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S. Alfonso Maria de Liguori
Istruzione e pratica pei confessori

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Punto III. Della percezione dell'eucaristia.

§. I. Dell'obbligo di prendere l'eucaristia.

19. Del viatico, e quando debba prendersi.

20. Se l'inferno è vessato dal vomito.

21. Se dalla tosse. Del precetto pasquale se n'è parlato al Capo XII. Punto II.

19. In due tempi obbliga il precetto della comunione, nel tempo pasquale, ed in punto di morte. Della comunione pasquale già ne trattammo, parlando de' precetti della chiesa al c. XII. n. 39.; in quanto al viatico, diciamo qui che ciascun fedele è obbligato a prenderlo, sempre che sta in probabile pericolo di morte: come chi sta gravemente infermo con segni mortali: chi sta per entrare in qualche pericoloso conflitto, o navigazione: le donne che han soluto partorire con pericolo: o pure quelle che partoriscono la prima volta, e sono di tenera età o complessione: così comunemente i dottori con san Tommaso4.

20. Qui s'avverta che quando l'infermo patisse continuo vomito non può comunicarsi, se almeno per sei ore non è stato libero da quello, come dice Busemb.; e nel dubbio, meglio dice La-Croix contro d'altri, che non può darglisi la comunione; poiché dee aversi maggior riguardo alla riverenza del sagramento che all'utile dell'infermo. In quanto poi alla pratica, se 'l vomito è per cagione del cibo, allorché l'infermo lo prende dee farsi la sperienza con darglisi una particola non consagrata, e se la ritiene, allora ben può amministrarsegli la consacrata. E lo stesso dee farsi (come dicono i Salmaticesi) in caso di delirio, per vedere se l'infermo possa indi decentemente prendere il sagramento5.

21. Se poi l'infermo fosse vessato continuamente dalla tosse che l'obbligasse spesso a rigettar le flemme del petto, questi ben può comunicarsi; perché ciò non induce pericolo di rigettar la particola, poiché altro è il canale (cioè l'esofago)


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per cui si tramanda il cibo, altro il canale (ch'è l'asperarteria) per cui si cacciano le flemme, e si respira. Altrimenti poi se la tosse non permettesse neppure l'inghiottir la particola1. Della comunione da darsi a' fanciulli ed a' pazzi in punto di morte, anche già ne parlammo al suddetto capo XII. num. 43. e 44. In quanto dunque all'obbligo di comunicarsi, basta ciò che si è detto. Resta ora a vedere quali sieno le disposizioni necessarie per lecitamente comunicarsi. Elle sono due, una dell'anima, l'altra del corpo. Parleremo prima della disposizione dell'anima, poi di quella del corpo.

§. II. Della disposizione dell'anima.

22. Della confessione che dee premettersi.

23. Chi dopo la confessione si ricorda d'un peccato.

24. Quale necessità scusi dal confessarsi prima.

25. Se il sacerdote celebrando si ricorda del peccato, o della censura.

26. Se manca il confessore.

27. Se il peccato è riservato.

28. Se allora debba dirsi il riservato.

29. Se v'è scomunica.

30. Come s'intende Quamprimum.

31. Se tal precetto obbliga dopo la consagrazione.

32. Se obbliga chi celebra sacrilegamente.

33. Se obbliga i laici.

34. Se può comunicarsi chi dubita del peccato.

22. A chi vuol prender la comunione, e sta con coscienza di peccato mortale non basta che abbia la contrizione; ma gli è necessaria la confessione, purché non vi sia necessità di celebrare, o di comunicarsi, e manchi il confessore; poiché in tal caso gli basta la contrizione; ma s'egli è sacerdote ha obbligo di confessarsi quanto prima dopo la celebrazione: così fu dichiarato e stabilito dal tridentino2, dove si legge: Communicare volenti revocandum in memoriam eius (cioè dell'apostolo) praeceptum; probet seipsum homo. Ecclesiastica autem consuetudo declarat, eam probationem necessariam esse, ut nullus sibi conscius mortalis peccati quantumvis sibi contritus videatur, absque praemissa sacramentali confessione ad sacram eucharistiam accedere debeat. Dalle quali parole insegna la comune e vera sentenza3 di Suarez, Castropal., Lugo, Concina, Salmat., Tournely, ec. (contro Navarro ed altri pochi), che il precetto di premetter la confessione non è solo ecclesiastico, ma anche divino, mentre l'apostolo attesta nella sua epistola, cioè averlo ricevuto dal Signore: Ego enim accepi a Domino, quod et tradidi vobis4. Indi si soggiunge dal concilio: Quod a christianis omnibus, ab his etiam sacerdotibus, quibus ex officio incubuerit celebrare, haec s. synodus perpetuo servandum esse decrevit, modo non desit illis copia confessarii. Quod si necessitate urgente sacerdos absque praevia confessione celebraverit, quamprimum confiteatur.

23. Si è detto dunque per 1. che chi ha commesso peccato mortale, non può comunicarsi, se prima non si confessa. Dicesi mortale, perché i peccati veniali per quanti sieno, conforme non privano di accostarsi alla comunione. Se poi impediscano di conseguire il frutto di quella, si veda quel che si è detto al n. 7. Qui si dimanda, se chi ricordasi di qualche colpa grave dopo che già si è confessato col dolore universale de' peccati, sia tenuto a confessarla, ed a riceverne l'assoluzione prima di comunicarsi. Molti dd. l'affermano (e questa per altro è la sentenza più comune); così Suarez, Bonac., Coninch., Tournely, Concina, Salmat. ecc. N'eccettuano solamente, se alcuno non potesse permetter la confessione senza pericolo di scandalo o d'infamia. Ma molto probabilmente lo negano Garzia, Prepos., Ferrandino, Honorio, Fabri, Corneio, e Reginaldo, ed ultimamente di proposito difende questa sentenza il dotto continuatore di Tournely con Pontas, Gibert, ed Arriaga, e dice, che la prima sentenza non ha alcun sodo fondamento. Io non ardisco di asserire ciò, ma dico, che in verità questa seconda sentenza è molto consentanea alla ragione, secondo anche mi dissero il dotto mons. Torni, ed un altro dotto teologo esaminator sinodale della città di


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Napoli ed altri teologi, con cui cercai di consultar su questo punto prima di scriverlo. La nostra ragione si è, che chi ha permessa prima la confessione, già ha adempito il precetto di confessarsi prima della comunione, e già resta provato, come ordina l'apostolo; poiché per la confessione il peccato scordato è già indirettamente rimesso. Resterà bensì il penitente tenuto a sottomettere in avvenire quel peccato alle chiavi, per rendere intiera anche materialmente la confessione; ma frattanto non l'obbliga il precetto a riconfessarsi prima della comunione. Dicono i contrari che 'l precetto intimato dal concilio richiede la confessione non solo formalmente, ma anche materialmente intiera. Ma rispondiamo, che ciò gratis si asserisce, mentre il precetto altra confessione non richiede, che quella che 'l penitente è obbligato a fare, qual è appunto la formalmente intera; poiché con quella già s'ottiene il fine e l'effetto inteso dal precetto; cioè, che l'anima resti provata, e maggiormente assicurata della divina grazia; che più facilmente si acquista coll'assoluzione sagramentale, la quale colla sola attrizione cancella i peccati. Neppure osta in ciò la pratica de' fedeli che oppongono, perché questa non dee tenersi per regola certa d'obbligo, ma più presto come uso pio e lodevole, il quale per altro dee a tutti consigliarsi, sempreché non osti qualche causa in opposto1. Se poi alcuno, stando in dubbio di qualche colpa mortale commessa, o non confessata, sia tenuto a confessarla prima della comunione, si osservi ciò che si dirà al n. 34.

