la spiegano. S. Antonino dice, che quella regola è di consiglio, non di precetto: Iudicunt illud, in dubio tutior via eligenda est. Respondetur, hoc esse verum de honestate, et meriti maioritate, et non de salutis necessitate quoad omnia dubia1. Ed in altro luogo scrive più espressamente: Eligere viam tutiorem consilii est, non praecepti2. Lo stesso scrisse Giovanni Nyder: Viam tutiorem eligere, est consilii, non praecepti3. Lo stesso scrisse Tabiena: Nec valet, quod in dubiis tutior via est eligenda, quia hoc non est praeceptum, sed consilium4. E lo stesso scrissero s. Bonaventura, Gersone, e Silvestro, come può vedersi appresso Tirillo5.

56. In oltre dicono altri, che quella regola procede ne' meri dubbi, ma non già nelle opinioni probabili: altri dicono, che procede ne' dubbi di fatto, non di ius: altri, che procede nel dubbio pratico, non già nello speculativo, come dice anche s. Antonino: Ille qui agit


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scienter id, de quo dubitat esse mortale, permanente dubitatione, mortaliter peccat1. Lo stesso santo arcivescovo in altro luogo ciò lo scrive più chiaro, dicendo: Sed qui emit praedicta iura, potest non dubitare, sed opinari, licitum esse, ex quo per ecclesiam non est determinatum contrarium, et multi sapientes licitum asseverent: avverso altri contraddicenti, come antecedentemente avea scritto così: Cum sapientes contraria sibi invicem in huiusmodi sentiant2. Sicché dicendo ciò il santo, riprova solamente l'operare col dubbio, ma non già coll'opinione probabile, qual la suppone probabile, per la ragione che ne assegna, cioè perché non è riprovata dalla chiesa, ed all'incontro è tenuta da' più savi, che dicono, quel contratto esser lecito, benché altri savi sentano il contrario. Lo stesso dice Angelo: Nec obstat praedictis, quod in dubiis tutior pars est eligenda, quia hoc verum est, quando proprie dubium est: sed quando etiam opinio, secus est, quia tunc non sumus in dubio3. Lo stesso scrissero Navarro e Silvestro4. Oltreché molti gravi autori dicono giustamente, che quella regola di eleggere la via più tuta fu posta da' canoni solamente a rispetto de' casi particolari riferiti ne' testi citati; poiché essi testi, che obbligavano a seguir la parte più tuta, si aggiravano circa le sole leggi umane; e ciò posto, chi mai dirà, che siam tenuti ad osservare anche le leggi umane nel dubbio se vi sono, o no? Stultissimi est hominis (scrisse Lattanzio) praeceptis eorum velle parere, quae utrum vera aut falsa sint, dubitatur5. Di più nel c. 13: Cum in iure, de offic. et pot. iud. deleg., si dice: Nisi de mandato sedis apostolicae certus extiteris, exequi non cogeris quod mandatur. Di più nell'autentica Quib. mod. nat. etc., §. Natura, si dice: In dubio nullus praesumitur obligatus. Il detto dunque di dover seguir ne' dubbi la parte più tuta, non può intendersi posto da' canoni come regola generale per tutti i casi; ma solamente per alcuni casi particolari riferiti ne' testi citati, dove giustamente disse il pontefice, che in que' dubbi doveva eleggersi la via più tuta, per causa degli scandali, e d'altri sconcerti, che doveano evitarsi in tali casi. Per vedere ciò chiaramente, bisogna esaminar qui brevemente i fatti allora occorsi, e le decisioni de' testi che ci oppongono.

57. In quanto al cap. Illud. Dominus de sent. excom., ivi fa il caso fu, che un certo vescovo, non ostante la pubblica fama della scomunica fulminata contro di lui, volle temerariamente celebrare: onde diciamo, che costui giustamente fu deposto da Innocenzo III., poiché stando egli in dubbio della scomunica, almeno dovea far diligenza per accertarsi della verità, e frattanto astenersi dal celebrare. Onde giustamente disse il pontefice: Quia in dubiis via tutior est eligenda, etsi de lata in eum sententia dubtaret, debuerat tamen potius abstinere, quam sacramenta ecclesia celebrare.

58. In quanto al c. Ad audientiam, de homic., il caso fu, che un certo sacerdote ferì un uomo, il quale poi se ne morì. Indi si dubitava se quegli era morto per tal ferita. Clemente III. decise, che frattanto era conveniente, che il sacerdote non celebrasse, dicendo: Cum in dubiis semitam debeamus eligere tutiorem, vos convenit iniungere presbitero, ut non ministret. Qui diciamo per prima, che in tal caso non ancora era appurato il fatto, cioè se per tal ferita fosse morto quell'uomo; onde soggiunge il testo: Si ex alia infirmitate obierit, poterit divina ministrare. Perciò frattanto saggiamente ordinò il papa, che il sacerdote si astenesse di celebrare, essendo dovere, che in tal dubbio si sciegliesse la via più sicura. Diciamo per secondo, come ben avvertono Navarro e Suarez, che in tal caso non si trattava di osservanza di alcun precetto, ma solo di una certa convenienza,


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affinché se poi si fosse appurato, che il sacerdote era stato l'omicida, non vi fosse stato scandalo nel popolo in averlo veduto celebrare. Lo stesso fu disposto in simil caso di omicidio dubbio nel c. Petitio tua 24. de homic., dove si disse: Cum sit consultius in huiusmodi dubio abstinere, quam temere celebrare. Chi non vede, che in tali casi ben conveniva, anzi era necessario, che si scegliesse la via più sicura coll'astinenza dal celebrare, per riparare allo scandalo che poteva avvenirne?

