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S. Alfonso Maria de Liguori
Istruzione e pratica pei confessori

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Punto III. Dello stato e degli offici d'alcune persone secolari.

§. I. De' giudici e degli scrivani.

63. e 64. De' giudici. Quando il giudice possa condannare, o inquirere, o diminuir la pena. E se colla scienza privata possa giudicare.

65. Se può giudicare coll'opinione meno probabile.

66. Se può dividere col commissario lo stipendio; e se può ricever doni.

67. Se può ritenere il prezzo della sentenza ingiusta.

68. Degli scrivani.

63. In questo punto tralascieremo di porre molte cose che s'appartengono al foro; solamente qui noteremo quelle che spettano alla coscienza, e certe cose del foro più principali.

64. E I. circa i giudici, si noti per 1., che il giudice non può condannare alcun reo, senza che vi sia l'accusatore; eccetto che se 'l delitto fosse di lesa maestà, o di eresia, o pure se 'l reo fosse confesso in giudizio avanti due testimoni: o pure se 'l delitto fosse notorio, o ve ne fosse fama pubblica, contestata almeno per due testimoni. Acciocché nonperò possa il giudice inquirere, basta la sola fama, e bastano anche gl'indizi noti alla maggior parte del paese, o del vicinato; e basta anche la semipiena prova, come un testimonio degno di fede5. Si noti per 2., che il giudice inferiore non può diminuire la pena senza qualche urgente causa, come può diminuirla il supremo, sempre che v'è qualunque giusta causa6. Si noti per 3., che se 'l giudice sa privatamente, che alcuno è reo, ma giuridicamente quegli sta provato innocente, non può certamente condannarlo, secondo la sentenza comune con s. Tommaso7, perch'essendo il giudice persona pubblica, dev'egli procedere secundum allegata et probata, cioè secondo la pubblica scienza che si ha della causa. E così all'incontro dicono Sanchez, i Salmaticesi, ed altri collo stesso angelico, che se taluno è provato reo, ma il giudice sa ch'è innocente, è tenuto il giudice a condannarlo. Nulladimeno


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quest'ultimo molto probabilmente lo negano Silv., Less., Navar., Tol., Bonac., Holzm., Anacl., ec., poiché il condannare l'innocente sembra cosa intrinsecamente mala; siccome sarebbe ancora, se 'l giudice obbligasse una donna a coabitare con alcuno, che privatamente sapesse non esser suo marito. Così va nelle pene corporali; ma nelle pene pecuniarie, ed in tutte le cause civili, il giudice senza dubbio dee giudicare secondo quello che sta provato; Less., Lugo, Bon., Laym., ec.; mentre la repubblica per utile comune, che vi è nel doversi giudicare secondo la pubblica scienza, ben può trasferire i dominii de' beni1.

65. Si noti per 4. la propos. 2. dannata da Innocenzo XI., che diceva: Probabiliter existimo, iudicem posse iudicare iuxta opinionem minus probabilem. Giustamente fu ella dannata, perché il giudice è tenuto a contribuire a ciascuno il suo ius, e certamente ha maggior ius quella parte, che ha per sé maggior probabilità di ragioni. Quando poi la causa fosse egualmente probabile dall'una e dall'altra parte, se ella è civile, dee dividersi la roba; purché la causa non fosse di alcun pupillo, vedova, luogo pio, o matrimonio, perché allora questi debbono preferirsi. Se la causa poi è criminale, sempre dee favorirsi il reo quando vi sono ragioni probabili in sua difesa2. Ma si fa il dubbio, se nelle cause civili debba in dubbio favorirsi il reo che possiede la roba. È certo per 1., che dee favorirsi il possessore, se le ragioni sono eguali, così comunemente Soto, Silvest., Mol. e Sanch. con altri molti, per la reg. 65. de reg. iur. in 6., dove dicesi: In pari delicto, vel causa, potior est conditio possidentis. È certo per 2. all'incontro, che in dubbio così della proprietà, come del possesso, dee giudicarsi per chi ha ragioni più probabili a suo favore, come apparisce dalla dannazione della propos. riferita di sopra. E quando le ragioni fossero eguali, dee il giudice allora divider la roba, come si è detto, né può allora ricever niente da alcuna delle parti, per far la sentenza a favore di quella, secondo l'altra propos. 26. dannata da Aless. VII.3. La difficoltà è, quando è probabile la ragione del possessore, ma è più probabile la ragione dell'attore. In questo caso dice Tamburino, che dee giudicarsi a favor dell'attore; ma comunissimamente dicono il contrario Carden., Holzm. Elbel, Bonac., Filguera, Croix, ed un dotto moderno asserisce, questa esser sentenza comune; perché (come si è detto più volte, e specialmente al capo I. n. 20.) il legittimo possesso un ius certo a ritener la roba, finché non costa, che quella non sia del possessore; ed allora il giudice favorendo il possessore già giudica secondo l'opinione, non solo probabiliore, ma probabilissima, fondata nell'altra regola di legge (reg. 11. iuris), che dice: Cum sunt partium iura obscura (com'è appunto, quando non v'è certezza per parte dall'attore), potius favendum est reo, quam actori4.