24. Si è detto per 2. esservi l'obbligo della confessione, purché non vi sia necessità di celebrare o di comunicarsi. Vediamo ora che cosa s'intenda sotto nome di necessità. Non s'intende già una gran divozione; e neppure la povertà del sacerdote, se non fosse una povertà molto grave, come dice La-Croix: ma s'intende una necessità urgente, come sarebbe 1. Se dovesse darsi il viatico ad un moribondo, secondo ammettono tutti2 2. Se non potesse lasciarsi la comunione senza grave infamia, o scandalo, v. g. se la persona si fosse già collocata nelle scanne de' comunicanti, donde non potesse partirsi senza essere notata dagli altri, come anche comunemente dicono i dd.3. Lo stesso sarebbe ancora, se portatosi già il viatico all'infermo, non vi fosse tempo di finir la confessione senza pericolo o della morte, o dell'infamia; perché allora, come rettamente dicono Roncaglia, Sporer, Busemb., Tambur., ec., il sacerdote, inteso che ha qualche peccato, dee assolvere il moribondo, con imporgli che appresso compisca la confessione, e dee dargli la comunione4. 3. Se 'l parroco dovesse celebrare per far sentir la messa al popolo, e non vi fosse altri che celebrasse, o se non potesse egli lasciar di dirla senza nota d'infamia. Ma ciò non è lecito agli altri sacerdoti stimati probi, come ben avvertono Lugo, Castrop., Aversa, Salmaticesi e Roncaglia (contro Diana), ancorché il popolo dovesse restar senza messa in giorno di festa5. E così anche diciamo con Suarez, Laym., Lugo, Bonac., Tournely, Concina ec. (contro Soto e Silvest.) che il sacerdote in giorno di festa più presto dee lasciar la messa d'obbligo, che celebrare senza la confessione; perché tal precetto ch'è divino dee preferirsi al precetto ecclesiastico d'ascoltar la messa6. Se poi possa taluno comunicarsi con la sola contrizione, quando manca il confessore, per adempire il precetto pasquale; l'affermano per altro comunissimamente Soto, Palud., Coninch., Henriq., Castropal., Lugo ec., per ragione, che 'l precetto pasquale anch'è divino. Ma pur anche lo negano Suarez, Tournely, Salmatic. ecc., dicendo, che allora il precetto della comunione pasquale non obbliga. Queste sentenze sono amendue probabili7.

25. Se accadesse che un sacerdote, mentre celebra, si ricordasse d'un peccato


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mortale (checché altri si dicano), dee distinguersi colla sentenza comune di Suarez, Vasq., Lugo, Castrop., Bonacina ec., che quando se ne ricordasse dopo la consagrazione, allora non dee interromper la messa per confessarsi, come insegna anche s. Tommaso1, e come sta espresso nella rubrica2. S'intende sempre col dover fare allora un atto di contrizione; e benché Lugo, Tamburrino, ed altri dicano, che se il sacerdote trovasse molta difficoltà a fare l'atto di contrizione in tale angustia di tempo, potrebbe allora senza colpa proseguir la messa, purché si sforzasse di farlo; nondimeno a ciò meritevolmente si oppone il p. Concina, mentre in tal caso già urge il precetto divino, ed all'incontro sappiamo che Dio non comanda cose impossibili, come dice il tridentino3, ma concede l'aiuto a fare, o almeno a cercar ciò che dobbiamo fare; onde se manca il sacerdote in far l'atto di contrizione, manca o per sua negligenza, o perché sta attaccato al peccato. Se poi se ne ricordasse prima della consagrazione, e specialmente se avanti il canone, allora dee confessarsi, se v'è confessore, e se può farlo senza nota d'infamia; e non importa che interrompa la messa, poiché tal parte è estrinseca al sacrificio4. E se non può confessarsi, e non v'è pericolo d'infamia, è più probabile, che sia obbligato a lasciare la messa, come dicono Lugo, Silvio, Tournely, Silvestro, ed altri; a' quali aderisce anche s. Tommaso5, dicendo esser questa l'opinione più sicura (contro Castrop., Suar., Navarr., s. Bonav., Victor., ec.); e questa sentenza è ancora più uniforme alla rubrica6, dove si dice: Si ante consecrationem recordatur sacerdos se esse in peccato mortali, aut se esse excommunicatum, vel suspensum, aut locum esse interdictum si non timetur scandalum, debet missam inceptam deserere. Abbiamo detto più uniforme, perché non è certo, che la rubrica colla parola debet imponga precetto grave. Del resto ben avvertono Vasquez, Laym., Castrop. e Tournely, che in tal caso difficilmente può accadere, che il sacerdote lasci di proseguir la messa senza nota d'infamia7.

26. Si è detto per 3. Se manca il confessore. S'intende per 1. se non vi sia alcun confessore presente, ed all'incontro il sacerdote che ha da celebrare non possa andare da altro assente senza grave incomodo, come dicono Castrop., Vasquez, Salmat. ed altri; assente poi s'intende, se 'l confessore stesse in luogo notabilmente distante, v. g. (come dicono) per due ore di cammino, ed anche meno (come dice Melchior Cano) se fosse breve il tempo in cui debba celebrarsi8. S'intende per 2. se non vi sia presente, che un confessore ignorante della lingua, o privato di giurisdizione, o pure tale, che 'l sacerdote non possa a lui confessarsi senza suo grave danno9.

27. Ma qui si dimanda per 1. Se chi ha un peccato riservato, e non v'è confessore che abbia la facoltà, debba confessarsi col confessore semplice per potersi comunicare. Si risponde: se costui non ha altro peccato grave fuori del riservato, è comune la sentenza, che non è tenuto alla confessione, ma basta che essendovi la necessità si comunichi colla contrizione; ma se avesse la sola attrizione, è obbligato a confessarsi d'altra materia, acciocché sia almeno indirettamente assoluto dal riservato. Se poi avesse peccati mortali riservati, e non riservati, diciamo colla sentenza comunissima e più probabile di Suarez, Castrop., Viva, Lugo, Concina, Salmaticesi, e d'altri (contro Vasquez, Tournely ec.), che costui è tenuto alla confessione perché stante il precetto di confessarsi prima della comunione, se non può farsi la confessione materialmente, almeno dee farsi formalmente intiera10.

28. Si dimanda per 2. Se posto che


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costui si confessi al confessore semplice, sia tenuto a spiegare così i peccati riservati, come i non riservati. L'affermano probabilmente Soto, Filliuc., Viva, Concina, Bonacina, Suarez, Salmatic. ec., poich'è necessario al confessore, che sappia tutta la coscienza del penitente, affinché possa giudicare s'è disposto o non per l'assoluzione, v. g. se abbia già contratto l'abito, se stia in occasione prossima ecc. Ma non meno, e forse più probabilmente lo negano Castropal., Gersone, s. Antonin., p. Soto, Alense, Salas, Ledesma e Lugo anche lo dice probabile; sì perché non pare esservi obbligo di dire i peccati a chi sopra quelli non può esser giudice, per non avervi giurisdizione; sì perché altrimenti il penitente avrebbe il peso di confessarsi due volte gli stessi peccati. E sebbene taluno nel caso che fosse abituato, come si è detto, e non avesse moral certezza della sua disposizione, sarebbe tenuto di manifestare tutta la sua coscienza al confessore, acciocché quegli giudicasse, se esso è capace o no dell'assoluzione; nondimeno ciò sarebbe per accidente, ma non per l'obbligo di fare la confessione materialmente intiera, mentre per sé parlando basta allora l'integrità formale1.

29. Se poi taluno avesse qualche scomunica riservata, e stando in necessità di comunicarsi, non vi fosse chi potesse assolverla, è comune la sentenza, che costui può comunicarsi prima che sia assoluto da quella, perché il precetto della comunione, il quale vieta i sacramenti agli scomunicati non obbliga, quando altrimenti non può evitarsi lo scandalo o l'infamia. Ma si fa il dubbio, se allora possa quegli confessarsi a chi non ha la facoltà su la scomunica. Lo negano probabilmente Silvio, Cano, Soto, Vasquez ec., dicendo, ch'egli può ben ricevere la comunione, sempre che ha la contrizione; ma non può pigliare il sagramento della penitenza il quale dalla scomunica gli viene interdetto. Ma più probabilmente l'affermano Suarez, Sanchez, Lugo, Coninc., Salmat. ecc., perché in tal caso di necessità, conforme la scomunica non priva del sagramento dell'eucaristia, così neppure priva del sagramento della penitenza, il quale da chi vuol comunicarsi si dee prendere sempre che si può, per osservanza del precetto divino che vi è di premetter la confessione alla comunione. E ben provano i suddetti aa. che validamente può taluno essere assoluto dal peccato senza essere assoluto dalla scomunica, giacché non può la chiesa, imponendo la censura irritare il valore de' sagramenti i quali dipendono dall'istituzione divina, ed intanto lo scomunicato, confessandosi invalidamente sarebbe assoluto dal peccato, perché sarebbe indisposto, essendogli proibito; ma quando la necessità l'esime da tal proibizione, allora validamente e lecitamente riceve l'assoluzione sagramentale2.