59. In quanto alla clementina Exivit, ivi i frati minori interrogarono la sede apostolica se fossero tenuti sotto colpa grave a quelle regole della religione, che erano imposte con parole precettive. Rispose il papa: In his quae animae salutem respiciunt, ad vitandos graves remorsus conscientiae, pars securior est tenenda. Primieramente in tal caso, dicendo il papa, ad vitandos graves remorsus conscientiae, verisimilmente parlò per consiglio, non per precetto. In oltre, dicendo, pars securior est tenenda, non intese certamente parlare della sicurtà materiale in doversi abbracciare l'opinione più tuta, ma della sicurtà di coscienza in operare, non col dubbio pratico, ma colla certezza morale dell'onestà dell'azione; perché se avesse parlato della sicurtà materiale, avrebbe dichiarato, che tutte le parole di modo imperativo importavano precetto; il che senza dubbio sarebbe stato materialmente il più tuto; ma il papa dichiarò il contrario, dicendo, che non tutte le parole imperative importavano precetto, ma solamente quelle che dovevano intendersi precettive per ragion delle parole, o della materia, ex vi verbi, vel saltem ratione materiae de qua agitur. del resto disse: Licet fratres non ad omnium, quae ponuntur in regula sub verbis imperativi modi, sicut ad praeceptum, seu praeceptis aequipollentium observantiam teneantur; expedit tamen ad observandam puritatem regulae, et rigorem, quod ad ea, sicut ad aequipollentia praeceptis se noverint obligatos, quae hic inferius adnotantur. Ed indi di sotto notò il papa quelle cose che doveano intendersi come di precetto.

60. In quanto finalmente al c. Iuvenis 3. de sponsal. il caso ivi fu, che un certo giovane essendo di sette anni sposò una donzella, morta la quale, sposò poi una sua consobrina. Indi sorto il dubbio, se il primo matrimonio era valido o invalido per difetto d'impotenza in età così tenue di sette anni, Eugenio III. ordinò, che il marito si separasse dalla suddetta consobrina sua seconda moglie, propter honestatem ecclesiae, soggiungendo così: Quia igitur in his, quae dubia sunt, quod certius existimamus, tenere debemus, etc. Posto ciò, diciamo per 1., che il papa ordinò la separazione, non perché stimò, che nelle opinioni dubbie dovesse sempre seguirsi la più tuta, ma perché la separazione era necessaria per evitare lo scandalo, e conservare l'onestà della chiesa. Diciamo per 2., che pronunziando il papa le parole, quod certius existimamus, tenere debemus, non disse ciò a rispetto del giovane, il quale ben era consapevole, se nel tempo del primo matrimonio era impotente, o no, ma a rispetto de' giudici, che nel foro, quando le ragioni delle parti son dubbie, certamente essi debbono attenersi a quello ch'è più certo; e perciò disse certius, non tutius, cioè che stimava cosa più certa il doversi ordinare la separazione, perché la nullità del primo matrimonio era dubbia, ed il possesso stava più presto per quello. Che ha che fare dunque ciò colla nostra questione, dove si tratta di foro interno, e non di dubbi di fatto, ma di opinioni egualmente probabili?

61. Ma per finirla circa tal punto, diciamo che l'asserisce, che quel detto de' canoni, in dubiis via tutior est eligenda, sia una legge universale per tutti i casi dubbi, di qualunque modo sia il dubbio, non è finalmente una dottrina certa, ma una mera opinione (secondo me improbabilissima) de' contrari; ond'è che al più questa regola, o sia legge


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universale da essi supposta, è una legge dubbia, e come dubbia (siccome abbiam provato) non obbliga. Inoltre da quest'assioma, che in dubiis tutior via eligenda est, ch'è l'Achille de' nostri contrari, che altro se n'inferisce, se non che stando l'uomo nel dubbio, se la sua azione è buona o mala, non può lecitamente appigliarsi alla parte meno tuta? Questo è quello che i canoni certamente hanno inteso di dire, e non altro, ed a ciò corrispondono i casi e le decisioni de' testi. Ma quando nella coscienza vi è il dettame moralmente certo dell'onestà dell'azione per principio o diretti, o riflessi, allora l'uomo non è più in dubbio, ma è certo del suo bene operare. Cessino dunque i nostri contraddittori di opporci più quest'assioma, in dubiis tutior via eligenda est, come distruggitore della nostra sentenza. Siasi pure, come vogliono, quest'assioma, non di consiglio, ma di precetto rigoroso. Corra egli pure, non solo ne' dubbi pratici di fatto, ma anche ne' speculativi di legge; tutto vogliamo concedere. Ma da queste parole, in dubiis tutior via eligenda est, che altro può dedursi, se non che l'uomo, stando nel dubbio, dee eleggere la parte più tuta? Ma quando poi egli è moralmente certo, che opera onestamente seguendo la parte men tuta, allora è fuori del dubbio, e dell'assioma suddetto, che parla della coscienza dubbia, e non della certa, che ben può formarsi co' principii riflessi, come di sovra si è dimostrato ad evidenza, né può negarsi senza negare la luce al sole.

