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S. Alfonso Maria de Liguori
Lettere

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542. A FERDINANDO IV, RE DI NAPOLI.

Espone il fine e lo stato della sua Congregazione, e dimostra la falsità delle accuse mosse contro essa dal barone Sarnelli, il quale cercava di spogliare la casa di Ciorani delle meschine sue rendite.

[NAPOLI, FINE DI LUGLIO 1767.]

Signore,

Essendo ricorso alla M. V. D. Nicola Sarnelli, Barone della terra di Ciorani, contra la nostra minima Congregazione o sia Adunanza di missionarî, chiamati del SS. Redentore, con opporre loro molte accuse, e tutte a fine di avere una vigna, dalla quale essi missionarî, abitanti nella casa de' Ciorani, ritraggono parte di quel sussidio, che fu a' medesimi assegnato per loro sostentamento dalla Maestà del Re Cattolico, vostro augustissimo genitore; e ritrovandomi io compagno insieme e direttore di questa Adunanza, mi vedo in obbligo di rappresentare a V. M., in primo luogo, l'intento e lo stato della medesima.

L'intento è di andare girando i nostri sacerdoti per i paesi della campagna più destituti di aiuti spirituali, facendo missioni, catechismi ed altri esercizî spirituali, e specialmente amministrando in questi poveri luoghi il sacramento della Penitenza, per liberare molte anime dalla rovina delle confessioni sacrilegamente fatte, le quali in questi piccioli paesi sono frequenti (com'è noto a tutti i missionarî) per esser ivi i confessori pochi e paesani, e perciò la gente ha rossore di confessarsi con essi. Ciò appunto abbiamo noi posto in pratica per lo spazio di 34 anni, cioè sin dall'anno 1732, nel quale ebbe principio la nostra compagnia; e col divino aiuto si son fatte ordinariamente da quaranta in cinquanta missioni l'anno, scorrendo quasi per tutte le provincie di questo regno, con istar fuori delle nostre case colle missioni per otto o nove mesi dell'anno, faticando per le ville, montagne e pagliaia di pastori per aiutare le


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povere genti di campagna, a cui mancano confessori, predicatori ed anche chi le istruisca nella dottrina cristiana, in modo che ritrovansi tanti miseri campagnuoli, che non sanno neppure i misteri più principali della nostra Fede. E ciò, oltre poi delle diverse mute di esercizî spirituali, che si dànno ogni anno nelle nostre case ad ecclesiastici e secolari, seminari di giovani, soldati di V. M. e carcerati nelle carceri delle Udienze.

Di tutto ciò informato, il Sommo Pontefice nell'anno 1748, affinché quest'Opera, così utile per la povera gente della campagna, avesse la sua persistenza, approvò la nostra Congregazione col titolo del SS. Redentore insieme colle Regole, colmandoci ancora di molti privilegi spirituali, spettanti al bene delle anime.

Essendo poi venuta a notizia della Maestà del Re Cattolico la suddetta concessione Pontificia, nell'anno 1752 esso, con suo real dispaccio, prescrisse il modo come la nostra Adunanza dovea regolarsi circa il sostentamento dei soggetti. " Ben informato il Re (son le parole del dispaccio) del profitto spirituale, che deriva alle anime abbandonate nelle campagne di " questo regno dalle sante esemplari missioni, sotto la direzione " del sacerdote D. Alfonso de' Liguori, non ha permessa la " distruzione di questa lodevol Opera di tanta gloria di Dio e " della cristiana pietà a pro de' popoli; oltre quella religiosa " pietà, ch'è propria del suo real animo, desideroso che si man" tenga l'espressata Opera sempre nella sua nativa fervorosa " qualità, è venuto a fare un generale stabilimento."

Lo stabilimento fu questo: ordinò S. M. " che tutte le donazioni, eredità e legati di beni stabili e d'annue rendite, che saranno fatti ad essi sacerdoti missionarî conviventi, adunati sotto la direzione del nominato D. Alfonso, come conviventi in comune (non già a ciascuno in particolare) non abbiano valore, e sieno invalidi, come incapaci di acquistare tali beni in comune; mentre colle suddette condizioni, e non altrimenti, il Re permette ad essi sacerdoti il convivere nelle sole quattro case di Ciorani, Caposele, Iliceto e Nocera, e non in altre,


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purché vivano da' preti secolari, e sempre subordinati a' rispettivi Ordinari, non riputando la M. S. queste case come " collegî e comunità."