30. Si è detto in ultimo luogo, che se 'l sacerdote celebra con coscienza di peccato mortale senza la confessione, per causa della necessità, e perché non ha a confessarsi, ordina il concilio, che dopo la celebrazione quamprimum confiteatur. E questo non è consiglio, come dicea la propos. 38. dannata da Aless. VII., ma è vero e grave precetto. Supposto dunque tal precetto, si dimanda per 1. Come s'intenda la parola quamprimum. Alcuni l'intendevano, cum sacerdos suo tempore confitebur; ma questa insulsa spiegazione anche fu condannata nella propos. 39. dallo stesso pontefice. Altri l'intendevano, quando il sacerdote vuole di nuovo celebrare; ma quest'altra spiegazione anche è improbabile, mentre il concilio comanda la confessione precisamente dalla celebrazione, cioè ancorché il sacerdote volesse astenersi per quel tempo dal celebrare. Altri poi troppo rigidamente dicono, intendersi subitoché può aver il confessore, anche nello stesso giorno; così Wigandt e Concina. Ma colla sentenza comune giustamente dicono mons. Milante, Coninchio, Lugo, Escob., Viva, ed altri con


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La-Croix (il quale ne adduce anche di ciò una dichiarazione della s. c.), esser sufficiente, che 'l sacerdote si confessi fra lo spazio di tre giorni, a somiglianza dell'obbligo c'hanno quei che sono assoluti in pericolo di morte dalla scomunica riservata, di presentarsi al superiore, quam cito commode possint, come si dice nel c. Eos qui, de sint. excomm. (sotto pena di ricadere nella censura), il qual obbligo anche s'intende ben soddisfarsi fra tre giorni: Lugo, Garzia, e Milante. E lo stesso corre per l'obbligo di portare i libri degli eretici a' vescovi; Sanch., Ugolino, e Sairo. Avvertono non però i dd. di sopra citati, che in qualche caso per accidente può esser tenuto il sacerdote a confessarsi nello stesso giorno, e forse nella stessa ora, v. g. se 'l confessore dovesse presto andar lontano, o pure se 'l sacerdote avesse la stessa necessità di celebrare nel giorno seguente, in cui anche mancasse il confessore1.

31. Si dimanda per 1. Se questo precetto obbliga quel sacerdote, che celebra, ricordandosi del suo peccato dopo la consagrazione. Lo negano Vasqu., Pelliz., Lugo, e Diana, per ragion della rubrica2, la quale parlando di chi si ricorda prima di celebrare, dice tenetur confiteri quamprimum; ma parlando di chi si ricorda dopo la consagrazione, non dice altro che conteratur cum proposito confitendi. Questa sentenza non pare improbabile; ma è più comune, e forse più probabile la contraria di Suar., Molfes., Megala, Bonac., Regin., ec., perché già s'avvera allora il caso supposto dal concilio, che quegli celebra in peccato, e senza confessione, tanto più che in quel confitendi della rubrica facilmente sottintendesi la parola quamprimum, poco prima dalla rubrica già detta3.

32. Si dimanda per 3. Se questo precetto obbliga anche i sacerdoti, che celebrano sacrilegamente, o sia che hanno l'obbligo e la comodità di confessarsi, e celebrano senza la confessione. Alcuni anche l'affermano; ma la sentenza vera e comunissima lo nega con Suar., Vasq., Lugo, Filliuc., Sayro, Moya, ec., perché il precetto del concilio riguarda solamente coloro che in buona fede han celebrato, acciocché non differiscano la confessione col palliato pretesto della necessità di celebrare; ma non già i sacrilegi, a' quali un tal precetto non è profuturo; mentre chi disprezza il precetto divino, celebrando in peccato, più facilmente disprezza poi il precetto ecclesiastico di confessarsi quanto prima4.

33. Si dimanda per 4. Se questo precetto di confessarsi quamprimum obbliga ancora i laici, che si comunicano per necessità prima della confessione. L'affermano Azor., Nav., Concina, e Tournely, dicendo, che per li secolari corre l'istessa ragione, che per li sacerdoti, ed è regola generale che, ubi currit eadem ratio, ibi currit eadem legis dispositio. Ma è comunissima è più probabile la sentenza opposta di Wigandt, Coninch., Suarez, Vasq., Laym., Bonac., Filliuc., Lugo, il quale asserisce, che la prima e comunemente ributtata. La ragione si è, perché in verità non corre per i laici la ragione che vale per i sacerdoti; mentre i sacerdoti ordinariamente hanno maggior necessità di celebrare per evitar lo scandalo, che non hanno i secolari per comunicarsi5.

34. Si dimanda per 5. Se chi sta in dubbio di trovarsi in grazia possa ricever la comunione. A questo dubbio abbiam risposto nell'opera6, che, parlando per sé, chi sta in dubbio d'essere in peccato, non può comunicarsi. Nulladimeno meglio poi riflettendo, parmi che debba rispondersi con maggior distinzione. Onde diciamo così. Se la persona dubita d'aver peccato o no mortalmente, allora lecitamente può accostarsi alla comunione senza premettere la confessione, o che 'l dubbio sia negativo, o sia positivo (bastandole,


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per ricever più sicuramente il frutto del sagramento, che solo premetta l'atto di contrizione): perché il precetto dell'apostolo, probet autem seipsum homo, per cui s'intende imposta la confessione, come ha spiegato il tridentino, lega solamente coloro che sono conscii, cioè certi del peccato mortale commesso, e non ancor confessato, come ha dichiarato lo stesso concilio1, dicendo: Ut nullus sibi conscius peccati mortalis ad eucharistiam accedere debeat. Sicché il precetto della probazione non comincia a possedere, se non dopo che l'uomo è fatto già conscio della sua colpa. Se all'incontro l'uomo è certo del peccato mortale commesso, allora non può comunicarsi se non è certamente provato colla confessione, perché allora certamente possiede sovra di lui il precetto della probazione; ond'egli col dubbio negativo, o positivo, se ha ricuperato o no la grazia già perduta (v. gr. quando dubita se la confessione è stata nulla per difetto di disposizione o giurisdizione, o se dubita della sua contrizione in caso ch'abbia necessità di comunicarsi), non può ricever la comunione, perché allora fa contro il precetto che richiede la pruova, non solo probabile, ma certa, siccome è stato certo il peccato. Ma a questo potrebbe alcuno opporre la sentenza comune addotta nel capo I. n. 17., che basta la soddisfazione probabile per adempire i precetti. Ma a ciò ben risponde Roncaglia2, che la suddetta sentenza ha luogo quando si tratta di ripetere un'opera già probabilmente soddisfatta; poiché non si presume che il legislator voglia obbligare a soddisfare le sue leggi con tanto rigore di dover replicare le opere già probabilmente adempite; ma non già quando si tratta che la persona debba e possa senza suo molto gravame astenersi dal fare qualche opera, prima di esser certo di aver adempita la condizione imposta dalla legge, che possiede, perché in ciò non si presume alcuna connivenza del legislatore; e così avviene nel presente caso.

§. III. Della disposizione del corpo.