62. Ma come va, dicono i contrari che anche il p. Vasquez, con tutto ch'è probabilista, non ammette questo principio, che la legge dubbia non obbliga? Un autore moderno riferisce con molta pompa le parole del p. Vasquez, le quali sono: Sequitur manifeste decipi eos, qui putant, eum, qui dubitat, an lex aliqua lata fuerit et promulgata in curia, ea lege non teneri, eo quod ipsi non satis promulgata censeatur. Falluntur igitur primo in doctrina ipsa, siquidem in dubiis tutior pars est eligenda... Deinde in ratione decepti sunt, eo quod (ut ex dictis constat) aliud est promulgatio, aliud autem est notitia legis. Et quamvis is qui dubitat de lege, non haberet notitiam sufficientem legis, ut ea teneretur; tamen non potest dici carere sufficienti promulgatione legis, si revera in curia promulgata fuisset, sed notitia sufficienti illius. Verum, ut diximus, ea dubitatio satis est, ut ratione eius tutiorem partem sequi debeat1. Ma primieramente rispondo, come mai il p. Vasquez poteva intendere, che la legge dubia obbliga l'uomo quando quest'autore difende fortemente, che sicuramente può seguirsi ogni opinione probabile men tuta, ed anche meno probabile? e dice, che questa sentenza era comune nelle scuole a' tempi suoi? In oltre riflettasi sul passo riferito, che 'l p. Vasquez non solo non riprova il principio, che la legge dubbia non obbliga, ma espressamente lo conferma con quelle parole: Et quamvis is qui dubitat de lege, non haberet notitiam sufficientem legis (si noti), ut ea teneretur; tamen etc. Riflettasi in oltre, che chi dubita della promulgazione della legge è tenuto alla legge per regola, in dubiis tutior pars est eligenda; nulladimeno, come ho osservato in fonte nel luogo di sovra citato, egli parla delle leggi umane certamente promulgate nella curia del principe: onde dice, che benché la notizia certa della promulgazione non sia pervenuta ad alcuni, la legge nonperò è vera legge. Ora che ha che fare ciò con quelle leggi divine, le quali probabilmente non vi sono? In quanto poi alla regola di dover seguire ne' dubbi la parte più tuta, il medesimo p. Vasquez in più luoghi dice, ch'ella corre ne' dubbi pratici, ma non già nelle opinioni probabili. Nello stesso cap. 3. della citata disputazione 156 al numero 12 dice così: Ubi est varietas opinionum de sensu alicuius legis, plurimum valeat apud iudices probabilior interpretatio. Quando autem est varietas opinionum, non est necesse sequi partem tutiorem. Più espressamente poi ciò


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spiega in altro luogo, dove dice: Illud vero axioma tutior pars est eligenda intelligitur solum in dubiis, non in opinionibus, nempe quando dubium tale est, ut iudicium conscientiae cum assensu colligi non possit, sed etiam semper maneat dubia conscientia, sicut intelligit Navarrus et Sylvester1. Sicché il p. Vasquez altro non dice, se non quel che noi diciamo, cioè che standosi nel dubbio non è lecito operare coll'opinione probabile, finché non si abbia il dettame pratico certo di onestamente operare.

63. Aggiungiamo: Se vi fosse legge certa di dover sempre seguire in tutte le sorte di dubbi le sentenze più tute, sicché niuna azione fosse lecita, se non costasse, che quella è conforme alla legge eterna, per ragion che il possesso della legge eterna precede quello della nostra libertà (come vogliono i contrari), quomodo, quaero, potuisset ecclesia concedere coniugi, qui dubitat de sua potentia ad copulam coniugalem, ut possit eam per triennium experiri, semper ac non sit de impotentia certus? Si frigiditas prius probari non possit, cohabitent per triennium, sunt verba pontificis in c. Laudabilem, de frigid. et malef. Ex hoc textu sic arguimus: Lex non accedendi ad non suam est lex divina et naturalis, ac praecedens omne ius quod homo habere possit ad suam libertatem, prout supponunt adversarii. In dubio igitur, an vir sit potens, quod idem est ac esse in dubio, an mulier cum qua matrimonium contraxit, sit sua coniux, vel non, quomodo poterit, vir ex permissu ecclesiae ad eam accedere, et tactus turpes habere cum ea ad copulam experiendam, dum tactus illi cum non sua, si casu non est sua, certe sunt veriti sub mortali? Numquid ecclesia in lege naturali poterit dispensare? Omnino ideo dicendum, quod lex non accedendi ad alienam non obligat, nisi casu quo certe ipsa lex existit, et patet; alias in dubio possidet hominis libertas. Et ideo vir qui propter coniugium initum acquisivit ius ad copulam, semper ac dubitat de sua potentia, potest copulam experiri. Recte autem pontifex ad huiusmodi experimentum triennium determinavit, quia post triennium determinavit, quia post triennium, copula numquam interim consummata, impotentia censetur moraliter certa. Nec valet dicere, eo casu possidere matrimonium bona fide contractum; nam si servanda esset regula ab adversariis universe statuta, quod lex divina tamquam aeterna omnem antecedit humanam libertatem, ac propterea in dubio opinio tutior semper sit praeferenda, nullo modo in nostro casu posset copula experiri, quia nullo modo posset dici, matrimonium adversus divinam legem possidere.

64. Praeterea in c. Dominus, de secund. nupt. habetur, quod coniux qui secundas nuptias inivit, si postea dubitet de morte primi coniugis, non potest quidem coniugale debitum petere, sed potest, imo tenetur reddere alteri petenti in bona fide; et ratio est, quia alter adhuc possidet ius petendi. Sed si verum esset, quod lex divina possidet antecedenter ad libertatem hominis, ac ideo in dubio tutior pars semper sit eligenda, minime liceret redditio illa, stante dubio, an alter petens sit vel ne vere coniux. At quoniam (dicimus) in huiusmodi dubio possidet ius et libertas coniugis petentis, et contra lex divina, utpote eo casu dubia, minime obligat; propterea licet coniugi dubitanti reddere debitum, etiam ante diligentiam; nam alias post diligentiam, si dubium vinci nequit, communissima et probabilissima est sententia cum Soto, Habert, Wigandt, Suarez, Lessio, Roncaglia, Lugo, Sanchez, Cardenas, Anacleto, Castropalao, Salmaticensibus, et aliis pluribus, quod coniux dubitans potest etiam petere.

