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S. Alfonso Maria de Liguori
Istruzione e pratica pei confessori

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Capo XVI - Avvertenze sul sagramento della penitenza

Punto I. Della materia e forma.

1. Della materia rimota e prossima.

2. Se i religiosi debban confessarsi una volta il mese.

3. Se i peccati confessati sieno materia atta.

4. Se debban distinguersi i confessati da' non confessati.

5. Se sia necessaria la parola Te. Se le parole A peccatis tuis. Se le altre parole ecc. Se colla parola Absolvo si possano assolvere le censure. Si richiede la presenza del penitente.

6. Dell'assoluzione sotto condizione.

1. La penitenza si prende come virtù, e come sagramento; come virtù si definisce: Virtus tendens in destructionem peccati, quatenus est offensa Dei, medio dolore et satisfactione. Come sagramento: Est sacramentum consistens in actibus poenitentis, et in absolutione sacerdotis. La penitenza come virtù è stata sempre necessaria alla salute necessitate medii, ma come sagramento nella nuova legge anch'è necessaria necessitate medii a' caduti in peccato mortale dopo il battesimo, almeno in voto, o sia desiderio, se non può prendersi realmente. La materia rimota del sagramento della penitenza, secondo s.


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Tommaso1, e la comune sentenza, sono i peccati commessi dopo la sentenza; ma i peccati mortali sono materia necessaria: i veniali ed i mortali già confessati sono materia sufficiente, poiché questi bastano per ricevere l'assoluzione, ma non siamo tenuti a confessarli. La materia prossima poi, secondo lo stesso san Tommaso2, sono gli atti del penitente, chiamati dal trid. quasi materia, perché non sono materia fisica, com'è quella degli altri sagramenti; e questi atti sono (come ha dichiarato il concilio) la contrizione, la confessione, e la soddisfazione. La soddisfazione non però non è parte essenziale, come sono le due prime, ma solamente integrale, poiché senza quella in qualche caso ben può esser valido il sagramento. Ciò è contro Scoto, il quale vuole, che tutta l'essenza consista nella sola assoluzione.

2. Parlando della materia rimota, si è detto, che le colpe veniali, e le mortali già confessate sono materia solamente sufficiente. Ma in ciò si dimanda per 1. Se i religiosi e le monache sono obbligate a confessarsi almeno una volta il mese, ancorché non abbiano colpe gravi. Il dubbio nasce per la Clement. Ne in agro. §. Sane, de statu monach., dove (parlandosi de' monaci benedettini), si dice: Sane singulis mensibus tam in monasteriis quam extra (sublata occasione quacumque) ad confessionem saltem semel accedant omnes et singuli monachi. Et in prima dominica mensis cuiuslibet in monasteriis semper communicent. Ciò posto, altri dd., come Azor., Vasquez, Hurtad. ec.3, dicono, che questo precetto obbliga sotto colpa grave; onde tengono, esser obbligati i monaci a confessarsi in ogni mese, ancorché non abbiano, che soli peccati veniali. Ma più comunemente Soto, Cano, Gaetan., Nav., Molfes., e Megala4, tengono che la suddetta Clementina non imponga precetto grave. Anzi il p. Suarez5. dice, che tale decreto non importa precetto, ma solamente consiglio; e lo ricava dal trid.6, dove parlandosi delle monache si dice così: Attendant diligenter episcopi et ceteri superiores monasteriorum, sanctimonialium, ut in constitutionibus earum admoneantur sanctimoniales, ut saltem singulis mensibus confessionem peccatorum faciant, et eucharistiam suscipiant. Dalle quali parole conclude il p. Suar., che se non costa, che le costituzioni della religione obbligano sotto colpa grave, non v'è di ciò alcun obbligo rigoroso. E lo stesso sentono Castrop., Cano, Prep., Vivaldo, Leand. ec., appresso i Salmaticesi7. E ciò che dicono gli aa. citati della confessione, dicono ancora della comunione.

3. Si dimanda per 2. Se i peccati confessati siano materia atta per ricevere l'assoluzione. Il dubbio nasce dal riflettere che 'l peccato rimesso non è più peccato da potersi rimettere, onde pare, che non sia materia atta per la confessione. Ma è comune la sentenza e l'uso de' fedeli che l'ammette con s. Tommaso8, Suarez, Castr., Laym., Salm. ecc. ed è certo dall'Estrav. 1. de privil. §. Verum, in fin., dove si dice: Ut eorumdem peccatorum iteretur confessio, reputamus salubre. osta il dire, che 'l peccato perdonato non è più peccato, perché il peccato, benché perdonato, semprpeccato commesso; onde ben può esser materia di più sagramenti, come la stess'acqua ben può esser materia di più battesimi9.