Ed a rispetto de' beni già acquistati dalle suddette case, nel dispaccio si disse così: " Ma affinché i medesimi missionarî possano sostentarsi e mantenere l'Opera delle loro missioni, le quale con tanto profitto comune de' popoli e con indefessa applicazione han praticate finora per molte provincie di questo Regno; e giacché in dette missioni, essi tengono il lodevol costume di non andar questuando, ordina S. M. primieramente, che sia lecito a tutti i sacerdoti di ritenere i loro propri e patrimoniali beni; 2° che le seguenti robe di sotto descritte, e sinora da essi acquistate si lascino da' medesimi, e si amministrino da' vescovi di quei luoghi, ove sono situate le suddette robe, coll'intelligenza del governatore e del sindaco del luogo; e che del fruttato di esse debbano i suddetti vescovi somministrare carlini due al giorno per ciascuno di essi sacerdoti e loro servienti, e che tutto il sopravvanzante del fruttato distribuir si debba a' poveri di quei luoghi, dove sono site le robe."

Indi si descrivono di sotto i beni, de' quali i vescovi debbono avere la mentovata amministrazione. E per la casa di Ciorani dicesi così: Nella casa di Ciorani, in diocesi di Salerno, ducati 50O, donati dal sacerdote D. Andrea Sarnelli al medesimo D. Alfonso de' Liguori, per farne opere pie secondo l'intenzione del donante, e dal medesimo D. Alfonso donati a' sacerdoti suoi compagni abitanti nella casa di Ciorani. (Si notano per detta casa 500 ducati; ma, come poi farò vedere appresso, dedotti i pesi, la vigna in effetto non rende neppure 200 ducati.) Per la casa poi di Caposele, si notano annui ducati 450. Per la casa d'Iliceto ducati 350. E finalmente per la casa di Nocera non si nota rendita; perché ivi non v'è altro che la pura abitazione per i Padri con un giardino, per lo quale si pagano di censo annui ducati 8 al monastero delle monache di S. Chiara.

Sicché le rendite di tutte le quattro case non ascendono a più che a ducati 1310, ma col peso di più messe quotidiane ed


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altri obblighi; in modo che, dedotte le messe e gli altri pesi, la rendita di tutte quattro le case non arriva a 600 ducati.

All'incontro i miei compagni missionarî, che abitano nelle suddette quattro case, co' Fratelli servienti (a cui parimente da S. M. Cattolica sta assegnata la limosina di un tarì al giorno), giungono al numero di circa ottanta, numero necessario per far le missioni e coltivar insieme i paesi dove stanno le case. Che per tanto delle rendite descritte (quando però si esigono, perché non tutte, né sempre si esigono) non toccano a ciascuno che poche grana, il giorno.

Ma come con sì poche rendite han potuto sinora sostentarsi tanti soggetti, e far tante missioni in ogni anno?- Rispondo, coll'edificazione ch'essi han data al pubblico, la quale ha mossa la pietà delle persone divote a sovvenirli con limosine manuali, a fin di mantenere quest'Opera delle missioni così utile, per non dir necessaria, alla povera gente di campagna; altrimenti, per la mancanza del sostentamento, come avrebbero potuto persistere?

Ora i miei compagni sinora, presso tutto questo Regno ed anche fuori del Regno, han goduto buon nome: requisito necessario agli operarî spirituali per trar profitto dalle anime: altrimenti, se la gente apprende ch'essi faticano per fini temporali tutte le loro fatiche saranno inutili e perdute. Ma questo buon nome appunto ha cercato ora di toglierci, presso V. M. e presso il pubblico, il Barone Sarnelli colla sua scrittura, data anche alle stampe, ove, per renderci odiosi alla M. V. ed a tutti, ci ha dipinti in una forma troppo nera e vituperosa, facendoci comparire pieni di superbia, negozianti sfacciati sino a far negozî e monopolî di frutti, avidi di dominare e di opprimere gli altri, disubbidienti agli ordini reali, ed intenti all'acquisto, non di anime, ma di robe per farci ricchi, e menar vita più agiata, come parla.