35. Del digiuno naturale. In dubbio del digiuno. Se son diversi orologi. Frange il digiuno ciò che si prende da fuori.

36. Delle reliquie de' cibi.

37. Delle reliquie d'acqua, del zuccaro, ecc.

38. Del tabacco preso per naso.

39. Preso per fumo.

40. Del tabacco o aromi masticati.

41. Dell'acqua, o simile, mandata per le narici volontariamente, o a caso.

42. e 43. Se i capelli, pietre, carte, ecc. frangono il digiuno.

44. Chi senza aver digerito ecc.

45. Lo sputare dopo la comunione.

46. In quali casi non si richiede il digiuno, e I. nel viatico. Se può replicarsi il viatico.

47. E quante volte.

48. Se chi si è comunicato pochi giorni prima per divozione ecc.

49. Chi la stessa mattina.

50. Se possono lasciarsi le parole Accipe viaticum.

51. Se possa celebrarsi senza digiuno per dare il viatico.

52. Per II. non si cerca il digiuno, se si teme dell'ingiuria del sagramento.

53. Per III. se si teme scandalo. Se il celebrante si ricorda di non esser digiuno.

54. Per IV. se dee perfezionarsi il sacrificio. Che dee farsi se si scopre l'errore del vino; e che in dubbio ecc.

55. Per V. se per evitare il pericolo di morte possa celebrarsi senza digiuno.

56. An pollutio impediat communionem.

57. An copula coniugalis.

58. Chi è sordido esternamente o leprosa, vel menstruata, o s'accosta immodestamente. Il sacerdote che si comunica a modo di laico.

35. Regolarmente parlando, per ricevere lecitamente la comunione (secondo il precetto della chiesa nel cap. Ex parte, de celeb. miss.) si richiede il digiuno naturale, cioè che la persona non abbia preso niente di cibo, o di poto, dal punto di mezza notte. Il dubbio non però di aver trangugiato qualche cosa dopo la mezzanotte, non impedisca la comunione, come si disse al capo I. n. 19., perché (come ivi si provò) questo precetto non è già positivo di andare digiuno alla comunione, ma è negativo di non comunicarsi dopo d'aver rotto il digiuno; onde sempreché non è certo che 'l digiuno è stato sciolto, non possiede già la proibizione, ma la libertà di chi vuol comunicarsi. E per questa ragione dicono comunissimamente


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Sanch., Lugo, Merati, Holzm., Croix, Salm., Quarti, Escob., Villalob., Trull., Fagund., ec., esser lecito fra molti orologi seguire l'ultimo, che suona l'ora di mezza notte: purché non costi dell'errore; e purché (ben soggiunge La-Croix) quest'ultimo orologio non sia tale, che per lo più erri, perché allora la presunzione è, che sia falso1. Ma qui si avverte, che il tempo di mezza notte non già termina, come vogliono i Salmaticesi ed altri, all'ultimo tocco dell'orologio, ma al primo, siccome rettamente dicono Lugo, Sanchez, Tournely, ec., e di ciò ne sono stato assicurato da un peritissimo maestro d'orologi2. Per la stessa ragione, poi, perché il precetto è negativo di non accostarsi alla comunione dopo aver preso cibo o poto, questo precetto, quantunque sia ecclesiastico, non ammette parvità di materia, com'è certo appresso tutti, checché si dicano Gibert e Pasqualigo3. A frangere questo digiuno, giusta le regole da' dd. assegnate comunemente, tre cose si ricercano. Che ciò che si trangugia, si prenda da fuori. 2. Che si prenda per modo di comestione, o di bevanda. 3. Che la cosa presa abbia ragione di cibo, o di poto. Sicché secondo la I. regola, per rompere il digiuno, dee prendersi qualche cosa dall'estrinseco, così Suarez, La-Croix, Elbel, Sporer, ec. da s. Tommaso4, il quale dice, che tutto quel che proviene dall'intrinseco, non può dirsi che si mangia, e perciò non offende il digiuno5. Posto ciò, ben può comunicarsi, chi trangugiasse il sangue che scende dalla testa, o che esce dalle gengive, ancorché lo facesse di proposito; così comunemente Suar., Laym., Bon., Cabassuz., Habert, Antoine, Salm., ec., checché si dica Tourn.; perché (come si è detto con s. Tommaso) ciocché non si prende da fuori, non si dice che si mangia6.

36. Ma qui si fa il dubbio, se frange il digiuno chi volontariamente inghiottisce le reliquie di cibo rimaste nella bocca. Suar., Quarti, Henriqu., Castr., Elbel, Coninch., ed altri affatto lo negano, dicendo, che tali reliquie moralmente si reputano come parte della comestione del giorno precedente; e par che molto aderisca a questa sentenza la rubrica del messale7, mentre dice: Si reliquiae cibi remanentes in ore transglutiantur, non impediunt communionem, cum non transglutiantur per modum cibi, sed per modum salivae. Altri non però più comunemente, come Vasq., Laym., Bonac., Tournely, Roncaglia, Cabass., ecc., l'affermano, quando tali reliquie di proposito si trangugiano perché allora ciò ha ragione di nuova comestione e di questa sentenza è anche san Tommaso8 che dice: Reliquiae cibi remanentes in ore, si casualiter transglutiantur, non impediunt communionem. Dunque (secondo l'angelico) se volontariamente s'inghiottiscono, impediscono di comunicarsi. Questa seconda sentenza sembra più probabile, benché la prima non la stimo improbabile; ma perché in ciò non dee andarsi troppo scrupolosamente, come ben avverte il p. Suar., volentieri abbraccio la sentenza del card. de Lugo, abbracciata ancora dal papa Benedetto XIV. nella sua opera della messa9, che le reliquie già staccate da' denti, che si sentono sulla lingua, queste debbono sputarsi; ma all'incontro non v'è obbligo di far diligenza d'estrarle da' denti, ancorché prevedasi che s'inghiottiranno, se non si estraono; mentre quest'obbligo sarebbe troppo soggetto agli scrupoli; e questo propriamente par che voglia dir la rubrica di sopra riferita, dicendo, che tali reliquie si trangugiano per modo di saliva10.

37. E lo stesso dee dirsi delle reliquie d'acqua, con cui si lava la bocca, le quali anche impediscono la comunione se s'inghiottiscono di proposito, ma non già se si trangugiano fuori d'intenzione; così comunemente Suar., Castrop.,


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Tournely, Holzmann., Salmat, ec. con s. Tommaso nel luogo citato, dove dice: Et eadem ratio est de reliquiis aquae, vel vini, quibus os abluitur, dummodo non traiiciantur in magna quantitate, sed permixtae salivae, quod vitari non potest. E lo stesso insegna la rubrica dicendo: Idem dicendum (cioè non frangersi il digiuno) si, lavando os, deglutiatur stilla aquae praeter intentionem. Dunque se l'acqua s'inghiottisce per intenzione, già si frange il digiuno1. Non si dubita poi, che rompe il digiuno chi si pone nella bocca qualche cosa di zucchero o di mele prima della mezza notte, e dopo quella poi l'inghiottisce. Lo stesso corre di chi trangugiasse il sangue succiato dal dito, o le lagrime scorse dagli occhi; così comunemente i dd. E lo stesso dicono di taluno, che cadendo nel fiume, o violentato da altri, trangugiasse l'acqua, o altra cosa potabile2.

38. Per la II. regola, a frangere il digiuno si richiede, che si prenda qualche cosa per modo di comestione, o di pozione; onde comunemente dicono Suar., Lugo, Concina, Holzmann, Roncaglia, Escob., Croix, Elbel, ed altri (checché si dicano alcuni pochi), che non offende il digiuno il tabacco preso per le narici, ancorché se ne trasmettesse a caso qualche porzione nello stomaco; per la ragione suddetta, perché tale trasmissione non è per modo di comestione, ma di attrazione; almeno dice Benedetto XIV. nella sua opera de synodo3, ciò è permesso per l'uso universale che vi è tra' fedeli. E qui si noti di passaggio quel che il medesimo pontefice ivi riferisce, cioè che Innocenzo X. ed Innocenzo XII. posero la scomunica a chi prendesse tabacco nella chiesa del vaticano; e la stessa impose Urbano VIII. per le chiese della Spagna, ma Benedetto XIII. tolse affatto queste proibizioni4.