4. Si dimanda per 3. Se nella confessione è necessario distinguere i mortali confessati da' non confessati. Si risponde, che no con Bonac., Lugo, Conc. e Sanchez, purché ciò non sia necessario per l'occasione prossima che avesse a togliersi, o per la riserba del caso, o per altra circostanza10.

5. La forma poi del sagramento della penitenza sono le parole del sacerdote: Ego te absolvo a peccatis tuis. Vogliono


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alcuni autori, che anticamente la forma era deprecatoria, qual'è al presente (come attestano il Martene e 'l Tournely) la forma de' greci; ma in quanto a' latini ciò lo negano il Baronio, il Gonet ed altri1. Ma si dimanda per 1. Se sia d'essenza la parola te. Lo negano Lugo, Wigandt, perché la parola te abbastanza si esprime colle seguenti parole a peccatis tuis. Ma comunissimamente l'affermano Vasq., Bon., Castr., Conc., ed Holz., e perché questa in pratica dee seguitarsi, stando dannata da Innoc. XI. la prop. 1., la quale diceva, esser lecito nel fare i sagramenti servirsi delle opinioni probabili2. Si dimanda per 2. Se sono necessarie le parole a peccatis tuis. Lo negano Milante, Concina, Lugo, Holzmann, Coninch. ecc., perché (dicono) dalle circostanze sufficientemente si determinano le altre parole a' peccati del penitente. E nel catechismo rom.3 altre parole non si esprimono per la forma, che le sole, ego te absolvo. Ma molti dd., come Palud., Maior., Croix, Mazzotta, ecc., vogliono esser necessarie, perché se valesse la ragione de' contrari, dicono, che ancora la parole te potrebbe tacersi. E perché questa sentenza anch'è probabile, questa anche dee seguirsi, come confessano gli stessi contrari Holzmann, Roncaglia, ec. E tutti convengono in dire, che il lasciarle almeno sarebbe peccato mortale4. È sentenza poi comune contro Durando (dottore per altro dotto, ma stravagante nelle sue opinioni), che le parole in nomine Patris, ec., non siano d'essenza, e comunissimamente dicono Bonacina, Castropalao, Salm., Croix ec., che il lasciarle non giunge che a colpa veniale5. Le altre parole, Misereatur, ec., Indulgentiam, ec., è comune presso tutti, che possono lasciarsi senza colpa. E lo stesso dicono i dd. delle parole Dominus noster Iesus Christus te absolvat ec., mentre il trident.6 dice solamente che fuori della forma, l'altre preci laudabiliter adiunguntur. Ma il p. Concina vuole, che il lasciare le suddette parole sia colpa veniale, e non senza ragione, mentre il rituale rom. ecc.7 dice: In confessionibus frequentioribus omitti potest, Misereatur etc.; et satis erit dicere: Dominus noster Iesus Christus, usque ad illud, Passio etc. Urgente vero aliqua gravi necessitate in periculo mortis, breviter dicere poterit, Ego te absolvo ab omnibus censuris, et a peccatis tuis, in nomine Patris etc.8 È comune poi la sentenza, che 'l sacerdote con quelle parole te absolvo può assolvere così da' peccati, come dalle censure. Nondimeno ben dicono Soto, Conc., Salmat., Ronc., Holzmann, Viva ecc., che far ciò senza causa sarebbe colpa veniale, perch'è contro l'uso della chiesa; se non fosse (come dicono probabilmente Holzmann, Viva ec.), che non vi sia alcun sospetto di censure incorse dal penitente9. È certo poi, che la forma dee proferirsi in presenza del penitente, e fu dannata da Clemente VIII. nel 1602. a' 20. di giugno la propos. che dicea: Licere per litteras seu internuntium confessario absenti sacramentaliter confiteri, et ab eodem absente absolutionem recipere. E dichiarando il papa tale assoluzione illecita come ben riflettono i Salmaticesi, l'ha dichiarata ancora invalida, perché se fosse valida il papa ne' casi di necessità non avrebbe potuto proibirla. E Paolo V. nel 1604. a' 24. di luglio ciò proibì, ancorché vi fosse preceduta la confessione fatta in presenza10. Tale presenza poi basta che sia morale, cioè in quello spazio di luogo, in cui sogliono gli uomini parlare colla voce comune, benché alta. Questo spazio Sporer ed altri lo stendono sino a venti passi; dicono non però, che se 'l penitente s'è partito dal confessionale, il confessore dee richiamarlo per assolverlo, quando può farlo comodamente. Del resto dice lo stesso Sporer, con Bonacina e Gobato, che senza scrupolo può il confessore


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dar l'assoluzione al penitente che certamente sa esser pochi passi lontano. Tiene ragionevolmente Tamburrino, che dandosi l'assoluzione a chi precipita dal tetto, dee darsegli sotto condizione, essendo dubbio se con tanta distanza vi sia la presenza morale. Avvertono poi comunemente i dottori, non esser necessario, che il penitente ascolti l'assoluzione. Anzi prudentemente consiglia La-Croix, che l'assoluzione si proferisca con voce sommessa, acciocché, se mai si manda alcuno senza assoluzione, gli altri non se ne accorgano1.