Noi non abbiamo ricchezze, non abbiamo protezioni, non abbiamo altro che questo mero buon nome. Perduto il nome presso la gente, abbiamo perduto tutto. Onde io, ritrovandomi direttore di questa povera Adunanza, così perseguitata da alcuni,


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che per loro interessi privati pretendono di vederla distrutta, mi vedo in obbligo, nell'occasione presente, di scaricarla dalle accuse fatte contro la medesima dal Barone Sarnelli. E perciò mi fo animo di rappresentare in secondo luogo a V. M. la verità de' fatti (passati già per le mie mani); acciocché la M. S., ritrovandoli veri, resti sincerata rispetto a tutte le cose, che dal Barone contra di noi le sono state esposte.

Circa il principio della situazione della nostra casa nella terra di Ciorani, checché dicasi il Barone, che io con due altri miei compagni, riscaldati dal piacere d'esser fondatori, avendo adocchiata la vigna che possedeva in detta terra il sacerdote D. Andrea Sarnelli, suo fratello, assegnatagli dal padre per suoi alimenti e legittima, lo tirammo con belle maniere a farcene donazione; la verità però si è, che il detto D. Andrea, desiderando di vedere nella terra di Ciorani una delle nostre case, affinché noi l'avessimo coltivata colle nostre fatiche, e di più ci fossimo impiegati in far missioni per tutta la vasta diocesi di Salerno, sparsa di tanti piccioli paesi, ci offerì per lo sostentamento le rendite di quella sua vigna. E a tal fine esso D. Andrea, prima nell'anno 1735, fece a me una certa donazione sopra la vigna; e poi a' 4 giugno 1752 fece a me, non come Congregato, ma come persona particolare, ed a' miei successori, un'altra donazione irrevocabile tra' vivi, stipulata per mano di notar Carlo Pepe, di Nocera, nella quale mi donò annui ducati 500 sopra i frutti di detta vigna. Ed inoltre nello stesso istrumento dispose che, nel caso ch'esso D. Andrea morisse ab intestato senza fare altra disposizione, del rimanente di detta vigna e sua annualità, dedotti li suddetti annui ducati 500 e la detta sua sorte principale donata a D. Alfonso, seguìta la sua morte, detta vigna restasse per intiero, ed IN SOLUTO ET PRO SOLUTO a beneficio di detto D. Alfonso e suoi eredi e successori, col peso di adempire del suddetto restante di vigna e sua annualità quel tanto, che gli ha comunicato AD AURES; venendogli così dettato dalla sua coscienza, con dette sue ragioni, azioni ed intiero stato. Soggiungendosi nello stesso istrumento così: In vigore del presente istromento


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di donazione, il suddetto D. Alfonso, suoi eredi e successori vagliano, e possano avere ed esigere li suddetti annui ducati 500, seguita la sua morte, o pure la suddetta intiera vigna dalle mani di qualsivogliano possessori di quella, e delle suddette somme farne, ed impiegarle a sua elezione ecc.

Ma qui dee notarsi che della vigna, com'è al presente, la minor parte (cioè 31 moggi di territorio, ch'era prima di meno valore, perché era sterile, e perciò allora non fu apprezzata che per soli ducati 2 mila) fu assegnata dal Barone padre al detto D. Andrea per sua legittima, ma la maggior parte fu acquistata poi da esso D. Andrea, per compre da lui fatte di altri territori adiacenti.

Io poi donai a' miei compagni, abitanti nella casa di Ciorani, i suddetti annui ducati 500 sopra la vigna, secondo già l'intenzione di esso donante; e da questi ducati 500 poi ordinò S. M. Cattolica, come di sopra si è riferito, che ci fosse corrisposto il sussidio del tarì il giorno per ciascheduno.