66. Si noti per 5., che non può il giudice dividere col commissario lo stipendio che al commissario spetta, poiché il giudice è tenuto per officio ad eleggere il commissario5. Si noti per 6., che non può il giudice ricever doni dalle parti; e ciò è certo, se son doni di prezzo, chiamati dalle leggi sportulae. Ma si dubita per 1. Se possa il giudice ricevere gli esculenti e poculenti, chiamati xenia. Molti l'ammettono con Azor., Gaet., Silve., Aug., Menoch. appresso i Salmat.6 dalla l. Solet, §. Non vero, ff. de offic. proc., e dal cap. Statutum, §. Insuper. de rescrip. in 6., dove si permette il ricevere gli esculenti spontaneamente oblati, purché questi (come aggiunge la glossa) né direttamente, né indirettamente si cerchino. Ma lo negano i Salmaticesi7, Soto, Navar., ec., poiché in quanto alla l. Solet, ella è stata poi corretta nell'autentica al §. Scriptum, §. Iusiurandum.


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Ed in quanto al testo canonico, dicono, ch'egli corre solamente per li giudici delegati apostolici; ma questa risposta non persuade, mentre non sappiamo conoscere, che differenza vi sia fra questi e gli altri giudici; e la ragione che adduce la glossa del testo per la prima sentenza non è disprezzabile. Siccome (dice la glossa) non si stima simonia, se 'l prelato regolare riceve gratis qualche cosa da chi vuol esser ricevuto nella religione, come si ha nel c. Dilectus 30. de simon. in fin., dove dicesi: Illud tamen gratanter recipi poterit, quod fuerit sine taxatione (cioè del superiore) gratis oblatum; perché non si suppone, che 'l prelato per una cosa gratuitamente offerta voglia vendere l'ammissione alla religione, così non si suppone, che per un tenue dono voglia il giudice fare una sentenza ingiusta. Questa opinione nell'opera l'abbiamo riprovata1; ma facendo maggior riflessione, non sappiamo qui riprovarla. Almeno in ciò (come dice de Lugo2), non dee riprovarsi la consuetudine, dov'ella si trova legittimamente prescritta. Non si dubita poi, che i vescovi nella visita delle diocesi ben possono ricevere le spese moderate del vitto, come si ha nel c. Romana §. Procuratores, de censib. in 6.

67. Si dubita per 2., se 'l giudice dopo aver fatta la sentenza ingiusta per lo danaro ricevuto dalla parte, sia tenuto a restituirlo in coscienza, prima della condanna. Altri probabilmente l'affermano, come Soto, Medina, ec. Altri nondimeno come Lessio, con s. Anton., Navar., e Lugo, con Mol., Vasq., Reb., ec.3 (ed i Salmat. chiamano quest'opinione egualmente probabile) anche probabilmente lo negano, poiché secondo la legge naturale, posta ch'è l'opera mala promessa, giustamente se ne riceve il prezzo, come si disse al capo X. n. 12. Oppongono i contrari la l. 26. ff. de verb. oblig., e la l. Pacta 6. de pactis, dove si dice: Pacta contra leges, vel bonos mores, nullam vim habent: di più oppongono il cap. Statutum §. Si quid, de rescript. in 6., dove si comanda la restituzione del prezzo ricevuto, e ch'ella non possa rimettersi. Ma risponde Lessio, che le suddette leggi, sebbene irritano i patti turpi, sì ch'essi non inducano alcun obbligo prima di porsi l'opera mala promessa, dopo non però che l'opera è posta, tolgono bensì a tali patti ogni azione in giudizio, ma non tolgono (almeno non espressamente) l'obbligo naturale, né irritano l'acquisto del prezzo. Ed ancorché vi fosse legge, che comandasse la restituzione prima della condanna, almeno si richiederebbe la sentenza declaratoria, secondo quel che si disse al cap. II. num. 29.4.

68. II. Circa gli scrivani, intendendo di coloro ch'esaminano i testimoni, e notano gli atti giudiziari, e ne danno alle parti le copie autentiche; questi peccano, se alterano o diminuiscono le deposizioni, o tralasciano di esaminare qualche testimonio già prodotto: se occultano alle parti qualche scrittura già presentata, o ne negano la copie: se essendosi perduta alcuna scrittura, ve ne suppongono un'altra finta. Di più peccano, se esigono lo stipendio oltre la tassa. Dicono in ciò nondimeno Lugo, Turrian., Salmat., e Coreglia, con Molina e Diana, che oggidì non peccano gli scrivani, se esigono qualche cosa oltre le tasse antiche, perché oggi son cresciuti i prezzi delle robe, onde non basta per vivere quello stipendio, che anticamente bastava5; e se la tassa antica oggi è ingiusta, dice Coreglia con Sanch. e Macado, che non obbliga neppure il giuramento di osservare la tassa. Del resto comunemente dicono tutti, che lo scrivano oltre il giusto prezzo non può ricevere altro dalle parti, anche per titolo di dono, perché tali doni non sono mai spontanei: Navarr., Rodriq., Sal., ec. Se non però facesse qualche fatica straordinaria, o con incomodo straordinario, ben può allora ricever qualche cosa di più. Se poi il commissario, andando


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ad eseguire più commesse, possa esigere lo stipendio giornale da ciascuno de' debitori, l'affermano Lugo e Lessio1, a simiglianza del corriere, che portando la lettera ad un luogo per uno può esigere la stessa mercede da un altro, siccome si è detto al capo X. n. 210. Ma ciò lo negano Sanchez, Tanner., Diana, Salmat., ec., dicendo, che il salario giornale non si al commissario per lo numero delle esecuzioni, ma per la sua opera di ciascun giorno, eccettoché se per lo numero delle esecuzioni la fatica fosse straordinaria2. Ma perciò qui bisogna distinguere, perché Sanch. ed i Salmaticesi parlano, quando al commissario sta tassato lo stipendio per l'impiego di ciascun giorno; ed allora certamente egli (come concede anche Lugo) non può esigere più di quello. Ma quando le commissioni fossero disparate, e fosse assegnato salario speciale per ogni commissione, giustamente dice allora Lugo, che può il commissario esigere più salari, secondo sono le esecuzioni; e questo è quel che sente ancora Lessio.