65. In oltre, perché (dimando) i dottori antichi comunemente hanno insegnato, che dove la legge è oscura, né per quella vi è alcun testo di scrittura o determinazione della chiesa, o evidente ragione, niun'azione dee condannarsi di colpa grave, se non perché gli


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autori mentovati hanno avuto per certo, che la legge dubbia non obbliga? Ecco come scrisse s. Raimondo: Non sis pronus iudicare mortalia peccata, ubi tibi non constat per certam scripturam1. Così ancora scrisse s. Antonino in più luoghi: in un luogo disse: Quaestio in qua agitur, utrum sit peccatum mortale, nisi ad hoc habeatur auctoritas expressa scripturae, aut canonis ecclesiae, vel evidens ratio, periculosissime determinatur2. E ne apporta la ragione, dicendo, che colui che nel dubbio determina esser mortale una qualche azione, di cui prudentemente si dubita che non sia mortale; egli (come scrive) aedificat ad gehennam, cioè mette in pericolo di dannazione chi facesse quell'azione. In altro luogo dice così: Si vero non potest (parla del confessore) clare percipere, utrum sit mortale, non videtur tunc praecipitanda sententia, ut dicit Guillelmus, ut deneget propter hoc absolutionem, vel illi faciat conscientiam de mortali. Et cum promptiora sint iura ad solvendum, quam ligandum3, et melius sit Domino reddere rationem de nimia misericordia, quam de nimia severitate, ut dicit Chrysostomus4, potius videtur absolvendus5. In altro luogo scrisse secondo il glossatore di s. Raimondo: In apicibus iuris, ubi dubitant etiam sapientes, excusabilis est ignorantia. Così anche scrisse Silvestro: Dico secundum archiepiscopum, quod tuta conscientia potest quis eligere unam opinionem, et secundum eam operari, si habeat notabiles doctores, et non sit expresse contra determinationem scripturae, vel ecclesiae6. Così ancora scrisse Giovanni Nyder: Ex quo enim opiniones sunt inter magnos, et ecclesia non determinavit alteram partem, teneat quam voluerit7. Lo stesso scrisse Gabriel Biel, che fiorì nell'anno 1480, dicendo: Nihil debet damnari tanquam mortale peccatum, de quo non habetur evidens ratio, vel manifesta auctoritas scripturae8.

66. Lo stesso si deduce da ciò che scrisse s. Tommaso ne' Quodlibeti: Qui ergo assentit opinioni alicuius magistri contra manifestum scripturae testimonium, vel contra id quod publice tenetur secundum ecclesiae auctoritatem, non potest ab erroris vitio excusari9. Dunque s. Tommaso giudica, essere inescusabile solamente colui, che siegue l'opinione d'alcun maestro contra un chiaro testo della scrittura, o contra qualche sentenza comune de' dottori, e conforme al sentimento della chiesa; ma non già chi siegue un'opinione, che non apparisce esser certamente contraria alla divina legge, come appunto notò Giovanni Nyder sovra il citato testo dell'angelico, dicendo: Haec verba s. Thomae non possunt intelligi, nisi de illis, ubi manifeste patet ex scriptura, vel ecclesiae determinatione, quod sit contra legem Dei, et non de illis ubi illud non apparet; alias sibi contradiceret in eodem libro10. E 'l medesimo s. Tommaso in altro luogo, trattando la questione, se sia lecito avere due prebende, dice, esser pericoloso il determinare, che alcuna azione sia mortale, ubi veritas (son sue parole) ambigua est, quod in hac quaestione accidit...Inveniuntur in ea theologi theologis, et iuristae iuristis contraria sentire; in iure namque divino non invenitur determinata expresse, cum in sacra scriptura expressa mentio de ea non fiat, quamvis ad eam argumenta ex aliquibus auctoritatibus scripturae forte adduci possint, quae tamen non lucide veritatem ostendunt11. Dunque l'angelico non ha per certo quel principio de' nostri contrari, cioè che in dubbio possiede la legge, e che perciò in dubbio dee tenersi l'opinione che favorisce la legge; ma dicendo, che dove la verità è ambigua, è pericoloso il determinare che l'azione sia mortale, il santo più


