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S. Alfonso Maria de Liguori
Istruzione e pratica pei confessori

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Punto II. Della carità verso il prossimo.

14 Ordine della carità.

15. Ordine delle persone che debbon preferirsi.

16. §. I. Segni comuni da usarsi co' nemici.

17. Remissione.

18. e 19. §. II. Obbligo della limosina.

20. §. III. Della correzione fraterna.

21. Obbligo in ciò de' superiori.

23. e 24. §. IV. Dello scandalo, ed in quanti modi sia.

25. Se lo scandalo sia peccato così contra la carità, come contra la virtù che si offende.

26. e 27. Se il prossimo è preparato a peccare.

28. Se per lo scandalo siam tenuti a lasciare i nostri beni, ed anche i precetti positivi.

29. Dello scandalo che dan le donne; e delle commedie.

30. Se possa consigliarsi un male minore.

31. e 32. Quando sia lecita la cooperazione materiale.

14. La carità è ordinata, ond'è che dobbiamo preferire Dio e la sua grazia ad ogni cosa; all'incontro non siamo obbligati a preferire il bene del prossimo al bene nostro, se non quando il bene del prossimo fosse di ordine maggiore al nostro. L'ordine de' beni è questo: prima la vita spirituale, poi la temporale, poi la fama, e poi le robe. Sicché non siam tenuti a preferire la vita del prossimo alla nostra, ma bensì dobbiamo preferire la salute spirituale del prossimo alla nostra vita. Ciò nondimeno s'intende quando il prossimo sta in necessità estrema: ed anche in grave a rispetto de' vescovi e parrochi, secondo la sentenza comune3. E quando la necessità spirituale del prossimo è estrema, allora siam tenuti a sovvenirlo, ancorché vi sia probabile pericolo di cader noi in qualche peccato (purché la caduta non sia moralmente certa) mentre allora dobbiamo giustamente sperare l'aiuto divino; così s. Tommaso, Suarez, Soto, Pal., Silvio, Tournely, Salmaticesi, ecc.4. S'intende ciò nulladimeno, sempre che v'è eguale speranza di giovare, e non vi sia altri che soccorra: e di più che altrimenti il prossimo certamente sia per dannarsi, poiché tutto ciò importa il nome di necessità estrema. Ma in tempo di peste, ragionevolmente dice Laymann, che i sacerdoti, mancando gli altri, sono obbligati d'assistere ai moribondi, perché in tanta moltitudine è moralmente certo, che vi saranno più peccatori che non potranno rimediare alla loro dannazione per l'ignoranza di non saper fare l'atto di contrizione5.

15. L'ordine poi delle persone che dobbiamo preferire negli offici di carità, è questo: nella necessità estrema della vita a tutti dobbiamo preferire i nostri genitori, poiché avendo noi per mezzo loro ricevuta la vita, è giusto, che nella vita sian da noi a tutti preferiti. Ma nella necessità grave de' beni dee preferirsi a tutti il coniuge, poi i figli, poi i genitori (e 'l padre prima della madre), poi i fratelli e sorelle, poi gli altri congiunti, e per ultimo i nostri domestici6.

§. I. Dell'amore a' nemici.

16. Noi siam tenuti ad amare i nostri nemici così internamente come esternamente, con dimostrare loro almeno i segni comuni soliti ad usarsi cogli altri amici o parenti; v. gr. con salutarli o almeno risalutarli, rispondendo alle loro lettere, non fuggendo la loro conversazione, non escludendoli dalle comuni limosine e cose simili. Abbiamo detto almeno risalutarli, ma quando il nemico fosse superiore, o altrimenti vi fosse scandalo, o pure se


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senza grave incomodo alcuno potesse salutare il suo nemico, e con ciò liberarlo da peccato grave d'odio che conserva verso di lui, allora (come ben dice il Tournely) è tenuto per carità a prevenirlo nel saluto. Alcuni autori poi scusano da peccato grave l'offeso, s'egli neppure rendesse il saluto al suo nemico, quando avesse da poco tempo ricevuta l'ingiuria, così Ronc., Tamb., e Mazzot.1.