§. II. Degli avvocati e procuratori.

69. Se i monaci e chierici possano far gli avvocati. E quando l'avvocato è tenuto a difendere.

70. Quali cause può difendere, e per quale salario ecc.

71. Se la causa è ingiusta ecc. Se si conviene del salario in mezzo alla lite, o si pattuisce de quota litis.

72. De' procuratori, se hanno l'avvocato gratis. Se essi si offeriscono ecc.

69. Ed in primo luogo circa gli avvocati si noti per 1., che a' monaci ed a' chierici in sacris è vietato il patrocinare altre cause che le proprie, o de' congiunti, o delle persone miserabili (vedi ciò che si è detto al n. 60.). Si noti per 2., che nelle cause criminali l'avvocato può difendere i rei anche colpevoli, perché il reo sempre può lecitamente procurare di evitar la sua pena, finché non è condannato, o almeno convinto; ma nelle cause criminali che sono dubbie, non può l'avvocato difendere gli attori3. Si noti per 3., che l'avvocato è tenuto a patrocinare chi sta in estrema necessità, anche con suo incomodo grave (ma non gravissimo), quando non apparisce altro rimedio; Sanchez, Castrop., Salmat., ed altri comunemente con s. Tommaso4. Nelle necessità poi gravi anch'è tenuto a difendere i poveri, ma non con grave incomodo; s'intende sempre ch'egli ha il superfluo al suo stato. Nelle necessità comuni, basta che dia loro qualche cosa del superfluo5.

70. Si noti per 4., che l'avvocato certamente può difendere le cause egualmente probabili, o sieno degli attori, o de' rei; e trattandosi de' rei, anche le meno probabili. Il dubbio è, se possa patrocinare la causa dell'attore, ch'egli conosce esser meno probabile. Altri lo negano, ma probabilmente colla più comune l'affermano Lugo, Azor., Sanch., Busemb., ec., perché quella causa, che all'avvocato allora pare meno probabile, può forse apparire al giudice, o farsi appresso più probabile. È tenuto non però allora di far nota al suo cliente la minore probabilità che tiene la sua causa6. Si noti per 5., che se 'l prezzo del salario è già convenuto, e 'l cliente lascia di proseguir la lite, ben può l'avvocato pretendere l'intiero salario, come giustamente dicono i Salmat. con Sairo, a simiglianza di quel che si disse de' servi al capo VII. n. 7. ad 4. Ciò nondimeno s'intende, purché non sopravvenisse giusta causa di sospender la lite7. Si noti per 6., che se l'avvocato conviene col cliente d'un salario annuale per tutte le di lui cause, ben può esigerlo, ancorché non occorresse alcuna lite; mentreché se poi occorrono più liti, egli non può pretendere maggior prezzo, purché non vi fosse qualche fatica straordinaria. Se poi l'avvocato stesse infermo per lungo tempo, nel mentre che già occorrono le cause, dev'egli almeno per quel tempo rimettere il salario8.

71. Pecca l'avvocato per 1. se difende o prosiegue a difendere una causa


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certamente ingiusta in quanto alla proprietà, quantunque fosse giusta in quanto al possesso, perché conforme il reo non può allora ritener la roba, così egli non può difenderlo. Se poi la causa è ingiusta, è tenuto l'avvocato a restituire i danni così alla parte contraria, come al suo cliente, se a costui era ignota l'ingiustizia. E perciò è obbligato prima di prender la causa a bene esaminarla, ed a far nota al cliente la qualità e lo stato di quella1. Pecca per 2. se conviene del prezzo, mentre si sta facendo la lite, come si ha dal c. Infames. 3. q. 7. Egli dee convenire del salario o prima o dopo, perché convenendo in mezzo alla lite, facilmente può esser costretto il cliente a contentarsi d'un prezzo esorbitante. Se non però il salario fosse certamente giusto, i Salmaticesi con Navarro non sanno condannarlo2. Tanto più pecca l'avvocato, se pattuisce de quota parte litis, v. gr. della terza o quarta parte, se la lite si vince per la l. Sumtus, ff. de pactis, e l. Litem c. de procur. Poiché allora v'è il pericolo d'impiegarsi a vincere o per fas o per nefas. Ma se 'l prezzo fosse anche certamente giusto, neppure lo condannano alla restituzione Lugo, Navarr., Laym., Filliuc., e Sanchez, con Henriquez, poiché dicono, che per lo patto, non sarà tenuto già allora il cliente a pagare il prezzo convenuto, perché tal patto è riprovato dalle leggi; ma non perciò sarà tenuto l'avvocato a restituire il ricevuto3. Pecca per 3. se prende cause più di quelle, a cui può competentemente attendere, se non lo fa noto a' clienti. Pecca per 4. se rivela alla parte contraria i segreti della parte che difende, purché (alcuni limitano) altrimenti l'altra parte non dovesse patirne ingiustamente grave danno; ma questa limitazione altri non l'ammettono con s. Tommaso4. Pecca per 5. se si serve di cavillazioni, o dilazioni incompetenti. Dice nondimeno su ciò Sanchez5 con Silv., Armil., Covar., Tabiena ec., che se la sua causa è manifestamente giusta, purché non alleghi niuna cosa falsa, ben può servirsi di cavillazioni (meglio direi di mendicante dilazioni) per ovviare all'ingiuste cavillazioni del contrario; cita anche s. Tommaso6, il quale dice così: Advocato licet prudenter occultare ea, quibus impediri posset processus eius. Se poi la causa non fosse manifestamente, ma solo probabilmente giusta, io non saprei come permettere le dilazioni impertinenti, delle quali alcuni indifferentemente si servono, chiamandole governo di causa; se non nel solo caso che probabilmente si temesse dell'ingiustizia della sentenza, per esservi qualche giudice troppo appassionato per rispetti umani a favore della parte contraria.