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presto ha per vero il principio nostro, che in dubbio se vi sia la legge, o no, la legge non obbliga. Ma se la legge dubbia non obbliga, diranno, perché s. Tommaso nello stesso quodlibeto, dice, che l'errore in determinare che alcun atto non sia mortale, non è scusato da colpa? Ma bisogna considerare le parole del s. dottore, le quali son queste: Omnis quaestio, in qua de mortali peccato quaeritur, nisi expresse veritas habeatur, periculose determinatur; quia error, quo non creditur esse peccatum mortale, quod est mortale, conscientiam non excusat a toto, licet forte a tanto. Error vero, quo creditur esse mortale, quod non est mortale, ex conscientia ligat ad peccatum mortale. Si rifletta dunque, che qui s. Tommaso non parla già dell'onestà dell'azione nell'operare, ma della verità della cosa nel determinare che quell'atto sia peccato mortale, o no; e perciò dice, esser pericoloso, dove la verità è ambigua, il determinare che l'atto sia o non sia peccaminoso; poiché l'errore nel determinare così per l'una come per l'altra parte è colpevole; giacché l'errore (dice) nel determinare che l'atto sia mortale, quando non è mortale, liga secondo la coscienza al mortale, ed è causa di dannazione; all'incontro l'errore nel determinare, che non sia mortale, quando è mortale, anche è colpevole. Ma ciò s'intende, spiega s. Antonino, scrivendo sovra del citato testo dell'angelico, quando si giudica per ignoranza crassa, che l'atto non sia mortale; ma non già quando ciò si giudica per opinione probabile difesa da' savi, ancorché altri contraddicano. Ecco le parole di s. Antonino: Notandum est, quod dicit s. Thomas in quadam quaestione de quodlibetis, quod quaestio in qua agitur de aliquo actu, utrum sit peccatum mortale vel non, nisi ad hoc habeatur auctoritas expressa scripturae sacrae, aut canonis ecclesiae, vel evidens ratio, nonnisi periculosissime determinatur. Nam si determinet, quod sit mortale, et non sit, mortaliter peccabit contra faciens quia omne quod est contra conscientiam, aedificat ad gehennam; si autem determinatur, quod non sit mortale, et est, error suus non excusabit eum a mortali. Sed hoc secundum videtur sane intelligendum, quando erraret ex crassa ignorantia; secus si ex probabili, puta quia consuluit peritos in tali materia, a quibus dicitur illud tale non esse mortale; videtur enim tunc in eo esse ignorantia quasi invincibilis, quae excusat a toto. Et hoc quantum ad ea, quae non sunt expresse contra ius divinum, vel naturale, vel contra articulos fidei, et decem praecepta, in quibus ignorans ignorabitur. Et si diceretur, hic esse usuram, et usura est contra decalogum; respondetur, sed hunc contractum esse usurarium non est clarum, cum sapientes contraria sibi invicem sentiant1. Sicché secondo s. Tommaso e s. Antonino, dove la verità non è manifesta, ma è contrastata, la legge come dubbia non obbliga; e perciò diciamo, che tra le due opinioni egualmente probabili non siam tenuti a seguitare quella che favorisce la legge.

67. Quindi scrisse il p. Martino de Prado domenicano: Ut verum fatear, cum pro neutra parte aliquod convincens, qua parte stes veritas, affertur, curabo opiniones benigniores amplecti, vel earum probabilitatem indicare, cum animarum salus impediatur nimia austeritate2. Ed ivi aggiunge quel che si trova scritto nelle costituzioni del suo ordine dei predicatori: Terrentur enim homines ex hoc in tantum, ut salutem negligant; quapropter relaxanda est, quantum fieri potest, rigiditas. In conformità di ciò il dottissimo p. Melchior Cano, impugnando la sentenza di Scoto, che obbligava i peccatori all'atto di contrizione ne' giorni festivi, scrisse: Ius humanum nullum est, aut evangelicum, quo hoc praeceptum asseratur; proferant, et tacebimus3. Ed al num. 5. ivi soggiunge: Quoniam ignoro, unde ad hanc opinionem doctores illi venerint, libere possum, quod non satis explorate


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praeceptum est, negare. Lo stesso scrisse il cardinal Lambertini arcivescovo di Bologna, e poi pontefice, nominato Benedetto XIV, nelle sue notificazioni, dicendo: non debbono imporsi ligami, quando non vi è manifesta legge che l'imponga1. E perciò nella sua celebre opera del sinodo, che cacciò fuori da pontefice, parlando della questione, se colui il quale nella mattina si è comunicato per divozione, se poi sopravvengagli pericolo di morte, sia tenuto, o se possa nello stesso giorno ricevere il viatico; egli rapporta le opinioni de' dottori che vi sono su di tal punto: la prima, che sia obbligato colui a prendere il viatico: la seconda in tutto contraria, che non possa di nuovo comunicarsi: la terza, che possa, ma non sia tenuto. Questa ultima opinione è probabile, ma non è la più tuta; nulladimeno Benedetto disse, esser lecito seguire ciascuna di quelle tre opinioni: In tanta opinionum doctorum discrepantia integram erit parocho eam sententiam amplecti, quae sibi magis arriserit2. E per questa ragione il medesimo Benedetto XIV in più luoghi della mentovata opera de synodo, dice, che i vescovi debbono astenersi dal decidere, che siano illecite molte cose che sono dubbie, e sono controverse tra' dottori, come per esempio parlando della questione, se commettono sacrilegio quei che prendono in peccato gli ordini inferiori al diaconato, dice, che ciò non possono i vescovi deciderlo3. Così anche dice, che debbano astenersi dal dichiarare illecito de iure naturae il censo personale4. Lo stesso dice parlando del contratto trino5.