39. Parimente il tabacco preso in fumo non frange il digiuno, come ancora comunemente insegnano Suar., Villal., Trullench., Salmat., Aversa, Holzmann, Viva, Croix, Sporer ec. col medesimo Benedetto XIV.5, il quale similmente attesta, che questa è la consuetudine odierna, confermata dal consenso comune de' dd. Limitano non però i Salmaticesi, e dicono, che frangerebbe il digiuno, chi di proposito tramandasse il fumo nello stomaco, dicendo, che questa sarebbe vera comestione, mentre tal fumo anche nutrisce in qualche modo; ma questa limitazione più comunemente e più probabilmente la negano Escob., Prepos., Marcanzio, Viva, Sporer, Renzi, Tamb., Diana, ecc., e la ragione è, perché il fumo né si prende per modo di cibo, come si dirà nella terza regola, né per verità è cibo in sé comestibile o manducabile, ch'abbia voluto la chiesa proibire; secondo il comun senso de' dd.6.

40. Parimente neppure frange il digiuno il tabacco, o gli aromi masticati, sempreché se ne rigetta fuori il sugo collo sputo; così anche comunemente Lugo, Holzmann, Bonac., Sporer, Coninch., Prepos., Trullench., Salmat., Viva, Renzi, ec., contro Henno, il quale vuol sostenere, che col masticare le suddette cose, sempre se ne tramanda porzione allo stomaco; e da ciò avviene (come dice) che si rigettino poi le flemme. Ma risponde il card. de Lugo, che per cacciar le flemme non è necessario, che 'l sugo scenda allo stomaco, ma basta che il tabacco si mastichi, poiché così s'immette allo stomaco la virtù di rigettar le flemme per mezzo de' nervi, che dalla bocca allo stomaco corrispondono. E ciò corre, come dicono Tannero, Lugo, Escob., Tamb., Viva, ec., ancorché si trangugi mischiato colla saliva qualche poco di sugo (purché non si faccia a posta); perché allora ciocché s'inghiottisce, non si trasmette per modo di cibo, ma di saliva. Anzi Lorichio scusa, ancorché se ne trangugiasse qualche granello intiero; ma giustamente ciò non l'ammettono Bonac. e Tamburrino. Altrimenti poi sarebbe,


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se s'inghiottisse qualche minima particella mischiata insensibilmente colla saliva, perché allora veramente si trasmetterebbe per modo di saliva. Del resto tutti convengono, che una tale masticazione è indecente alla comunione; onde non è immune da colpa veniale, se non v'è qualche causa che la scusi1.

41. Vogliono Suarez, Fagundez, Tambur., ec., che neppure franga il digiuno l'acqua tramandata allo stomaco per le narici, come si è detto del tabacco. Ma io ciò non l'ammetto, se taluno di proposito volesse ciò fare: ed intendo così dell'acqua, come del tabacco, e d'ogni altra cosa digeribile: perché sebbene l'azione in sé non è potativa o manducativa, ma solamente attrattiva, nulladimeno quando ella si fa di proposito, e s'ordina dalla persona a trasmetter nello stomaco il poto o cibo, allora per equivalenza veste moralmente la ragione di potazione o manducazione: poiché già v'interviene così la materia potabile o manducabile, come l'azione atta a conseguir lo stesso fine che ha la potazione e la manducazione2. Altrimenti poi, se si tramandasse a caso qualche cosa allo stomaco. E lo stesso dicono comunemente Navarr., Suar., Lugo, Habert, Conc., Ronc., Salmat., ec., di ciò che si trangugiasse per modo di respirazione, v. gr. un poco di polvere sparsa dal vento, un moschino, una goccia di pioggia e simile: se ciò si trangugia a caso, non frange il digiuno; ma lo frange, se si fa di proposito, perché allora diventa vera manducazione, o sia potazione3.

42. Per la III. regola, a frangere il digiuno si richiede, che la cosa abbia ragione di cibo, o di poto. Quindi si domanda, se l'inghiottir capelli, unghie, pietre, legni, carta, e simili, impedisca la comunione. Altri universalmente lo negano, come Ledesma, Busemb., Diana, Renzi, ec., avvalendosi della regola poco anzi detta, cioè che tali cose non han ragione di cibo, almeno perché secondo l'uso non sono riputati cibi. Altri all'incontro, come Laymann, Castrop., Wigandt, Ronc., e Salmat., universalmente l'affermano, dicendo, che la riverenza alla comunione esige, che prima di lei niente si tramandi allo stomaco. Ma la sentenza più comune, e che più mi piace, di Lugo, Concina, Tournely, Escob., Holzmann, Viva, Sporer e d'altri, distingue e dice, che non rompono il digiuno quelle cose, che non sono digestibili, conforme sono i capelli, il metallo, il cristallo, l'unghie ed i fili di seta o di lana, perché queste cosenutriscono, né hanno alcuna ragione di cibo. Citano gli avversari contro ciò s. Tommaso, ma noi abbiam provato nell'opera, che s. Tommaso in ciò non è contrario, almeno non è apertamente contrario4.

43. All'incontro ben frangono il digiuno tutte le cose che posson digerirsi, cioè quelle che alternandosi nello stomaco posson convertirsi in sostanza dell'uomo, come sono la carta, la paglia, i fili di lino, le polveri medicinali, la cera, perché questa ordinariamente ritiene qualche cosa di mele: e lo stesso dicono Lugo, Wigandt, Escob., Viva, e Mazzot., della terra o sia creta che soglion mangiare le donne, mentre in quella sempre si trova (come dicono) qualche cosa alterabile nello stomaco e nutritiva5.

44. Si noti per 1., che l'accostarsi alla comunione subito dopo aver mangiato (s'intende dopo la mezza notte), ma senza dormire, o senz'aver digerito il cibo, ciò non impedisce la comunione a riguardo del precetto del digiuno, come insegnano comunemente Suar., Giovenin., Bon., Soto, Nav., ec. Del resto ben avvertono Tournely e Concina con s. Tommaso6, che alle volte conviene astenersi dalla comunione a causa del torpore della mente, per la quale (come dice l'angelico) homo fit ineptus ad sumptionem huius sacramenti. Ma ciò non si dee intendere, che la persona debba privarsi della comunione, quando ella fa quanto può per liberarsi


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da quel torpore, ed andare divotamente a prendere il sagramento, specialmente se la vigilia o l'indigestione è provenuta da causa giusta o naturale, siccome diremo al n. 56. in caso simile1.

45. Si noti per 2., che lo sputare subito dopo la comunione non è colpa, sempre che non v'è sospetto ragionevole d'esser rimasto qualche frammento nella bocca; così Sanch., Azor., Bon., Wigandt, Holzmann e Croix da s. Tommaso. Lo stesso dice Holzmann del mangiare o bere subito dopo la comunione, poiché sebbene anticamente per lo c. Tribus, de consecr. dist. 2., dovea tirarsi il digiuno sino a sesta, nondimeno, come attesta s. Tommaso2, questo precetto sin da' suoi tempi era cessato. Del resto il fare ciò senza causa, mentre ancora esistono le specie sagre nello stomaco (come per un quarto d'ora parlando almeno de' sacerdoti) non si scusa da peccato veniale: così comunemente Suar., Aversa, Quarti, Croix, e Dicast. da s. Tommaso, il quale nel luogo citato soggiunge: Debet esse aliqua mora inter sumtionem huius sacramenti, et reliquos cibos. Si è detto senza causa, perché ogni giusta causa poi scusa, v. gr. se si desse il segno per cui il religioso dovesse andare a mensa, e simili3.