Indi il medesimo D. Andrea, nell'anno 1754 a' 26 dicembre, con altro istromento (dove inserì la copia del dispaccio) stipulato per mano di notar Carlo Pepe, di Nocera, donò irrevocabilmente, fra' vivi, all'arcivescovo di Salerno di allora, D. Casimiro Rossi ed a tutti i suoi successori pro tempore, l'intiera vigna, con condizione di corrispondere i frutti di quella a beneficio de' sacerdoti della nostra Compagnia abitanti in Ciorani, riserbandosi annui ducati 300, sua vita durante, con due altre annate dopo sua morte. Ed a' 30 dello stesso dicembre, l'Arcivescovo prese il possesso di detta vigna con atto pubblico, per mezzo del parroco D. Tarquinio Milone, deputato suo procuratore a questo effetto.

Ecco perciò le opposizioni ed accuse del barone Sarnelli contro di noi. Dice che noi, per eludere gli ordini del dispaccio e render vana la proibizione reale di non poter acquistare annue rendite, fraudolentemente convenimmo coll'arcivescovo di

Salerno a corrisponderci le rendite annuali della vigna; e che

poi sin da allora ci siamo posti in possesso di quella, come assoluti


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padroni, pagando anche il catasto, senza che l'Arcivescovo a nulla s'ingerisca, salvo che a fare una procura a beneficio de' loro medesimi.

Rispondiamo prima ad una cosa, e poi all'altra.

Non è vero che noi convenimmo coll'Arcivescovo di corrisponderci le rendite della vigna. Questa fu una convenzione che volle fare coll'Arcivescovo il medesimo donante, di sua spontanea e libera volontà, a fin di meglio stabilire la permanenza della nostra casa nella terra de' Ciorani. Né questa donazione fu contraria, ma fu conforme alla volontà di S. M. Cattolica, la quale volea già che dall'Arcivescovo si somministrasse a noi il sussidio di un tarì il giorno per ciascheduno dalle rendite della vigna, sino alla somma degli annui ducati 500. Sempre dunque che le rendite della vigna non eccedono i ducati 500, (e nella casa di Ciorani vi sono tanti soggetti, che per un tari a ciascheduno assorbiscono la somma di dette rendite) non sappiamo per qual ragione la riferita donazione possa dirsi invalida, come elusoria degli ordini reali.

Ma dice il Barone, la vigna rende molto più delli ducati 500 Io all'incontro, Sagra Maestà, ho voluto ultimamente appurare quanto in effetto rende al presente la gran vigna, o sia la gran masseria di Ciorani, ed ho appurato colle scritture alla mano che quella al presente, dedotti i pesi che sono d'annui ducati 156 e mezzo, non giunge a rendere (chi lo crederebbe, udendo tanto esclamare il Barone per questa gran vigna?) neppure 200 ducati, l'anno. Dico al presente, ora che la vigna dal procuratore dell'Arcivescovo sta data a' parsonali, che la coltivano colle loro fatiche ed a loro spese, dividendo poi il fruttato per metà; perché quando la coltivava il procuratore a sue spese, cioè da quelle che ritraevansi dalla stessa vigna, non rendea più che soli cento ducati in circa, secondo il conto fatto. Onde io quasi mi prendo rossore di tediare la mente di V. M. per questa controversia, che si riduce ad una miseria, mentre le mela, che fanno la maggior rendita della vigna, non fruttano ogni anno, ma alternativamente, e talvolta per due anni continui gli alberi delle mela non han fruttato.


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Tutto ciò che ho esposto apparisce dalle scritture e da' conti dati dal procuratore all'Arcivescovo. È vero che per l'avvenire si spera che la vigna possa rendere qualche maggior frutto per ragion delle castagne e celze [gelsi] che stanno in aumento, ma questo maggior frutto, al più che potrà giungere, sarà di altri 40 o 50 ducati di più. Sicché tutta la speranza si riduce a ricavarne da questa vigna 250 ducati; ma facciamo che si avanzi sino a 300 e sino a 350, quando arriveremo ai 500?