68. Lo stesso scrive Domenico Soto. Et quando sunt opiniones inter graves doctores, utramque sequaris, in tuto habes conscientiam6. Lo stesso scrisse anticamente Bernardo di Chiaromonte rapportato da Giovanni Nyder, il quale dice: Concordat etiam Bernardus Claramontensis dicens: Ex quo enim opiniones sunt inter magnos, et ecclesia non determinavit alteram partem, teneat quam voluerit7. Irragionevolmente poi dicono gli avversari, che nel seguire l'opinione men tuta egualmente probabile s'incorre il pericolo dell'anima; mentre più facilmente questo pericolo s'incorre nell'imporre senza giusta e certa ragione l'obbligo di seguire le opinioni più rigide in tutti i casi che son dubbi, come saggiamente scrisse il p. Suarez: Imo potius periculum animarum incurreretur, si tot vincula in casibus dubiis iniicerentur8. Si noti ancora quel che più a lungo il cardinal Pallavicino scrisse a questo proposito: Per se spectatum effatum illud, in dubio tutior pars est eligenda, verissimum est si recte intelligatur; nam vel agitur de electione practica, et haec semper debet esse tutissima, quia debet esse evidenter licita: vel de electione sententiae speculativae, et circa eam quaerenda quidem est maior securitas actionis. Si induceretur opinio, quod semper teneremur facere actionem, quae securior est, etiam a transgressione materiali, haec opinio non esset tutior, sed maxime exposita periculo frequenter transgressionis formalis; quare tutior est opposita9. Così parimente scrive il p. Bancel domenicano: Multa sunt quae tutius est facere, sed simul etiam tutius est non se credere obligatum ad ea facienda, nisi moraliter ipsi constet de tali obligatione. Quindi così conclude: Cum non debemus formare conscientiam de obligatione ad aliquid sub poena peccati, nisi moraliter constet de obligatione, non debemus onus illud imponere dum moraliter nobis constat, superesse nobis libertatem amplectendi quamcumque voluerimus ex huiusmodi opinionibus10. Ma prima di questi autori ciò lo scrisse Giovan Gersone, dicendo: Doctores theologi non debent esse faciles ad asserendum


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aliqua esse peccata mortalia, ubi non sunt certissimi de re (si noti la parola certissimi), nam per eiusmodi assertiones voluntarias, rigidas, et nimis strictas in rebus universis nequaquam eriguntur homines a luto peccatorum, sed in illud profundius, quia desperatius, demerguntur. Quid prodest, imo quid non obest, coarctare plus iusto mandatum Dei, quod est latum nimis? Quid expedit gravius reddere illud Christi iugum, quod suave est, et onus leve?1.

69. Io per me confesso la verità, che quando cominciai a studiar la teologia morale, perché fui diretto a principio in tale studio da un maestro della rigida sentenza, impresi a difendere la medesima con molto calore; ma in appresso, considerando meglio la questione, mi parve moralmente certa la sentenza, che sta per l'opinione egualmente probabile, indotto dal medesimo principio qui provato, che la legge dubbia non può indurre un'obbligazione certa. Quindi fermamente restai persuaso, che non dovevano costringersi le coscienze a seguire l'opinione più tuta, quando l'opposta fosse già egualmente probabile, per non metterle nel pericolo di molte colpe formali. Ed inoltre confesso avanti a Dio, che in questi ultimi tempi, vedendo così agramente impugnata la nostra sentenza (che prima per la serie di molti anni è stata senza dubbio comune appresso tutti), più e più volte ho cercato di esaminare di nuovo questo punto con tutta la diligenza, deponendo ogni propensione, e leggendo e rileggendo tutti gli autori moderni, che mi son capitati alle mani, della rigida sentenza, apparecchiato ad abbandonar la mia, subito che l'avessi conosciuta non abbastanza certa, siccome non ho avuta ripugnanza di ritrarmi in molte altre opinioni un tempo da me tenute, le quali erano per altro certamente di minor momento, che non è questa. Ma quanto più ho esaminate le ragioni, tanto più elle mi sono apparse certe e sicure. Del resto, se al presente vi fosse alcuno, il quale potesse illuminarmi, anche per lettera, e mi facesse conoscere essere falsa la nostra sentenza, non già con porsi a riprovare qualche prova o punto incidentemente addotto nel pieno della dissertazione, ma con dimostrarmi l'insussistenza del principio assunto, se del quale la nostra sentenza è fondata, cioè che la legge dubbia non può indurre un obbligo certo, e me lo dimostrasse con qualche nuovo lume o sia motivo (perché i motivi addotti dagli scrittori moderni niente mi han convinto, anzi come ho detto, mi han confermato nel mio sentimento), io ne lo pregherei, e poi gliene conserverei perpetua obbligazione, promettendo di subito ritrattarmi con pubblica scrittura. Fintanto però che non verrò altrimenti persuaso di quel che sono al presente, io in quanto a me mi sforzerò coll'aiuto della divina grazia di camminare per la via più perfetta: ma il voler obbligare tutti ad astenersi in pratica di seguire ogni opinione, che non è moralmente certa, o quasi moralmente certa (nel che molto poca è la differenza) a favore della libertà, secondo oggidì vogliono obbligarli più autori moderni, e negar loro l'assoluzione sagramentale, se non se ne astengono, ciò stimo non potersi fare in coscienza se prima non me lo dichiara la chiesa: alla quale, dichiarando ella, subito e volentieri sommetterò il mio giudizio. Del resto s. Giovan Grisostomo2 così m'istruisce nel testo di sovra già riferito altra volta: Circa vitam tuam esto austerus, circa alienam benignus. Quindi giova qui notare quel che scrisse il p. Paolo Segneri nelle citate sue pistole per l'opinione probabile3 dove disse: «Gli antichi (checché si dicano alcuni senza provarlo, né poterlo mai provare per tutta l'eternità) son iti con questa regola: dove la legge era certa, attenersi a quella; dove era dubbia, diporre la dubbietà con cercare il parere d'uomini dotti, quando essi tali erano a sufficienza: con ventilarlo, quando non erano: dove i pareri