6. Si dimanda qui per ultimo, quando sia valida e lecita l'assoluzione che si sotto condizione. Se la condizione è de futuro, comunemente dicono i dottori ch'è invalida. Ammette non però il p. Viva il potere assolvere così: absolvo te, si Deus cognoscit quod restitues id quod debes; ma giustamente ciò lo negano Coninch., Dicast., Concina, Tournely ec., perché avendo data Dio agli uomini l'amministrazione de' sagramenti, non possono apporsi quelle condizioni, che agli uomini non possono esser note2. Se all'incontro la condizione è de praeterito, o de praesenti, tutti convengono, che l'assoluzione è valida; ed ancora è lecita, quando vi è giusta causa, secondo la sentenza comune (contro d'alcuni pochi), come si disse al capo XIV. n. 3. Le cause giuste sono per 1., se 'l confessore prudentemente dubita di non aver data l'assoluzione: Suar., Lugo, Ronc., Bonac., Salmat., Croix ec. Per 2., se si dubitasse della disposizione del penitente, ed all'incontro vi fosse necessità d'assolverlo, come si dirà nel capo ultimo, parlando de' fanciulli e de' moribondi. Del resto ordinariamente il confessore dev'esser certo della disposizione del penitente, per poterlo assolvere lecitamente; ond'è, che i recidivi, non solo nelle colpe gravi, ma anche nelle leggiere non possono essere assoluti, se non danno segni certi d'essere ben disposti, come si dirà a lungo nel punto II. del suddetto capo ultimo. Per 3., come dice Bonacina, ben possono assolversi sotto condizione quelle persone pie, che si confessano di sole imperfezioni, circa le quali si dubita, se per mancanza d'avvertenza sieno elle giunte, o no, a' peccati veniali, e ciò non pare improbabile, sembrando bastantemente giusta la causa di assolverle così, per non privare queste anime per molto tempo del frutto del sagramento: dico per molto tempo; perché ciò non l'ammetterei più che una volta il mese. Dice di più il p. Sporer, che il confessore può dar l'assoluzione, se dubita della giurisdizione; ma ciò stimo non doversi ammettere, se non quando il penitente stesse in peccato mortale, e dovesse altrimenti stare senz'assoluzione per molto tempo. Ciò per altro si dee intendere nel solo dubbio di fatto; perché se la giurisdizione è dubbia positivamente de iure, cioè s'è probabile per l'autorità de' dottori, ben può darsi l'assoluzione assolutamente, poiché allora supplisce la chiesa sempre che v'è grave causa, come dicemmo al capo I. num. 27. Inoltre dicono Sporer e Mazzotta, che può assolversi sotto condizione il penitente che ha necessità di comunicarsi, ed è dubbiamente disposto. Ma in ciò bisogna distinguere, come si è detto al capo XV. n. 34., e vedere, se il dubbio è della commessione del peccato, o pure della confessione del peccato fatto; perché se il penitente è certo del peccato grave commesso, e la sua disposizione è dubbia, egli non può comunicarsi, ancorché fosse stato assoluto sotto condizione; e se non può comunicarsi, neppure può essere assoluto, poiché allora manca la causa della necessità della comunione per poter essere condizionatamente assoluto3. Si osservi il detto n. 34. del capo XV.




1 3. p. q. 84. a 1. ad 1. et 2.



2 Ibid.



3 Apud Diana p. 8. tr. 1. r. 16.



4 Apud Diana p. 3. tr. 3. r. 1.



5 In 3. p. sess. 2.



6 Sess. 25. c. 10.



7 Castr. tr. 23. d. un. de poen. p. 20. §. 2. n. 6. Canus relect. de poen. c. 5. §. Al vero, et Salm. eod tit. c. 7. n. 33.



8 In 4. d. 17. q. 3. a. 3. q. 5. ad 4.



9 L. 6. n. 427. d. 2.



10 N. 425. v. 2. Omitti.



1 Lib. 6. n. 430.



2 Ibid. dub. 1.



3 P. 2. n. 14.



4 L. 6. n. 430. dub. 2.



5 Ibid. dub. 3.



6 Sess. 34. cap. 3.



7 De forma absol.



8 L. 6. n. 430. v. Verba.



9 Ibid. dub. 4.



10 N. 428.



1 Lib. 6. n. 429.



2 N. 431. et etiam n. 26.



3 Lib. 6. n. 432.






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