Si aggiunge di più un altro punto di molto peso e decisivo di ogni pretensione del Barone, ed è che nell'anno 1755, essendo morto il donante D. Andrea Sarnelli, esso Barone, come erede del medesimo, affacciò alcune pretensioni sovra la suddetta vigna, e poi venendo a convenzione coll'arcivescovo di Salerno, con istromento, stipulato a' 7 di dicembre del 1755 per notar Nicola Letizia di Napoli, ratificò la donazione fatta da suo fratello D. Andrea all'Arcivescovo, e cedé a tutte le sue ragioni sovra la vigna, per la paga di ducati mille, de' quali già ne ha ricevuti da noi ottocento.

Or come al presente può egli mandare a terra questa cessione da lui fatta, e pretendere che si dichiari invalida la donazione fatta all'Arcivescovo?

Egli risponde che tal istrumento di transazione non gli osta, per ragion che i nostri compagni sono incapaci di ogni acquisto in comune di annue rendite per lo dispaccio reale, e che il più che può pretendersi da noi è, che si riduca la suddetta transazione ad jus et justitiam, e si vegga se i Padri missionarî siano obbligati o no al rifacimento.

Dice dunque il Barone che la transazione è nulla, perché i nostri soggetti non son capaci di acquistare annue rendite in comune. Ma prende abbaglio; poiché colla transazione non e che noi abbiamo acquistate le rendite della vigna, che non possiamo avere in comune, ma è che con quell'istromento il Barone ha ceduto alle ragioni che avea sovra la vigna, e così non

può più impedirci il beneficio di ricavar il sussidio, o sia limosina assegnataci dal Re Cattolico; poiché, se il Barone non


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avesse con quella cessione rinunziato alle sue ragioni, l'arcivescovo di Salerno, amministratore della vigna, non avrebbe potuto somministrarci la suddetta limosina, e perciò noi abbiamo cacciati dalle nostre miserie 800 ducati, pagandoli al Barone, acciocché tal limosina non ci fosse da lui impedita.

In quanto poi al delitto che ci oppone di aver noi, posseduta ed amministrata la vigna da assoluti padroni, senza farvi ingerir Arcivescovo, rispondo: È certo che l'Arcivescovo non potea venire da Salerno a' Ciorani a governar la vigna. Altro non potea fare che deputare un procuratore che la governasse, con farla coltivare, far pagare il catasto e gli altri pesi, e del restante somministrare a noi il sussidio assegnato, secondo gli ordini reali. E così si è fatto, come apparisce dagli obblighi fatti da' parsonali [coloni] al procuratore deputato dall'Arcivescovo, D. Tarquinio Milone, e da' conti renduti dal medesimo all'Arcivescovo coll'assistenza del sindaco e governatore del luogo come ordinava il dispaccio.

Or come proverà il Barone che ciò non è vero, ma che noi abbiamo posseduta ed amministrata la vigna da assoluti padroni, senza farvi ingerire l'Arcivescovo? Lo proverà forse con rapportare attestati di coloro, che han veduti i nostri Fratelli servienti invigilare sovra gli operarî, ed assistere per far coltivar la vigna? Ciò da noi non si nega, ma in ciò non abbiamo certamente inteso di contravvenire agli ordini reali, stante che il suddetto procuratore, essendo egli parroco, e non potendo sempre assistere per gli affari della sua cura alle fatiche da farsi nella vigna, ha voluto che noi mandassimo i nostri Fratelli ad assistere in sua vece. Il che abbiamo creduto non esserci vietato anzi esser necessario, perché altrimenti la vigna, senza coltivarsi come doveasi, poco o niente avrebbe renduto, e ci sarebbe mancata anche quella misera limosina che sinora ne abbiamo ricavata. Oltrecché questa assistenza de' nostri Fratelli è stata prima; ma da tre anni in qua il procuratore ha data la vigna a parsonali, e quelli l'han coltivata e coltivano a conto loro,


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chiamando essi e pagando gli operarî che vi bisognano, con dividersi in fine i frutti renduti.