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eran ben fondati di qua e di , attenersi a que' che gradissero con fidanza di non errare (E qui rapporta le parole di Bernardo di Chiaromonte di sopra già riferite: Ex quo opiniones sunt inter magnos, et ecclesia non determinavit alteram partem, teneat quis quam voluerit). Questa fu la regola antica, e questa è la vera regola antica, e questa è la vera regola da seguirsi perpetuamente. Non tutto quello ch'è meglio a farsi, è meglio ad ordinarsi. il b. Pietro Damiani sul testo di s. Paolo, Volo omnes vos esse sicut me ipsum, questa chiosa utilissima al nostro intento1. Aliud volebat apostolus, aliud praecipiebat; volendo me esse sicut se, provocat ut ascendam; offerendo copulam nuptialem, retinet sustinendo, ne corruam. Dopo ciò l'esortar tutti a seguire in ogni occorrenza l'opinione più probabile (ciò dee intendersi, quando l'eccesso fosse picciolo, e dubbioso, come al principio si spiegò) è cosa santa; ma sarebbe cosa, s'io non erro, malissima l'obbligarveli. Ciò che molto bene Silvestro mostrò d'intendere nella sua Somma, dove alla parola confessio lasciò scritto: Licet sit tutius statim habita opportunitate confiteri, quam differre, non tamen tutius est tenere quod sic obligentur, quia viri timorati haberent maximas occasiones peccandi. Io sto a vedere, che vi sia chi presuma di andare in queste materie con piè più fermo di quello che facesse un s. Agostino; egli dopo aver in una sua lettera a s. Geronimo esposta la riverenza in cui tenea gli scrittori sagri, passando agli altri, soggiunse: Alios autem ita lego, ut quantalibet sanctitate doctrinaque polleant, non ideo verum putem, quia ipsi ita senserunt; sed quia mihi per alios auctores, vel probabiles rationes, quod a vero non abhorreat persuadere potuerunt). Così sta nel cap. Ego solis, dist. 9. Ma come avverte la correzione romana, presso s. Agostino in vece di quel, mihi per alios etc., sta così: Mihi vel per illos auctores canonicos, vel probabili ratione etc.). La prego a ponderare, che 'l santo non a quel solo acquietavasi, che gli fosse persuaso per vero in tutto con giudizio assoluto, e come dicono alcuni, non fluttuante; signor no, acquietavasi a quello che gli fosse provato non allontanarsi dal vero. Quod a vero non abhorreat. Ma che altro è il proprio dell'opinione probabile, se non questo, non abhorrere a vero? Questo fu il proceder proprio dell'universo nelle controversie morali».

70. Del resto qui ci protestiamo, che siccome non sappiamo approvare que' confessori, che per essere troppo appassionati per lo rigore facilmente condannano senza certo fondamento molte opinioni, benché appoggiate a grave motivo di ragione o di autorità: così all'incontro non possiamo approvare quegli altri, a cui basta, per chiamare probabile un'opinione, qualunque ragione apparente, ma non ferma, o pure il vederla difesa da alcuni autori, che per essere benigni, danno spesso in lassezze. Il confessore prima di approvare un'opinione, egli è obbligato ad esaminare le ragioni intrinseche, e quando trova una ragione convincente per l'opinione che si oppone alla libertà, e stima che a tal ragione non possa moralmente darsi adeguata risposta, allora in ogni conto dee preferir la ragione all'autorità, ancorché ella sia di più dd. gravi, purché l'autorità non fosse tanta, ch'egli giudicasse, dovergli quella fare più peso che la ragione propria, secondo quel che asserisce s. Tommaso2, dicendo: Aliquis parvae scientiae magis certificatur de eo quod audit ab aliquo scientifico, quam de eo quod sibi secundum suam rationem videtur, benché questo è un caso che molto di rado avviene.

71. Ciò corre in quanto alla teorica; ma in quanto alla pratica di scegliere le opinioni, nel dubbio se debbono preporsi le rigide alle benigne, o queste a quelle, io rispondo così: Dove si tratta di esimere il penitente dal pericolo del peccato formale, dee il confessore avvalersi, per quanto permette la cristiana


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prudenza delle opinioni più benigne. Ma dove poi le opinioni benigne fan più vicino il pericolo del peccato formale, come sono alcune opinioni di dd. circa l'obbligo di fuggire le occasioni prossime, e simili, allora è sempre spediente, che 'l confessore si avvaglia, anzi dico, ch'egli come medico dell'anime è tenuto ad avvalersi delle opinioni rigide che meglio conducono a conservare il penitente nella divina grazia.




2 Lib. 1. n. 46.



3 L. 4. n. 210. Q. II.



1 Lib. 6. n. 103. et 482. in fin.



2 Lib. 1. n. 50. et lib. 6. n. 901.



3 Lib. 6. n. 573.



4 Lib. 1. ex. n. 36. ad n. 43.



1 Rom. 14. 23.



1 S. Thom. 1. 2. q. 90. a. 1.



2 Can. In istis dist. 4.



3 S. Thom. 1. 2. q. 90. a. 4.



4 Sylvius 1. 2. q. 9. a. 4. in fin.



5 Gotti theol. t. 2. tr. 5. de leg. q. 1. dub. 3. §. 3. n. 18.



6 Gotti loc. cit. n. 21.



7 Gonet in clyp. theol. t. 3. d. 1. a. 3 §. 1. n. 57.



8 Idem eod. loco art. 3. n. 57.



1 N. 48.



2 Rom. 3. 20.



3 Panorm. In cap. final. de constit.



4 S. Thom. 1. 2. q. 19. a. 4. ad 3.



5 S. Thom. de verit. q. 17. a. 3.



1 Ad 4.



2 Lib. 3. de lib. arb. c. 19.



3 S. Th. de ver. q. 3. a. 7. ad 7.



4 Ib. ad 8.



5 Suarez de consc. prob. disp. 12. sect. 6.



6 Pist. 1. §. 2.



7 1. 2. q. 90. a. 4.