17. Qui è bene far menzione di quel dubbio che si fa tra' dottori, se mai l'offeso è obbligato a far la remissione al suo offensore. Dicono i Salmaticesi2, che l'offeso è obbligato a rimettere l'ingiuria, ma non già la pubblica pena, perché questa ridonda in bene della repubblica. Speculativamente parlando, la sentenza è vera; ma parlando in pratica, io non mai mi son fidato d'assolvere alcun di costoro che dicevano perdonar l'inimico, ma voler che la giustizia avesse il suo luogo, acciocché fossero castigati i malfattori: poiché non ho potuto mai persuadermi, che questi tali che vengono alle volte pieni di peccati, abbiano poi quest'affetto al bene comune ed alla giustizia (non già per gli altri delinquenti, ma solo pel loro offensore), che sia depurato da ogni passione di vendetta. Onde in costoro è facilissimo, come dicono molti altri dottori3, che 'l loro amore al ben comune sia un bel pretesto per colorire il desiderio della propria vendetta. Tuttavia stimo che ben si possa assolvere l'offeso, primieramente se volesse già fare la remissione, ma giustamente pretendesse d'essere prima soddisfatto dell'interesse patito; purché l'offensore non fosse così povero, che in niun conto potesse soddisfare. Per secondo se facesse la remissione colla condizione, che l'offensore stesse fuori del paese, o perché tiene fratelli o figli grandi e risentiti, o perché l'offensore fosse talmente discolo e proclive alle risse, ch'egli giustamente temesse per la sua debolezza di non poter soffrire le sue insolenze.

§. II. Della limosina.

18. Per vedere quando v'è obbligo di far la limosina, bisogna per 1. distinguere la necessità estrema dalla grave e dalla comune. L'estrema è quando il prossimo sta in pericolo della vita. La grave quando gli sovrasta il pericolo d'un gran male, come d'infamia, il disonore, o di decadere dal suo stato giustamente acquistato. La comune finalmente è quella che patiscono i mendicanti. Bisogna per 2. distinguere i beni superflui alla vita da' beni superflui allo stato.

19. Nella necessità grave del prossimo siamo tenuti a soccorrerlo solamente de' beni superflui allo stato, ma nell'estrema possiamo sovvenire il povero anche de' beni altrui, quando non abbiamo de' propri. Nella comune poi diciamo con s. Tommaso, Tournely, Sanchez ecc. (contra l'opinione d'altri), che i ricchi son tenuti con obbligo grave di far la limosina a' mendici de' loro beni superflui allo stato, stante il precetto del vangelo: Quod superest, date eleemosynam4. Non già però v'è obbligo di dare tutto il superfluo, ma basta dare, come dice Silvio, quanto è sufficiente, unito con quel che darebbero gli altri ricchi, a fare, che tali poveri sieno convenientemente soccorsi: Tenetur dives dare (son sue parole) non omnibus pauperibus occurrentibus, nec totum superfluum, sed non ita modicum pro quantitate suae substantiae, ut si alii divites sic facerent; pauperibus deesset subsidium. Basta in somma dar la quinquagesima parte dell'annue rendite, cioè il due per cento, come dicono probabilmente molti dottori; così Roncaglia, Viva, Tamb., Mazzotta ecc., e meno, se le rendite sono molto abbondanti. Anzi Laymann permette al ricco d'impiegar detta limosina tutta in qualche uso pio, senza farne parte a' poveri5. Ciò nondimeno non s'intende per li beneficiati, perché questi sono obbligati


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a dar tutto il superfluo per limosina o a' poveri, o ai luoghi pii, come diremo al cap. X. n. 7.

§. III. Della correzione fraterna.