72. Circa i procuratori si noti per 1., che se il procuratore ha l'avvocato, o scrivano, il quale lo serve gratis a solo suo riguardo, ben può esigere il prezzo a coloro dovuto; altrimenti poi se quelli rimettono il salario a riguardo del cliente. Si noti per 2., se 'l procuratore sostituisce altro procuratore, ben può dividere con lui il salario, purché l'ammonisca di ciò che dee farsi, e prenda in sé il pericolo della causa, nel caso che quella per negligenza dell'altro si perdesse. Si noti per 3., quel che dicono alcuni, cioè, che 'l procuratore non può prendere il salario, s'egli si offerisce ad assistere alla causa, almeno quando il cliente è parente, o amico. Ma io non saprei liberare il cliente da ogni peso di soddisfazione, se non costasse, che 'l procuratore abbia voluto donare tutte le sue fatiche, e ch'egli abbia accettata tale donazione; altrimenti il procuratore sempre ha diritto alla mercede che merita7.

§. III. Dell'accusatore, de' testimoni, e del reo.

73. Degli accusatori. L'accusa e dinunzia quando debban farsi. Se i custodi ecc.

74. Quando i chierici possono accusare. E se debba premettersi la correzione. Specialmente se si sta in comunità.

75. De' monitorii.

76. Della dinunzia degli eretici.

77. Delle bestemmie ereticali.

78. Delle superstizioni.


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79. De' testimoni. Quando son tenuti ecc.

80. Chi lascia di dir la verità.

81. Chi occulta la verità.

82. De' rei. Quando il reo sia tenuto a confessare.

83. Se quando la pena è grande.

84. Se impone a sé un delitto falso.

85. Se impone un delitto falso all'accusatore.

86. Se il reo può resistere, e se sia tenuto a fuggire, ecc.

87. Se può romper la carcere; e se corrompere il custode. Se gli altri possono aiutarlo ecc.

73. E I. Circa l'accusatore scrivono molte cose i dd. che si possono osservare nell'opera; ma perché elle si appartengono più al foro che alla coscienza, qui le tralasciamo; noteremo solamente certe cose più speciali. Si noti per 1., che altra è l'accusa, altra la dinunzia giuridica, altra la dinunzia evangelica, o sia paterna. L'accusa è quella che si fa al superiore come giudice, acciocché il reo sia punito, con obbligo di provare il delitto, e d'incorrer la pena, se quello non si prova. La dinunzia giuridica si fa al superiore anche come giudice, ma senza obbligo di provare il delitto. La dinunzia poi evangelica, o paterna, è quella che si fa al superiore come padre. Si noti per 2., che quando si tratta d'evitare il danno comune, ciascuno è tenuto ad accusare il delinquente, come quando il delitto fosse di ribellione, d'eresia, o di ladroneccio nella via pubblica, e simili: ed in questi casi, come dice Sanch., può qualche volta il giudice giustamente anche obbligare l'offeso a dichiarar l'offensore, affinché si ripari al pubblico danno. Dicono nondimeno Soto, Gaet., Sanch., Lugo, Salm., ec., che ordinariamente basta far la dinunzia, perché di ciò ben sono contenti i superiori1. Un tal obbligo corre anche quando si tratta d'evitare il danno dell'innocente, sempre che non vi fosse grave incomodo del dinunziante. Quei non però che sono stipendiati dalla repubblica, o da' padroni ad accusare, o dinunziare i delinquenti, son tenuti a ciò anche con grave incomodo, altrimenti debbono soddisfare il danno che avviene dall'omissione della dinunzia. Si dubita se i custodi de' campi, o delle gabelle, non dinunziando, sian tenuti a pagare il valor della pena, che dinunziando si sarebbe esatta. Molti come Soto, Mol., Laym., ec., l'affermano. Ma molti altri più comunemente lo negano, come Azor., Less., Lugo, Sanch., Navarr., Salmat., ecc., perché (come dicono) essi peccano bensì contro la giustizia legale, ma non contro la commutativa a rispetto della pena, mentre il fisco o i padroni non acquistano ius alla pena, se non dopo la sentenza; tanto più che 'l fine della legge non è altro, che i padroni restino indenni; onde basta che i custodi restituiscono il solo valore delle gabelle, che doveano pagarsi, o del danno fatto2.

74. Si noti per 3., che quando si tratta di riparare il danno proprio, o de' congiunti sino al quarto grado, o della chiesa, lecitamente i chierici possono accusare i delinquenti, anche nelle cause di sangue; purché facciano l'espressa protesta di non pretendere la pena corporale, ma la sola soddisfazione del danno3. Si noti per 4., che quando il delitto ridonda in danno comune, benché sia occulto, dee dinunziarsi senza premettere la correzione, specialmente s'è delitto d'eresia, come si ha dalla propos. 5. dannata da Alessandro VII. Se poi il delitto ridondasse in danno del solo delinquente, dee premettersi allora la correzione secondo l'evangelio; ma se quella non giovasse, sebbene nell'evangelio si dice, che dee replicarsi avanti uno o due testimoni, nulladimeno, standosi in qualche comunità religiosa, dice s. Tommaso4 con s. Agostino, che allora è spediente dinunziare il delitto al prelato prima che agli altri; perché (dice il s. dottore) Praelatus magis potest prodesse, quam alii5. Anzi l'angelico in altro luogo6, avverte, che quando il religioso vede, che la correzione riuscirà più utile fatta per mezzo del prelato che per sé, allora ben può egli dinunziare subito il delinquente al prelato; poiché nella correzione segreta