1 Amort theol. t. 1. disp. 2. §. 4. q. 10. p. 232.



2 Idem loc. cit. p. 283. disp. 2. qu. v.



3 Orat. 39.



4 Lib. 7. ep. 23.



5 Epist. 90. ad Rustic. Narbonens, in praefat. in c. Sicut quaedam, fin. dist. 14.



6 In can. Alligant. 26. 26. q. 7.



7 L. 3. inst. c. 27.



1 1. Cor. 14. 8. et 11.



2 S. Aug. serm. 294. c. 11. col. 224. ed. Paris.



3 Ep. 82.



4 Ep. ad inquis. Ianuar. c. 11. n. 3.



5 Ep. 188. can. I. c. 10.



6 Cap. 5. n. 18. col. 1. oper. ex edit. Maur. Paris. col. 654.



7 In 4. dist. 38. art. 2. q. 3.



1 Eccli. 15. 14.



2 Matth. 19. 16.



3 S. Aug. lib. 22. contra Faustum c. 27.



4 Idem lib. 1. de lib. arb. c. 6.



5 S. Thom. 1. 2. q. 93. a. 1.



6 S. Thom. 1. 2. q. 91. a. 1.



1 Rom. 4.



2 S. Thom. 1. 2. q. 92. a. 1. ad 1.



3 S. Thom. 1. 2. q. 91. a. 1. ad 2.



4 Sylvius 1. 2. q. 90. a. 4. in fin.



5 Idem 1. 2. q. 91. a. 1. ad 2.



6 Berti theol. lib. 2. de leg. c. 3. n. 2. in fin.



7 Gotti theol. t. 2. tr. 5. q. 2. dub. 1. n. 13.



8 Gonet in clyp. t. 3. disp. 2. a. 2. n. 12.



1 Honor. Tourn. theol. tom. 2. c. 2. q. 3.



2 S. Thom. 1. 2. q. 91. a. 2.



3 Gotti theol. t. 3. tr. 5. q. 2. dub. 1. n. 9.



4 S. Thom. 1. 2. q. 19. a. 10.



1 S. Thom. 1. 2. q. 19. a. 10. ad 1.



2 Gonet in clyp. t. 3. d. 6. a. 2. n. 37. in fin.



3 Gotti t. 2. q. 2. dub. 2. §. 1. n. 9.



4 Ibid.



5 S. Anselm. lib. de simil. c. 159.



6 S. Thom. 2. 2. q. 104. n. 4. ad 3.



7 Tom. 1. de legib. cap. 2. n. 10.



1 Sanch. de matr. lib. 2. disp. 31. n. 36.



2 Suar. tom. 2. in 3. part. disp. 4. sect. 5.



3 Id. de consc. prob. disp. 12. sect. 6.



4 S. Thom. 1. 2. q. 19. a. 10. ad 1.



1 Gonet in clyp. t. 8. disp. 6. a. 2. n. 37. in fin.



2 S. Th. in 4. sent. d. 15. q. 2. a. 4. ad 2.



1 T. 2. lib. 21. c. 13. prop. 3. v. Patroni.



1 S. Antonin. p. 3. tit. 1. cap. 2.



2 Id. P. 1. tit. 3., cap. 10. §. 10.



3 Nyder in consolat. ec. p. 3. c. 16.



4 Tab. in summa, verb. Scrupulus.



5 Tirill. de probab. q. 26. n. 21.



1 S. Antonin. p. 1. tit. 3. c. 10. §. 10.



2 Id. p. 2. tit. 1. c. 11. §. 28.



3 Angel. verb. Opinio.



4 Nav. man. c. 27. n. 284. Sylvest. v. Opinio



5 Lactant. lib. 3. instit. cap. 21.



1 Vasqu. t. 2. disp. 156. c. 2. n. 8.



1 Vasqu. 1. 2. q. 19. a. 6. disp. 62. c. 9. n. 45.



1 S. Raymund. l. 3. de poenit. §. 21.



2 S. Antonin. p. 2. tit. I, c. 11. §. 28.



3 C. Ponderet, dist. 1.



4 C. Alligant, 26. quaest. 7.



5 S. Antonin. p. 2. tit. 4. c. 5. §. In quantum.



6 Sylvester verb. Scrupulus.



7 Nyder in consolat. part. 3. c. 20.



8 Gabriel in 4. d. 16. q. 4. conclus. 5.



9 S. Thom. quodlib. 3. a. 10.



10 Nyder in consolat. ec. cap. 11. p. 3.



11 S. Thom. quodlib. 9. a. 15.



1 S. Antonin. p. 2. tit. 1. c. 11. §. 28.



2 Martin. de Prado in praef. ad quaest. mor.



3 Canus relect. 4. de poenit. p. 4. q. 2. per 3.



1 Card. Lambert. notif. 13.



2 Bened. XIV. de synod. lib. 7. c. 11.



3 Id. lib. 8. c. 9. n. 12.



4 Id. lib. 10. c. 5. n. 7.



5 Id. lib. 10. c. 7. n. 6.



6 Sot. de iust. l. 6. q. 1. art. 6. circa fin.



7 Nyder in consolat. part. 3. c. 12.



8 Suarez in 2. 2. q. 89. a. 7.



9 Pallav. in 1. 2. disp. 9. c. 4. art. 11. n. 12.



10 Bancel. t. 5. brev. theol. p. 2. tr. 6. q. 5. a. 5.



1 Gerson de vita spirit. lect. 4.



2 Can. Alligant. 26. q. 7.



3 Pist. 1. §. 11.



1 Lib. 6. epist. 12.



2 2. 2. q. 9. a. 8. ad 2.






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