20. La materia della correzione è ogni peccato mortale in cui il prossimo o sta per cadervi, o già v'è caduto, e non ancora se n'è liberato, come ben tengono Tournely, Suar., Less., Salm. ecc. Avvertasi, che vi è obbligo grave di correggere il prossimo, ancorché quegli trasgredisse la legge per ignoranza incolpabile, purché se ne speri frutto. E ciò corre secondo la sentenza più probabile di Castrop., Sanch., con., Croix, Tourn. ecc., non solo quando si pecca contro la legge naturale, ma anche contro la positiva; poiché posta la legge che proibisce quell'azione, l'azione già si rende intrinsecamente mala1.

21. Per più motivi poi alcuno può essere scusato dal far la correzione: per 1. se non è certo il peccato del prossimo, mentre in dubbio non v'è obbligo di correggere se non in caso di danno comune o danno gravissimo, come d'omicidio e simili delitti. Per 2. se non v'è speranza di profitto, e la correzione si stima che abbia più a nuocere che a giovare, poiché allora dev'ella ommettersi; purché il delinquente non istia in pericolo di morte, e stia già in mala fede, o pure purché gli altri non istiano in pericolo di pervertirsi2. Per 3. se non manca altri egualmente idoneo che farà la correzione. Per 4. se si giudica prudentemente, che il reo per se stesso si ravvederà3. Per 5. se non può farsi la correzione senza grave incomodo, essendo quest'obbligo solo di carità. Per 6. Se il tempo e l'occasione non sono opportuni, che perciò dicono molti dd., che qualche volta può aspettarsi la reiterazione del delitto, affinché meglio riesca la correzione4. Di più insegna s. Tommaso5, che pecca solo venialmente chi lascia di correggere per qualche timore, o cupidità, purché non istimasse certo di poter ritrarre colla correzione il prossimo dal peccato, poiché allora commettendola non sarebbe scusato dal mortale6.

22. Questo precetto obbliga tutti, anche i sudditi, ma più strettamente i superiori, come vescovi, prelati, parrochi, confessori, genitori, mariti, curatori, padroni e maestri; perché questi son tenuti a correggere i loro sudditi non solo per carità, ma anche per obbligo del loro officio. E son tenuti anche ad inquirere i loro peccati, quando ve ne sono probabili indizi. Ed i prelati di religione alle volte son tenuti con obbligo grave a correggere, non solo i peccati mortali, ma anche i veniali de' loro religiosi quando son tali che portassero un grave danno all'osservanza comune; Laymann, Busemb., Tourn. ecc.7. Se poi tutti i superiori nominati di sopra sieno obbligati alla correzione, anche con pericolo della vita, diciamo che no. Fuori non però de' pastori; poiché i pastori son tenuti, non solo per officio, ma ancor per giustizia (a cagion dello stipendio che ricevono) a correggere e sovvenire ne' bisogni spirituali i loro sudditi e non solo nella necessità estrema, ma ben anche nella grave, come comunemente dicono i dottori8. E qui notisi ancora, che i predicatori per ragion del loro officio debbono correggere i peccati pubblici, ancorché non vi sia speranza d'emenda; e son tenuti a far questa pubblica correzione anche con pericolo del proprio danno, come dicono i Salmaticesi. Ma ciò s'intende, sempre che dalla riprensione si spera frutto, e non si tema che 'l danno comune sia maggiore9.

§. IV. Dello scandalo.

23. Si distingue lo scandalo in attivo e passivo. L'attivo si definisce: Est dictum vel factum minus rectum praebens alteri occasionem ruinae. Questo scandalo poi attivo può esser diretto ed indiretto: diretto, quando direttamente


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s'induce il prossimo a peccare; indiretto, quando si dice qualche parola, o si fa qualche azione peccaminosa atta ad indurre altri a peccare. Vi è anche lo scandalo demoniaco, che si commette quando non solo s'induce il prossimo a peccare, ma di più s'induce principalmente per fargli perdere l'anima, officio proprio del demonio.