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è più principale il fine dell'emenda del fratello, che la conservazione della di lui fama; e lo stesso dicono s. Bonav., s. Anton., Sanch., Soto, Castrop., Laymann, ec.1. E soggiungono ragionevolmente Laymann, Sanch., e Suarez, che quando il delitto (o sia grave, o leggiero) non è ancora emendato, e si teme di ricaduta, sempre sarà meglio il dinunziarlo da principio al prelato, che si giudichi prudente (come deve ordinariamente stimarsi, se non costa il contrario), il quale sempre meglio che altri può riparare; tanto più che tutt'i delitti de' particolari nelle comunità religiose (come dice il p. Suarez) ordinariamente ridondano in danno comune, o per lo scandalo, o per l'infamia che può patirne la religione. Onde giustamente da' pontefici fu approvata la regola della compagnia di Gesù, che possa ciascun religioso riferire il delitto al superiore senza premettere alcuna correzione2.

75. Si noti per 5., che quando per editto, o sia monitorio pubblico, si comanda il dinunziare qualche delitto, non v'è obbligo di dinunziarlo, se non quando il delinquente è diffamato, o almeno è indiziato, o pure quando è in danno della comunità, o del terzo: ma con questa differenza, che quando il delitto è solo in danno del terzo, si dee premettere la correzione, e non v'è obbligo di far la dinunzia con danno proprio; ma quando il delitto è in danno comune, è tutto l'opposto; allora non v'è obbligo di premetter la correzione, ed all'incontro ciascuno è tenuto a dinunziare anche col proprio danno3. Ciò occorre de' monitorii in generale, ma parlando de' monitorii particolari, secondo si piglian comunemente, per cui si fulmina la scomunica dal vescovo (come concesse san Pio V. nella bolla Sanctissimus) contro chi tiene ingiustamente, o non rivela tra un certo termine chi tiene qualche roba furata (s'intende di notabile valore), o ritrovata; in ciò deve avvertirsi coll'Istruttore de' confessori novelli, e con Barbosa4, il quale cita altri aa., quasi comunemente uniformi, che non ha obbligo di dinunziare 1. Il medesimo ladro. 2. Chi sa il ladro, ma non può dinunziarlo senza grave danno proprio. 3. Chi non può essere astretto a far testimonianza, come il figlio, la moglie, il genitore, e lo stesso dice l'istruttore suddetto con Bonacina di tutti i congiunti in quarto grado, e di tutti coloro che son della stessa famiglia di colui che tiene la roba; ma non iscusa i servi, sempre ch'essi possano lasciare il servizio senza grave danno. Gl'infami non però, sebbene non fanno fede, nondimeno son obbligati a dinunziare. 4. Chi è solo a sapere il fatto, e non può avere altro testimonio a provarlo. 5. Chi non lo sa per certa scienza, o pure chi l'ha inteso da persone di poca fede, o non si ricorda da chi l'ha inteso; o pure se l'ha saputo da chi già l'ha dinunziato. 6. Chi giustamente si fosse compensato per lo suo credito. 7. Chi in tempo del monitorio era fuori della diocesi, ma non già chi esce da quella prima del termine prescritto nel monitorio. 8. Chi ha saputo il delitto per segreto naturale commesso, o promesso. Dicono non però alcuni canonisti appresso Riccio5, come Felino, Abbat., Ripa, ec., che i laici son obbligati a rivelare il ladro, ancorché l'abbiano saputo per segreto: ma comunemente i teologi, Scoto, Suarez, Azor., Salm., Navarr., Filliuc., Arag., ec. con san Tommaso6, insegnano l'opposto. Può farsi poi il monitorio anche per la rivelazione di scritture autentiche occultate, quantunque non siano della parte, ma d'un terzo; purché questo terzo non sia in causa, come dice il medesimo istruttore, per lo c. 1. de probat.

76. Si noti per 6., che vi è l'obbligo di denunziare gli eretici, se questi son solamente sospetti d'eresia, come sono i confessori sollecitanti ad turpia, quei che commettono sortilegi, quei che si abusano de' sagramenti, quei che prendono


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due mogli, quei che amministrano sagramenti senza esser sacerdoti (altri aggiungono i confessori che rivelano il sigillo, ma ciò più comunemente lo negano Lugo, Molin., Bonac., Salmat., ecc.): di più quei che pronunziano bestemmie ereticali. Tutti questi debbono dinunziarli con grave danno proprio. E probabilmente, come dicono Lezana, Bordone, Diana, Homob., ec., sono anche scusati dal dinunziare tutt'i congiunti sino al quarto grado, perché in ciò v'è sempre un grave danno, o incomodo. Altrimenti poi, se sono eretici formali, come dee tenersi con Suar., Salm., Fel. Potestà, ec., contro altri, perché l'eresia è una peste, che sempre ridonda in danno comune. E perciò questi debbono dinunziarsi anche col proprio danno: e non solo da' fratelli, ma anche dalle mogli, da' figli, e da' genitori, secondo la sentenza comunissima di Azor., Bon., Ronc., Salm., Diana, Viva, ec.1.