46. Vediamo ora in quali casi si può prendere la comunione senza il digiuno. Per I. si può, quando la comunione si per viatico in pericolo di morte. Si è detto pericolo, perché a ricevere il viatico non è necessario, né è bene aspettare il tempo, quando non v'è più speranza di vita, ma basta che vi sia il pericolo probabile della morte. Ed allora non si dubita da' dd., che possa prendersi il viatico più volte anche nella stessa infermità, mentre questo sagramento non solo dee prendersi per adempire il precetto, ma ancora per fortificarsi contro le tentazioni, che in morte sono più grandi e più pericolose. E ciò non solamente se sopravvenga nuovo pericolo, ma anche se dura lo stesso, come dicono comunemente Soto, Suarez, Toled., Laym., Silvest. con Benedetto XIV.4, il quale esorta i vescovi ad insinuare a' parrochi, ch'essi debbono amministrare il viatico nello stesso morbo sino a due e tre volte5.

47. Quel che si dubita è per 1. Quanto tempo debba interporsi tra una comunione e l'altra. Più comunemente Silvio, Concina, Tournely, Busemb., Salmat. ec., dicono otto giorni. Altri dicono sei, come Armilla, Filliuc., Diana, Possev. ec. E non improbabilmente s'avanzano a dire Laym., Escob., Roncaglia e Hurtad., che 'l viatico ben può replicarsi anche nel seguente giorno, quando l'infermo era già solito di comunicarsi spesso, ed allorché sovrasta moralmente il pericolo della morte; anzi Castropal., Armil., Tamb. e Dicast. ammettono universalmente potersi replicare ogni giorno6.

48. Si dimanda per 2. Se chi si è comunicato pochi giorni prima per divozione, sia tenuto a prendere il viatico, sopravvenendo il pericolo della morte. Altri colla sentenza più comune lo negano, ancorché la comunione sia preceduta per otto giorni: così Laymann, Suar., Conc., Roncagl., Bonac. ec., perché (come dicono) già la persona con quella comunione bastantemente si è apparecchiata alla morte, onde già ha soddisfatto al fine del precetto. Questa sentenza è sufficientemente probabile, almeno come dicono Suarez e Lugo, quando il pericolo della morte accade naturalmente, perché allora nel tempo della comunione fatta è già principiato moralmente a sovrastare il pericolo. Ma più probabilmente l'affermano Vasq., Castrop., Conc., Tourn., Hab., Diana, Salm. ec., perché questo precetto (ch'è divino) obbliga precisamente, quando attualmente preme il pericolo della morte; e conforme non può soddisfarsi il debito prima che si contragga, così non può adempirsi il precetto prima ch'egli


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cominci ad obbligare. Né vale a dire che con quella comunione già si è soddisfatto al fine del precetto, perché se ciò bastasse, basterebbe ancora per adempire il precetto pasquale, che uno si comunicasse nel giorno precedente alla domenica delle palme, ma ciò non può dirsi1.

49. Si domanda per 3. Se chi si è comunicato la mattina per divozione, debba o possa prendere il viatico, succedendo il pericolo della morte. Vi sono tre sentenze. La prima dice, ch'è tenuto, affin di soddisfare il precetto. La 2. dice, che non è tenuto, ma può comunicarsi; così Roncaglia, Gobato, Anacl., ec. La 3. dice, che non è tenuto, né può comunicarsi, essendo la pratica della chiesa, che niuno si comunichi nello stesso giorno due volte. Benedetto XIV. nel luogo citato2 dice, che di queste sentenze può il parroco seguitare quella che più gli piace, onde le tutte e tre per probabili. Del resto fra tutte a me pare più probabile la sentenza del cardin. de Lugo, il quale distingue e dice, che nel morbo violento, v. gr. di ferita o di caduta, ben può l'infermo comunicarsi: ma non già nel morbo naturale, perché colui che si è comunicato nella mattina, ed è già entrato nell'infermità (la quale nello stesso giorno poi si scopre mortale), moralmente ha presa la comunione per la morte, stando già moralmente costituito nel pericolo di morte, che già vi era, ma non si era manifestato. E lo stesso dee dirsi col p. Suarez dell'apoplessia, mentre questo morbo si giudica allora che già esisteva disposto nelle sua case3. S'avverta con Viva ed i Salmaticesi ec., che se l'infermo facilmente può ricevere il viatico col digiuno nel giorno seguente, è tenuto ad aspettare; purché frattanto non vi fosse pericolo di morte: o se non potesse osservarsi il digiuno anche nel domani, senza omettersi la medicina opportuna: o pure se dovesse portarsi il sagramento nel mezzo della notte. Del resto giustamente dicono Soto, Navar., Filliuc., Salmat. e altri comunemente, che in ciò non dee andarsi scrupolosamente, mentre il concilio costanziense4 assolutamente esime i moribondi dalla legge del digiuno5.

50. Si dimanda per 4. Se 'l sacerdote dando il viatico possa alcuna volta per giusta causa tralasciar le parole: Accipe, frater, viaticum corporis etc. Lo negano Clericato, Tambur., Quarti ec., per ragione che 'l rituale romano ciò espressamente lo prescrive; e Paolo V. parlando delle rubriche nel rituale prescritte dice: Inviolate observent. Ciò non ostante probabilmente lo permettono il p. de Aless.6, Tonellio e Pasqualigo, nel caso che l'infermo, prendendo la comunione per modo di viatico, l'avesse a prendere con gran tristezza e perturbazione d'animo; poiché a soddisfare il precetto non è necessaria l'intenzione d'adempirlo; ma basta che si ponga l'opera comandata, come si disse al capo II. n. 29. In quanto poi al rituale, rispondo, che quel precetto non riguarda tutte le cose ivi descritte, ma quelle sole, quas ecclesia, et probatus usus antiquitatis statuit, come parla la bolla. Almeno non può dirsi, che 'l precetto di proferire le mentovate parole induca obbligo grave, ma solo veniale, dal quale può scusare ogni giusta causa, quale sarebbe quella di sopra addotta7.

51. Si dimanda per 5. Se 'l sacerdote possa celebrare non digiuno, affin di amministrare il viatico. L'affermano probabilmente Concina, Maior. e Fernand., e questa sentenza l'ammettono già per probabile Lugo, Fill., Escob., Viva ec., perché in tal caso (come dicono) dee preferirsi il precetto divino, che obbliga l'infermo a prendere il viatico, all'ecclesiastico, che obbliga il sacerdote ad astenersi dal celebrare dopo rotto il digiuno. Ma comunissimamente e più probabilmente lo negano Soto, Silv., s. Antonin., Suar., Lugo, Nav.,


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Busemb., Salmat., Tournely ec., perché il precetto di non celebrare dopo la comestione anch'è divino in sostanza, per ragion della riverenza dovuta al sagramento. Né vale a dire, che lo stesso precetto il quale permette all'infermo di comunicarsi senza il digiuno, permette ancora al sacerdote non digiuno di celebrare, acciocché l'infermo si comunichi; perché si risponde, che in tanto l'infermo non digiuno può comunicarsi, perché in esso concorrono in tal caso così il precetto ecclesiastico del digiuno, come il divino, che dee preferirsi; ma il sacerdote, che viene obbligato dall'unico precetto di non celebrare senza il digiuno, non può egli violare il precetto, affinché l'infermo adempia il suo obbligo1.

52. Abbiamo parlato del viatico; passiamo ora a parlare degli altri casi, in cui può prendersi l'eucaristia senza il digiuno. Per II. può prendersi senza il digiuno, quando v'è pericolo che 'l sagramento perisca, o pure sia maltrattato. Ed allora se manca il sacerdote, può sumerlo anche il laico; e può lecitamente il sacerdote benanche darlo a' laici non digiuni, come dicono Suar., Vasq., Lugo e Busemb.2.

53. Per III. quando vi fosse pericolo di scandalo, se la persona lascia di comunicarsi o di celebrare. Ond'è, che se un sacerdote nel mentre celebra si ricorda di non esser digiuno, s'è dopo la consagrazione, allora è certo che dee proseguire a celebrare, perché non può lasciare il sacrificio imperfetto, come diremo nel numero susseguente; ma quando se ne ricorda prima della consagrazione, dev'egli lasciar la messa; sempre che può senza scandalo, o nota d'infamia, come dicono tutti con s. Tommaso3. Dice qui nondimeno il p. Concina con alcuni altri, che di rado può avvenire un tale scandalo, mentre quello facilmente può ripararsi, col dichiarare la persona di aver presa alcuna cosa inavvertentemente. Ma all'incontro s. Bonav. Soto, Ang., Regin. ec., dicono che 'l sacerdote non mai dee lasciar la messa incominciata, quando celebra in pubblico, perché quasi mai allora può lasciarla senza scandalo. E lo stesso sente il continuat. di Tournely (a cui m'unisco), dicendo, che sempre può temersi lo scandalo, purché il celebrante non fosse di nota, o almeno di presunta probità4.