24. Il passivo è la stessa ruina, o sia peccato, nel quale cade il prossimo; e questo si divide in iscandalo dato, chiamato de' pusilli, cioè di coloro che cadono per propria debolezza; ed in accetto chiamato farisaico, cioè di coloro che cadono per propria malizia.

25. Qui si domanda per 1. se lo scandalo sia peccato contra la carità e contra la virtù contro cui s'induce il prossimo a peccare. Vi sono tre sentenze. La prima dice, che quando direttamente s'intende la ruina spirituale del prossimo (ch'è propriamente lo scandalo demoniaco di sopra nominato), allora si pecca contra la carità; altrimenti si pecca solo contra la virtù che si offende dal prossimo scandalizzato. La seconda sentenza dice che quando si pecca collo scandalo diretto, cioè quando s'induce positivamente il prossimo a peccare, allora si pecca così contra la virtù, come contra la carità; ma se si pecca col solo scandalo indiretto, prevedendosi solamente il peccato del prossimo, ma senza indurlo a peccare, allora si pecca solamente contra la carità. La terza sentenza, che noi teniamo con Suarez, Lugo, Salmat., Roncaglia, Tamb., ed altri, ed è tenuta espressamente da s. Tommaso1, dice che tanto collo scandalo diretto, quanto coll'indiretto sempre si pecca così contra la carità come contra la virtù. Contra la carità, perché se noi siamo obbligati per carità d'impedire potendo il peccato del prossimo, molto più siam tenuti a non esser occasione al prossimo di commetterlo. Contra la virtù, perché ogni virtù proibisce a ciascuno l'esser egli causa o pure occasione che altri l'offendano2.

26. Si domanda per 2. se pecca con peccato di scandalo chi richiede dal prossimo una cosa mala, alla quale per altro il prossimo già sta apparecchiato, come per esempio, si quis petat copulam a meretrice. Noi contra l'opinione di altri teniamo che sì, con Sanchez, Gaet., Nav., Bonacina, Roncaglia, Tamburr., Sporer ecc. La ragione, perché (come si disse al capo III. n. 20), anche data per certa la sentenza, che l'atto esterno speculativamente parlando niente aggiunga di malizia all'atto interno, nondimeno in pratica sempre col peccato esternamente consumato si accresce la malizia della volontà per la maggior compiacenza che coll'atto esterno ordinariamente v'interviene, o per la maggior diuturnità di detta compiacenza; onde chi pecca esternamente sempre si cagiona maggior ruina nell'anima. E perciò quegli che in ciò gli coopera, sempre pecca gravemente contra la carità. Dal che probabilmente s'inferisce col cardinal de Lugo ed altri, non esser necessario ne' peccati commessi col complice spiegare, chi sia stato il primo a tentare, perché tanto chi induce, quanto chi consente al peccato d'opera, sempre pecca gravemente contra la carità; sicché l'induzione non è più allora che una circostanza aggravante nella stessa specie, la quale, secondo la sentenza più probabile con s. Tommaso, non siamo obbligati a spiegar nella confessione, come diremo parlando del sacramento della penitenza3.

27. Ciò si dice, quando si cerca una cosa intrinsecamente mala; ma se si chiedesse una cosa indifferente, che potesse dal prossimo darsi senza peccato, come sarebbe chiedere il mutuo dall'usuraio, o alcun sacramento dal sacerdote che sta in peccato; allora diciamo, che quando v'è causa di necessità, o di notabile utilità, è lecito il chiederla; ma senza questa causa il postulante anche peccherebbe gravemente, così contra la carità, come contra la virtù; così Sanch., Mol., Busem., Ronc. Tamb., Salm. ecc.4. S.


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Tommaso1 dice: Licet ab eo qui usuras exercet, mutuum accipere sub usuris propter aliquod bonum, quod est subventio suae necessitatis, vel alterius. E così anche dice2 esser lecito dare a conservare il suo danaro per tenerlo più sicuro, all'usuraio, ancorché quegli l'impieghi in usure. La ragione di s. Tommaso è perché, uti peccato alterius ad bonum, licitum est, sempre che non s'induce il prossimo a peccare, e possa egli dar l'opera sua senza peccato. Silvio nel luogo citato di s. Tommaso dice: Sufficit notabilis necessitas ad decentiam status vel personae. Errico di s. Ignazio ammette anche la notabile utilità per giusta causa.