77. Si noti per 7., specialmente circa le bestemmie, o siano proposizioni ereticali, che quando elle son pronunziate avvertitamente e seriamente, v'è obbligo di dinunziarle fra lo spazio d'un mese, come dice il nominato Istruttore, contro i Salmaticesi, i quali dicono tra sei giorni; ma i Salmaticesi, parleranno per le leggi particolari della Spagna. Si è detto avvertitamente, e seriamente, perché non v'è obbligo di dinunziare le proposizioni, o bestemmie dette per ignoranza, o per trascorso di lingua, o vero per tal empito di collera, ch'abbia trasportata la persona fuor di ragione: o pure dette senza pertinacia, la quale sempre è necessaria per l'obbligo di far la dinunzia, come dicono gli stessi Salmaticesi con altri2. Anticamente per lo concilio lateranese vi era l'obbligo di dinunziare ogni bestemmia anche semplice; ma come dicono Sanchez, Tambur., e Mazzot., oggidì quest'obbligo è andato in desuetudine, almeno come vogliono i Sal. con Bonac., Trullench., ec., cessa quest'obbligo, se 'l delinquente si emenda colla correzione3.

78. Si noti per 8., che, generalmente parlando, debbono anche dinunziarsi le superstizioni, quando sono qualificate, cioè quando son fatte con patto, o invocazione espressa del demonio, o con adorarlo, o con dire certi salmi o preci, con cui par che s'invochi il suo aiuto; o con abusarsi dell'ostie consecrate, del crisma, o dell'olio santo; o pure se ne sia seguito l'effetto. Si è detto, generalmente parlando, perché nel nostro regno, in quanto a' sortilegi de' secolari, per l'insinuazione fatta dal nostro regnante monarca Carlo III., non v'è obbligo di dinunziarli al tribunale ecclesiastico, se non quando vi fosse l'abuso dell'eucaristia, o dell'olio santo4. Si noti per ultimo, che contro coloro che colpevolmente omettono la dinunzia, v'è la scomunica, ma di ferenda sentenza; ed ella non è già riservata, come avvertono Bonac., Lugo, Fel. Potestà, ec.5.

79. II. Circa i testimoni, tralasciamo qui ancora quelle cose che spettano al foro. Notiamo solo per 1., che 'l testimonio non è tenuto a palesar la verità, come dice s. Tommaso6, se non quando è necessario per riparare secondo la carità qualche gran male della repubblica, o del prossimo, o per ubbidire al precetto del giudice, che legittimamente interroga, cioè colla prova semipiena della pubblicità del delitto, o d'indizi evidenti ec., altrimenti non è tenuto il testimonio a deporre quel che sa7. Come anche non è tenuto, quando v'è danno proprio, o de' suoi, o quando sa il fatto sotto segreto naturale, come dice s. Tommaso nel luogo citato art. 2., purché non sia necessario il rivelarlo, per evitare il danno comune, o per liberare il prossimo da qualche grave danno futuro8.

80. Notiamo per 2., che se alcuno avvertentemente


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testifica il falso, e la sua deposizione è causa del danno altrui, non si dubita, ch'egli sia tenuto a restituire tutto il danno1. Ma si dubita per 1. Se pecca, ed è tenuto alla restituzione il testimonio, che lascia di palesar la verità, nel caso ch'è obbligato a dirla per giustizia, o per carità. Bisogna distinguere: se costui sfugge d'esser citato, pecca contro la carità, ma non contro la giustizia, onde non è tenuto allora ad alcuna restituzione, come dicono tutti. Se poi sfugge dopo la citazione, l'obbligano alcuni a restituire il danno; ma più comunemente e più probabilmente lo negano Lugo, Less., Molina, Silvestro, e Bonacina, perché la citazione impone obbligo solamente d'ubbidienza, ma non di giustizia2.

81. Si dubita per 2. Se sia tenuto alla restituzione il testimonio, che interrogato legittimamente dal giudice occulta la verità, ma senza attestare il falso, dicendo, che non sa niente. Molti l'affermano con dire, che, posto il precetto del giudice, è tenuto per giustizia il testimonio a palesar la verità. Ma probabilmente lo negano Molina, Less., Bonacina, Lugo, Rainaudo, ed altri, per la stessa ragione di sopra, perché il precetto del giudice non obbliga i testimoni a deporre per giustizia, ma solo per ubbidienza. Dal che n'inferisce Ciera3 con de Ianuariis, che costui neppure incorre il caso riservato per chi giura il falso col danno del terzo, perché la riserva (come dice) riguarda chi depone il falso col mendacio positivo, ma non già col negativo. Dice nonperò Bonacina, che se 'l testimonio giura di manifestare quel che sa, allora è tenuto per giustizia a dir la verità a riguardo del giuramento promissorio che ha fatto. Ma a ciò probabilmente risponde Lessio, che il testimonio giurando di dir la verità non intende d'obbligarsi con obbligo di giustizia, ma solo di religione, la quale non obbliga a restituzione4.

82. III. Circa i rei, si noti per 1., che 'l reo non è obbligato a confessare il suo delitto, se dal giudice non è legittimamente interrogato, cioè (come si è detto) senza precedere semipiena prova, o infamia, o indizi manifesti del delitto. Dice s. Tommaso5: Aliud est veritatem tacere, aliud falsitatem deponere: quorum primum in aliquo casu licet: non enim aliquis tenetur omnem veritatem confiteri, sed illam solum, quam ab eo potest requirere iudex, puta cum praecessit probatio semiplena, etc. Ed anche in dubbio se 'l giudice interroga legittimamente il reo, non è tenuto a rispondere, poich'egli possedendo ancora il ius alla sua vita, e fama, in dubbio siegue a possedere il ius di conservarlo, finché non costa ella legittima interrogazione; così comunissimamente Soto, Less., Laym., Gaet., Sanch., Lugo, Navar., Busemb., Salm., contro Palud. et Silvest.6. Del resto, se non v'è speciale e positivo dubbio in contrario, regolarmente dee presumersi, che 'l giudice legittimamente interroghi.