54. Per IV. quando dee perfezionarsi il sacrificio. Il che può succedere in più modi: 1. Se 'l sacerdote si accorge, che in vece di vino ha presa acqua, ed allora può egli o consagrare una nuova ostia insieme col vino, come vogliono molti doversi fare; o pure può consagrare solamente il vino, come ammettono altri; e l'una e l'altra sentenza dice la rubrica5 essere probabile, se si sta in pubblico. Avvertono Lugo, Tambur. e Concina, che se 'l sacerdote s'accorgesse dell'errore, mentre già tiene l'acqua in bocca, dee allora inghiottirla, non già rigettarla con pericolo di rigettare insieme qualche frammento dell'ostia. Di più avvertono Coninch., Laym., Salmat. e Busemb., che se il sacerdote di ciò si avvede quando è già entrato in sagristia, allora dee omettere di far la nuova consagrazione. Che se poi dentro la messa dopo la sunzione, o dopo la consagrazione dubitasse della materia del vin, dicono Tambur., Sporer e Mazzotta, che dee presumer la materia atta, dicendo, che il possesso sta per la sostanza del vino. Ma dicono meglio Pasqual., Gobato, Aversa e La-Croix, che sempreché v'è prudente dubbio, e può aversi altri vino fra non molto tempo, dee quello aspettarsi e consagrarsi, mentre non può già dirsi, che il possesso stia per quel vino del quale già si dubita se sia vino, ma più presto possiede il precetto di fare il sagrificio intiero. Essendovi nonperò tal dubbio, dico, che questo secondo vino dee consagrarsi sotto la condizione, se la prima materia non sia stata consagrata, altrimenti anche s'incorre il pericolo di fare il sagrificio


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mutilato1. 2. Dee perfezionarsi il sacrifizio dal sacerdote non digiuno, se accade che il celebrante venga meno dopo la consagrazione, poiché allora è tenuto un altro sacerdote (se vi è) anche non digiuno a fare intiero il sagrificio2. 3. Se dopo la consagrazione anche d'una sola specie si ricorda il celebrante di non esser digiuno, perché allora è tenuto a compir la messa: dopo, perché se prima, è tenuto a lasciarla, sempreché può senza scandalo o infamia, come abbiamo detto nel numero antecedente3. 4. Se dopo l'abluzione, avverte il sacerdote d'esser rimaste alcune reliquie dello stesso sacrificio, come si disse al num. 5.4. Dicono Bonac., Filliuc., ed altri, che quando dopo la sunzione del sangue fosse rimasta nel calice la particola dell'ostia, o pure fosse restata attaccata al palato, è più decente prenderla coll'abluzione, che accostarla col dito al labbro del calice, e così sumerla; ma la rubrica non fa questo scrupolo, ben ella permette di far l'uno e l'altro. Del resto è certo, che 'l prendersi l'ostia insieme coll'abluzione così da' sacerdoti, come da' laici, non offende la legge del digiuno, perché quantunque il vino dell'abluzione si trangugiasse prima dell'ostia, una tal sunzione si ha moralmente per una, come insegna Bened. XIV.5, e comunemente dicono Lugo, Suar., Vasq., Laym., Castr., Conc., Bonac., Holz., Croix, Salmat. ec.6.

55. Per V. è lecito celebrare senza il digiuno per evitare il pericolo di morte, come ammettono Silvest., Diana, Salmat. ec., purché ciò non esiga in disprezzo della chiesa. Ammettono anche similmente Silvestro e Diana il poter celebrare per timor della morte senza le vesti sagre e senza altare, dicendo che 'l precetto della chiesa non obbliga con tanto peso. Ma giustamente queste due opinioni non le ammettono Suarez, Tamb., Tourn., Merati, Ronc., Conc., Gaet., Sanch., Castrop., ec., ancorché avesse a celebrarsi per dare il viatico, come soggiungono Lugo, Dicast. e Bened. XIV.7, perché (come ben avverte La-Croix) in pratica le sentenze contrarie difficilmente possono esser lecite, mentre difficilmente nel celebrare così può evitarsi il disprezzo, come confessano gli stessi Laymann ed Escobar, o almeno lo scandalo e la grave irriverenza, sicché v'entra il precetto naturale almeno della riverenza dovuta al sagrificio, dal quale precetto non iscusa il timor della morte8.

56. Pro complemento huius materiae, nempe dispositionis ad communionem, quaeritur 1. An pollutio habita eadem communionis die impediat ab illa. Distinguendum: si pollutio fuit voluntaria, absolute loquendo, per se non impedit (modo praecesserit, intellige, debita confessio) ut omnes concedunt; communiter tamen dd. docent, teneri poenitentem sub veniali abstinere ea die a communicando, propter reverentiam sacramento debitam; ita Lugo, Salmant., Conc., Viva etc. ex d. Thoma9, qui tamen excipit: Nisi magna necessitas urgeret: quod intelligitur, ut recte aiunt Bon., Led., Gran., Salmant., Viva et alii passim, nisi scandalum, vel alia iusta causa communionem exigat, prout prudenti confessario videbitur, uti loquitur rubrica missalis10. Si vero pollutio fuerit involuntaria, etiam communiter docent s. Bonaventura, Gers., Nav., Laym., Soto, Suar., Vasq., Salmantic., et alii plures cum rubrica11, nullam esse obligationem abstinendi a communione; modo nulla fuerit relicta, et adhuc perseveret perturbatio mentis, orta ex delectatione ante habita, vel ex turpi imaginatione pollutionem concomitante; cum huiusmodi enim perturbatione accedere, communiter non excusatur a veniali, nisi adsit aliqua iusta causa necessitatis aut devotionis, ut recte limitant Castrop., Sanch., Gers., Laym., Holzm., Salm.,


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et alii cum d. Thoma1, ubi ait: Si necessitas immineat, vel devotio exposcat, talis non impeditur. Vel nisi homo conetur quantum potest perturbationem illam repellere, et media adhibere ut devote accedat, prout rationabiliter docent omnes aa. mox supra relati cum p. Suarez, qui pro hac re affert s. Iustinum dicentem: Non est aequum propter hanc involuntariam passionem abstinere a mysteriis2.