28. Noi siamo alle volte obbligati, quando non v'è grave incomodo, a lasciare i nostri beni temporali, ed anche spirituali, purché non sieno necessari alla salute, per evitare il grave scandalo de' pusilli. Ma qui ben avverte s. Tommaso3, che dopo fatta ammonizione al prossimo il suo scandalo si rende farisaico; sicché non siam tenuti più ad evitarlo4. Se poi per evitare lo scandalo de' pusilli vi sia obbligo di omettere i precetti positivi come la messa, il digiuno ecc., diciamo in ciò esser più probabile che sì; perché il precetto naturale d'impedir lo scandalo, cioè il peccato altrui (avvertendo però, altro essere l'impedire il peccato, altro impedire l'ammirazione); dee preferirsi al precetto positivo. Ciò nulladimeno non s'intende per sempre (ancorché l'azione non fosse di precetto, ma di semplice divozione o indifferente), ma solamente per una o due volte, altrimenti sarebbe grave l'incomodo, a cui non obbliga la carità; così Gaet., Sanchez, Navarr., Az., Less., Salmat., ecc.5.

29. Peccano gravemente di scandalo le donne che portano il petto immoderatamente scoperto; o pure che introducono un tal uso dove non vi è, ancorché lo scoprimento non fosse immoderato; così s. Antonin., Nav., Less., Laym. ed altri comunemente6. Peccano anche gravemente di scandalo coloro che compongono o rappresentano commedie notabilmente oscene. E lo stesso dicesi dei pittori che dipingono o espongono al pubblico immagini positivamente turpi7.

30. Diciamo all'incontro con Sanch., Soto, Navarr., Molina, Gaet., Silvest., Salmatic. ecc., avvalorati dall'autorità di s. Agostino (contra altri), esser probabilmente lecito il consigliare un male minore, per evitare il maggiore, che il prossimo già sta determinato ad eseguire; perché allora chi consiglia non procura il male, ma il bene persuadendo l'elezione del minor male, ancorché sia d'altra specie8. Così anche è lecito al padrone, o al padre, non toglier l'occasione di rubare a' servi o a' figli che sono già apparecchiati a rubare, acciocch'essendo colti nel delitto, meglio possano ravvedersi. Per lo stesso fine permettono molti dd. il dare loro anche l'occasione di rubare, con permettere loro di fare il furto, acciocché si evitino i delitti futuri9, dicendo s. Tommaso: Inducere ad peccandum, nullo modo licet; uti tamen peccato alterius ad bonum, licitum est10.

§. V. Della cooperazione materiale.

31. La cooperazione materiale comunemente è ammessa per lecita da' dottori quando v'è giusta causa. Intendasi qui, che altra è la cooperazione formale, la quale succede, quando si coopera direttamente al peccato (com'è in colui che fornicatur); o pure quando s'influisce nella mala volontà del prossimo, che vuol peccare, come sarebbe il guardare le spalle all'assassino o ladro, acciocché uccida o rubi con più sicurezza: lo scriver lettere amorose in nome del concubinario o portare doni alla di lui concubina: il ricever doni da persona che insidia l'onestà. Queste e simili cooperazioni sono intrinsecamente male, perché con esse si animo al prossimo


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ad eseguire il peccato, e almeno si fomenta la sua mala intenzione, e perciò per niuna causa, anche di morte, possono elle scusarsi da peccato mortale. Altra poi è la cooperazione materiale, la quale è, quando l'azione è indifferente, e 'l prossimo può già servirsene senza peccato, ma egli per sua malizia se ne abusa a peccare, come sarebbe il prender danaro a mutuo da alcuno che non vuol darlo senza usura: porgere il vino a chi se ne serve per ubbriacarsi: dar le chiavi a chi le adopera per rubare.