83. Ma si dimanda per 1. Se 'l reo legittimamente interrogato prima della sentenza sia tenuto a confessare il suo delitto, soggiacendo ad una gran pena corporale. L'affermano Soto, Less., Sanchez., Salm., ec. con s. Tommaso7 perché il giudice, quando legittimamente interroga, ha ius di sapere la verità. Ma lo negano molti altri, come Suar., Lugo, Sa, Peyrin., Filliuc., Henriqu., Villal., Elbel, Busemb., ec., i quali stimano, non esservi questa legge così dura, e quasi impossibile alla debolezza umana, che uno sia tenuto a confessare il suo delitto, e condannarsi quasi da se stesso ad una gran pena (come sarebbe la morte, o la galera, o carcere perpetuo, o perpetua infamia ec.); se non fosse per riparare ad un danno comune, v. gr. d'eresia, ribellione ec. E s'è probabile ancora, che 'l giudice non ha ius d'esigere dal reo in tal caso la manifestazione della verità. La prima


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sentenza pare alquanto più probabile, ma questa seconda non possiamo chiamarla improbabile. Del resto comunemente dicono Sanch., i Salm., con altri, che 'l confessore in tal caso non deve obbligare il reo a confessare il delitto, quando vede che difficilmente potrà indurvelo, e sa, che quegli sta in buona fede1. Si è detto poi prima della sentenza, perché dopo quella è già finito il giudizio, onde il reo non è tenuto più a confessare, come dicono Laym., Sanchez, i Salmaticesi, ec. Anzi soggiungono, che ancora prima della sentenza non è obbligato il reo a palesare il suo delitto, se non è di nuovo interrogato. Ma a ciò più probabilmente contraddicono (generalmente parlando) Soto, Navar., Sayro, ed altri comunemente (come confessa Sanchez), perché prima della sentenza persevera il precetto del giudice2.

84. Si dimanda per 2. Se pecca gravemente l'innocente, che s'impone un delitto falso degno di morte, per evitare un gravissimo tormento. Lo negano Lessio, Soto, Tol., Silv., Busemb., ec., dicendo, che non v'è obbligo di conservar la vita con tanto peso, giusta quel che si disse al capo VIII. n. 2. in fine. N'eccettua solamente Busemb. con Tannero il caso, in cui dalla confessione falsa del delitto ne avvenisse un danno comune, o l'infamia d'una famiglia. L'affermano all'incontro molto più probabilmente Molina, Lugo, Navarro, e Covarr., e benché Lugo chiami probabile la prima sentenza per l'autorità de' contrari nulladimeno questa difende assolutamente. La ragione si è, perché quantunque l'uomo non sia tenuto a conservar la sua vita con mezzi troppo duri, tuttavia non può cooperare positivamente alla sua morte ingiusta, mentr'egli non è padrone della sua vita. Onde rettamente ne inferisce Molina, che 'l reo anche dopo la confessione è obbligato a ritrattarsi, sempre che possa con ciò impedir la sua morte. Ma qui dico similmente, come nel precedente quesito, che se 'l reo sta in buona fede, non deve obbligarlo il confessore a disdirsi, col pericolo che quegli per liberarsi dal tormento pecchi formalmente per non volersi disdire, e soggiacere al tormento3. Se nonperò il reo avesse dinunziato per complice un altro innocente, niuno dubita, ch'egli è obbligato sempre a rivocarsi, ancorché dovesse patirne qualsivoglia tormento4.

85. Si noti per 3., che non è mai lecito al reo, ancorché fosse innocente, l'imporre un delitto falso all'accusatore, o al testimonio, per difender la sua causa, com'è certo dalla propos. 44. dannata da Innocenzo XI. All'incontro è certamente lecito il manifestare un delitto occulto, ma vero, dell'accusatore, o testimonio, purché ciò sia assolutamente necessario a dimostrare la propria innocenza, e ad evitare un grave danno; così comunemente Sanchez, Milante, Ronc., Salmat. e Viva5; vedasi ciò che si è detto al capo XI. n. 7. E lo stesso dicono Sanch., Ronc., Salmat. e Coreglia, quando il delitto del reo fosse affatto occulto, perché deponendo il testimonio d'un delitto affatto occulto, è come testimonio d'un delitto falso. E ciò, come soggiungono Lugo, Milante e Viva, corre, quantunque il testimonio deponesse non ispontaneamente, ma costretto dal giudice6. Si noti per 4., che quando il delitto è eccettuato, è obbligato il reo a rivelarlo, ancorché non ne sia interrogato. All'incontro se il delitto non è degli eccettuati, non è tenuto il reo, né può rivelare i complici, sempre che il loro delitto è affatto occulto. Dicono nonperò Laym., Less., e Busemb., che se il reo costretto da' tormenti li rivelasse, non peccherebbe7.