57. Quaeritur 2. An copula coniugalis a communione impediat. Quidquid aliqui dicant, communiter dd. tradunt non excusari a veniali propter indecentiam, qui ad eucharistiam accedit eadem die qua copulam habuit causa voluptatis; ita s. Anton., s. Bon., Sanchez, Suar., Tourn., Salmant., cum s. Thoma3 ex d. Gregorio in c. Vir, 7. caus. 3. q. 4., qui ait: Cum vero non amor ob procreandas soboles, sed voluptas dominatur in opere, tunc prohiberi debet, ne accedat ad hoc sacramentum. Recte vero dicunt Sanch., Antoine et Salmat. cum aliis, quod a praedicta culpa excusat quaevis causa honesta, puta solemnitas, sive indulgentia eadem die occurrens, evitatio scandali aut notae, specialis devotio etc. Si autem copula fuerit absqua culpa, v. gr. ad prolem gignendam, tum quamvis sit congruum ad aliam diem communionem differre, nulla tamen est obligatio ab illa abstinere; quia procreatio sobolis, cum sit actus omnino honestus, satis reparat indecentiam, ut communiter dicunt s. Thomas4, Lugo, Sanchez, Concina, Petroc., Salmant., etc. ec d. Gregorio supra relato. Nec obstat textus in c. Sciatis, 33. qu. 4., ubi d. Hieronymus docet abstinendum; nam respondet angelicus5, ibi sermonem fieri tantum de altaris ministris coniugatis, quales sunt graeci6. Item communiter docetur de coniuge reddente debitum, nempe quod iste tantum causa consilii abstinere potest a communione, sed non tenetur, ita s. Thom., s. Bonav., s. Anton., Albert. M., Dion. Cartos., Sotus, Palud., Suar., etc. Et sic pariter docuit sanctus Franciscus Salesius7, sic dicens: A Dio non piaceva nell'antica legge che i creditori esigessero ciò ch'era loro dovuto ne' giorni di festa, ma non vietò che i debitori non rendessero il loro debito. È cosa indecente il sollecitare il pagamento del debito matrimoniale nel giorno della comunione; ma non istà male, anzi è cosa meritoria il pagarlo. Quindi è, che per rendere questo debito, non deve alcuno esser privato della comunione, se la desidera. È certo, che nella primitiva chiesa i cristiani si comunicavano ogni giorno, ancorché fossero maritati, ed avessero la benedizione della generazione de' figli. Idemque videtur clare docuisse adhuc d. Augustinus8 dicendo: Si non exigis, redde; pro satisfactione perfecta Deus tibi computabit, si reddis quod debetur uxori. Et revera, si reddere debitum coniugale est actus virtutis, cur a communione impediet9? Hinc si confessarius rogatur ab uxore, quid agere debeat, si in die communionis vir debitum ab ipsa petat; sapienter docent Suarez, Laymann, et Sanchez, respondendum, quod si mulier frequenter communionem suscipit, reddat et communicet; si autem raro, ipsa virum precetur, ut pro illa die abstineat; at si rogatio non proficit, adhuc communicet, nisi ex redditione magnam patiatur perturbationem, et ipsa non conetur repellere10. Debitum autem reddere in die communionis post ipsius acceptionem excusatur ab omni culpa. Petere vero post communionem, alii dicunt esse veniale, et quidem probabiliter, nisi iusta subsit causa; sed communius Sanch., Nav., Victor. et Tamb., sentiunt, id esse tantum consilii11.

58. S'appartiene anche alla disposizione del corpo il non accostarsi alla comunione con qualche lordura notabile esterna, e che facilmente può togliersi; perché s'è occulta, o è perpetua,


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e non volontaria, come sarebbe la lebbra o la rogna; questa non impedisce, come dicono i dd. comunemente. Si noti non però, che 'l sacerdote lebbroso, o che ha altro morbo che porta orrore, è proibito di celebrare, come si dice nel cap. Tua nos, de cler. aegrot., pro scandalo, et abominatione populi, come parla il testo; onde in segreto questi ben può celebrare1 An vero mulieres tempore menstrui valeant communicare. Dice Suarez, che queste son obbligate sotto colpa veniale a differir la comunione, se comodamente possono. Ma comunemente, e più probabilmente ciò essere solamente di consiglio sentono Palud., Alense, Castrop., Salmatic. e Laym, da s. Gregorio (appresso Laymann), che, parlando di tale donna, dice: Si ex veneratione magna percipere non praesumit, laudanda est; sed si percipiat, non iudicanda. Alle femmine che s'accostano alla comunione immodestamente, v. g. col petto scoverto, ben dice il p. Concina, che dee negarsi la comunione. In oltre conviene, che chi si comunica deponga le armi2. Di più si noti, che il sacerdote il quale si comunica a guisa de' laici per infermità, o per altra causa, dee tener la stola sopra ambedue le spalle; e ciò fu ordinato nel concilio bracarense sotto pena di scomunica, come si legge nel cap. Ecclesiastico 9. dist. 23. dicono Azor., Turrian. e Tamb., che tal decreto è andato in desuetudine; onde oggidì non vi riconosco in ciò alcun obbligo. Nondimeno più comunemente e giustamente Suarez, Gavant., Bonac., Barb. ec., non già lo condannano di colpa mortale, ma bensì di veniale; tanto più che tal cerimonia espressamente si prescrive dalla rubrica: Sacerdotes vero cum stola communicent3.




4 N. 291.



5 N. 292. v. 2. Si in aegro.



1 Lib. 6. n. 292. v. in dubio.



2 Sess. 13. c. 7.



3 L. n. 256.



4 1. Cor. 11.



1 Lib. 6. n. 257.



2 N. 260.



3 N. 257. et 263.



4 N. 260. ad 2.



5 N. 261.



6 Ibid. v. 4. Si urgeat.



7 Ibid.



1 3. p. q. 83. a. 6. ad 2.



2 De defect. tit. 8. num. 4.



3 Sess. 6. cap. 11.



4 Lib. 6. n. 262. dub. 1.



5 3. p. q. 83. a. 6. ad 2.



6 3. p. tit. 8. n. 4. et 5.



7 Lib. 6. n. 262. dub. 2.



8 N. 264. ad 1.



9 Ib. ad 2.



10 N. 265.



1 Lib. 6. n. 265. Qu. 2.



2 Ibid. Qu. 3.



1 Lib. 6. n. 266. v. Posito.



2 Tit. 18. n. 3. et 4.



3 Lib. 6. n. 267.



4 N. 266. Qu. 5.



5 N. 268.



6 N. 432. et 475.



1 Sess. 13. cap. 7.



2 De euchar. p. 30. q. 6. resp. 4.



1 Lib. 6. n. 282.



2 Ibid. Num autem.



3 N. 278.



4 In 4. dist. 8. q. 1. a. 4. q. 2.



5 Lib. 6. n. 278. et 279.



6 N. 279. in fin. v. Secus vero.



7 De defect. n. 3.



8 3. p. q. 80. a. 8. ad 4.



9 De sacr. missae 1. 3. c. 12.



10 Lib. 6. n. 279.



1 Lib. 6. n. 279. dub. 2.



2 Ibid. v. idem.



3 Lib. 11. c. 13.



4 Lib. 6. n. 280.



5 De sacr. miss. lib. 3. app. 9.



6 Lib. 6. n. 280. dub. 2.



1 Lib. 6. n. 280. dub. 3.



2 Ibid.



3 Ibid.



4 N. 281.



5 Ibid. v. Secus.



6 3. p. q. 80. a 8. ad 5.



1 Lib. 6. n. 289. v. Hic. ultimo.



2 3. p. q. 80. a. 8. ad 6.



3 Lib. 6. n. 283. v. Omnes.



4 De synodo l. 7. c. 12.



5 Ibid. n. 5.



6 Lib. 6. n. 285. v. Sed dubit. 1.



1 Lib. 6. n. 285. dub. 2.



2 De synodo lib. 7. c. 12.



3 Lib. 6. n. 285. dub. 3.



4 Sess. 13.



5 Lib. 6. n. 285. v. Hic autem.



6 De monial.



7 De synodo lib. 7. c. 12. dub. 4.



1 Lib. 6. n. 286.



2 N. 287.



3 3. p. q. 83. a. 6. ad 2.



4 Lib. 6. n. 287. v. 3. Si grave.



5 De defect. c. 4. n. 5.



1 Lib. 6. n. 288. et n. 206. v. Quod vinum.



2 N. 288. ad 2.



3 N. 287. v. Si sacerdos, et n. 288. ad 3.



4 N. 288. ad 4.



5 Lib. 6. de sacr. missae l. 3. c. 17.



6 Lib. 6. n. 288. ad 5.



7 De sacr. missae l. 3. c. 7. n. 4. in fine.



8 Lib. 6. n. 289.



9 In 4. dist. 9. q. 1. a. 4. q. 2. ad 2.



10 De defect. n. 9.



11 Loco cit.



1 Loco cit.



2 Lib. 6. n. 272.



3 3. p. q. 80. a. 7. ad 2.



4 Loco cit.



5 In 4. d. 32. q. 1. a. 1. ad 1.



6 Lib. 6. n. 273. v. Si vero.



7 Introduz. alla vita div. p. 2. cap. 20.



8 Sup. psalm. 149.



9 Lib. 6. n. 274.



10 N. 274. v. Quid autem.



11 Ibid. v. Die autem.



1 Lib. 6. n. 275.



2 Ibid. v. An vero.



3 N. 276.






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