32. Or queste cooperazioni materiali possono esser lecite quando vi concorrono tre condizioni: 1. che l'atto della tua cooperazione (come già si è detto) sia per sé indifferente. 2. Che tu non sii tenuto per officio ad impedire l'altrui peccato. 3. Che tu abbi causa giusta e proporzionata di poter così cooperare; poiché allora il peccato del prossimo non proviene dalla tua cooperazione, ma dalla malizia di colui il quale si serve della tua azione per peccare. Sicché allora non è che la tua azione si congiunga alla mala volontà del prossimo, ma quegli congiunge la sua mala volontà alla tua azione, ond'è, che la tua azione non è causa del di lui peccato, ma è solamente occasione la quale tu non sei obbligato a togliere quando hai giusta causa di porla; e così è lecito all'oste dare il vino a chi vuole ubbriacarsi, semprecché altrimenti temesse grave danno, Sanch., Busem., Bon., Tourn. ed altri comunemente. Si è detto causa giusta e proporzionata, perché quanto più è vicina la tua cooperazione al peccato del prossimo, tanto più grave ha da essere la causa che ti scusi. Per giudicare poi quando la causa sia o no proporzionata, per primo bisogna regolarsi da ciò che ne dicono i dd., perché dipendendo ciò dall'estimazione de' prudenti, l'esser in tal materia una sentenza più comune , fa ancora che sia più probabile, come diremo ancora parlando della materia grave del furto al cap. X. n. 22. In oltre trattandosi di pregiudizio del prossimo, bisogna aver la regola che noi non possiamo cooperare al danno altrui, se non quando il danno che temiamo de' beni nostri, è d'ordine superiore: per esempio, quando alcuno ti minaccia la morte se tu non vuoi cooperare alla morte del di lui nemico con dargli v. gr. la spada, tu non puoi dargliela perché non puoi positivamente concorrere alla morte di un altro per liberare te dalla morte. Così ancora quando il ladro minaccia di toglier la roba tua se non cooperi a fargli prendere la roba altrui, tu neppure puoi in ciò cooperare. Altrimenti poi sarebbe, se non cooperando tu a fargli prendere quella roba avessi tu a perdere la vita o la fama; perché allora stando tu in estrema necessità, è obbligato il prossimo a permetterti quella cooperazione circa la perdita delle sue robe, acciò tu non perda la vita o la fama1. Si osservi anche su ciò quel che si dirà al cap. X. n. 56.




3 Lib. 2. n. 27.



4 Lib. 6. n. 453.



5 L. 2. n. 27. v. An autem.



6 Ib. circa fin.



1 Lib. 2. n. 28.



2 Tr. 21. c. 6. n. 18.



3 Lib. 2. n. 29. v. Licet.



4 Luc. 11.



5 Lib. 2. n. 32.



1 Lib. 2. n. 36. et 39.



2 Cont. Tour. t. 3. p. 320. cum Hab. et Ant.



3 Tour. loc. cit. cum iisd. ex d. Thoma.



4 Lib. 2. n. 38. et 39.



5 2. 2. q. 33. a. 2.



6 Lib. 2. n. 37.



7 L. 2. n. 35., et l. 4. n. 13.



8 Lib. 2. n. 40. ex d. Thom. 2. 2. q. 8. a. 5.



9 Ibid.



1 2. 2. q. 43. a. 3.



2 Lib. 2. n. 45.



3 Lib. 2. n. 46.



4 N. 47.



1 2. 2. q. 78. a. 4.



2 Ib. ad 3.



3 2. 2. q. 45. a. 7. et 8.



4 Lib. 2. n. 50. et 52.



5 N. 51. et 53. v. Si ergo.



6 N. 55.



7 Lib. 2. n. 56.



8 N. 57.



9 N. 58.



10 2. 2. q. 78. a. 4.



1 Lib. 2. n. 55. et lib. 3. n. 572.






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