86. Si noti per 5., che 'l reo ingiustamente condannato, non può già resistere a' satelliti, vim vi repellendo, con uccidere o ferire, come costa dalla propos. 18. dannata da Alessandro VII. Ma ben può resistere positivamente per liberarsi dalle mani de' birri, purché non vi sia scandalo, o grave perturbazione,


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com'insegna s. Tommaso1. All'incontro, se non ancora è stato condannato, ma già sta ritenuto in carcere: o pure s'è stato giustamente condannato alla morte (come dice lo stesso santo dottore2), allora non può positivamente resistere, ma può lecitamente fuggire dalla carcere, perché la sentenza condanna solo a non resistere, ma non già a non fuggire. E lo stesso dicono Soto, Tol., Gaet., Ronc., Salm., ecc., comunemente della pena di galea, o di flagellazione, o di carcere perpetua; purché la carcere non gli fosse stata assegnata in pena, come comunemente dicono i dd. Ma Lugo, Sanch., Less., Navarr., e Salmat. (contro Vasq., ec.) scusano i condannati, che fuggono dalla galea. Si dimanda poi, se possa il reo resistere, quando la sentenza fosse stata giusta secondo le prove esterne. Lo negano i Salmat. e Busemb., ma Lugo e Roncaglia non improbabilmente lo concedono, perché la presunzione deve cedere alla verità dell'innocenza, la quale ius alla difesa, purché possa ciò farsi senza scandalo e perturbazione, come di sopra si è detto3. Dicono poi alcuni, che il condannato a morte è tenuto a fuggire se può: ma ciò rettamente lo negano Soto, Silvestr., Sa, i Salm. ec., perché giustamente può egli rimanersi in carcere, specialmente se lo fa a fine di soddisfare al suo peccato4.

87. Potendo dunque il condannato fuggir dalla carcere, può anche probabilmente romperla; mentre a chi è permesso il fine, son permessi ancora i mezzi, come dicono Soto, Gaet., Nav., Lugo, Tol., Less., Salm. e Ronc. Né perciò è tenuto a soddisfare il danno della frattura, che avviene per accidente, come soggiungono i Salm. con Valenz., Bannez, e Sayro. Dicono di più i Salmat., Ronc., Tamb., ec., che può anche il reo corrompere il custode con danari; ma a ciò non so accordarmi, mentre non è mai lecito l'indurre il prossimo ad un'azione intrinsecamente mala, quale sarebbe al custode aprir la carcere col mancare al suo officio5. Essendo poi lecito al reo il fuggire, è lecito ancora agli altri il somministrargli le funi, le lime, o altri stromenti a poter fuggire, come insegnano Silvestr., Vasq., Gaet., Less., Lugo, San., Ronc., Salm., ec. contro Soto; purché la fuga, come giustamente limitano i Salmatic. e Roncaglia, non fosse nociva alla repubblica, v. gr. se 'l reo fosse ladro di via pubblica. A niuno all'incontro è lecito romper la carcere per liberare il condannato; Roncaglia e Busemb. colla comune6. Come debba portarsi poi il confessore coi condannati a morte, si osservi quel che si dirà al punto VIII. del capo ultimo.




5 N. 199. et 200.



6 N. 205.



7 2. 2. q. 67. a. 2.



1 Lib. 4. n. 208.



2 N. 210. Qu. 1.



3 N. 216. v. Sed hinc.



4 N. 210. Qu. 2.



5 N. 217. v. Certum.



6 Tr. 29. c. 1. n. 74.



7 N. 80.



1 Lib. 4. n. 211.



2 Disp. 37. n. 137. v. Quarta.



3 Less. c. 14. n. 55. Lugo disp. 37. n. 134.



4 Lib. 4. n. 216.



5 N. 230. et 231.



1 Lugo de iust. d. 37. n. 138. Less. l. 2. c. 24. n. 28.



2 Lib. 4. n. 217.



3 N. 222.



4 2. 2. q. 71. a. 1.



5 Lib. 4. n. 221.



6 N. 222.



7 N. 225. Not. 2.



8 Ib. Not. 3.



1 Lib. 4. n. 223.



2 N. 224.



3 Ib. v. Nec licet.



4 2. 2. q. 71. a. 3. ad 2.



5 Conf. p. 2. l. 6. c. 7. ad 9.



6 Cit. a. 3. ad 3.



7 Lib. 4. n. 233.



1 Lib. 4. n. 236.



2 N. 237.



3 N. 238. v. 4. Inimicus.



4 2. 2. q. 33. a. 8. ad 4.



5 Lib. 4. n. 242.



6 Quodl. 11. a. 13.



1 Lib. 4. n. 243.



2 N. 245. Qu. 3. et Qu. 4.



3 N. 248.



4 Instr. p. 2. ex. n. 265. et Barbosa de pot. episc. alleg. 96. ex n. 44. ad 67.



5 Lib. 4. in praxi de monit. n. 12. et 13.



6 2. 2. q. 70. art. 1. ad 2.



1 Lib. 4. n. 249. et 250.



2 N. 252. et vide etiam lib. 3. n. 123.



3 Lib. 4. n. 252. et 254. Not. II.



4 N. 253.



5 N. 254. Not. III.



6 2. 2. q. 70. art. 1.



7 Lib. 4. n. 261. ad 267.



8 N. 268.



1 Lib. 4. n. 270.



2 Ibid. dub. 1. et 2.



3 De cas. reserv. d. 7. n. 62.



4 Lib. 4. n. 270. dub. 3. Vide alia n. 272.



5 2. 2. q. 69. a. 2.



6 Lib. 4. n. 272. et 273.



7 2. 2. q. 69. art. 1. ad 2.



1 Lib. 4. n. 274.



2 Ib. in fin.



3 N. 275.



4 N. 276. ad 3.



5 N. 277. Resp. 2.



6 N. 277. v. Sed quid.



7 N. 278.



1 2. 2. q. 69. a. 4. in fin.



2 Ad 2.



3 Lib. 4. n. 281. v. Sed.



4 N. 281.



5 N. 282.



6 N. 283.






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