Dice di più il Barone che i nostri Padri han fatti vari acquisti nella terra di Ciorani, e specialmente di alcuni corpi feudali sogetti alla Quarteria, senza pagarla.

Si risponde, che questi corpi sono certi piccioli pezzi di terra, e questi sono stati comprati da un certo galantuomo della Cava, D. Paolo de Marinis, e da lui quelli della casa de' Ciorani se l'hanno affittati per ducati 13 l'anno, come apparisce dalle scritture delle compre e dell'affitto. In quanto poi alla Quarteria, per cui si lagna il Barone di non essergli stata pagata, ciò non s'appartiene a noi; se gli spetta, se la faccia pagare dal compratore.

Dice di più, che secondo il dispaccio essi sacerdoti non possono vivere a forma di collegio e comunità; ma essi hanno Regole e Superiori.

Rispondiamo, che il dispaccio non dice altro che S. M. non riputava le nostre case come collegî e comunità; ma non proibisce che i nostri missionarî possano vivere con Regole e Superiori, come l'hanno i seminari e tutti gli altri convitti, e l'hanno anche i reclusori de' vagabondi. Onde avendo S. M. Cattolica permesso ad essi sacerdoti conviventi, come dice il dispaccio, e adunati sotto la direzione del sacerdote D. Alfonso de' Liguori, di convivere nelle quattro case di Ciorani, Caposele, Iliceto e Nocera, conseguentemente ha concesso loro il vivere con Regole e direzione de' Superiori; altrimenti senza Regole e Superiori, come potrebbero convivere in pace e mantenere l'Opera delle missioni, vivendo ognuno a suo capriccio? Sarebbe un convitto di continui contrasti ed inquietudini, perché ognuno vorrebbe che si facesse quel che a lui piace.

Dice di più, che noi ci siamo dichiarati che non siamo soggetti a' Vescovi, ma solamente al Papa. Rispondiamo che la stessa nostra Regola, approvataci dal Papa, ci obbliga di stare in tutto subordinati agli Ordinari de' luoghi.

Dice di più, che noi colle limosine avute nel Regno abbiamo

fondata un'altra casa in Benevento, facendoci abitazione e


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rendite Ma V. M. ben potrà informarsi, per mezzo de' suoi ministri, quante sieno le gran ricchezze che abbiamo in Benevento; ma troverà che ivi non possediamo che una gran povertà, per cui appena si giunge a vivere, e si vive parimente di limosine. E vero che ivi si è fabbricata la casa con alcune limosine ricevute da' divoti, ma buona parte delle medesime l'abbiamo avuta da Monsignor Pacca, arcivescovo passato di Benevento, che ci ha dati da tre mila ducati. I nostri sacerdoti poi, che stanno in quella casa, non tanto s'impiegano in far le missioni nello stato di Benevento, ove i paesi sono molto pochi, quanto nelle missioni de' luoghi del Regno di V. M.

Dice di più che noi ci siam protestati di non andar questuando, ed ora non facciamo altro che questuare.

Rispondo: questo punto del questuare sta espresso nel dispaccio, ove si dice: e giacche' in dette missioni essi tengono il lodevol costume di non andar questuando ecc. Sicché solamente nelle missioni a noi non è lecito il questuare, ma non fuori del tempo delle missioni.

Vorrei sapere dal Barone come hanno da vivere i miei poveri compagni? La Maestà del Re Cattolico volle che si mantenesse quest'Opera delle missioni, per lo bene de' suoi vassalli; ma ci proibì l'aver rendite annuali. Il Barone vuole ora che ci sia vietato ancora il questuare: dimando come si ha da mantenere l'Opera?

Niente è vero poi, com'egli dice, che il nostro intento è di arricchire e straricchire.

Noi appunto, domandando l'approvazione dalla Sede Apostolica, cercammo che il Papa ci limitasse le rendite per ciascuna casa, acciocché le case non avessero più di quello ch'è puramente necessario per vivere poveramente, secondo il nostro Istituto, e per far le missioni; e perché?- perché sappiamo, che le soverchie rendite fan perdere lo spirito e l'osservanza; e così il Papa ci limitò le rendite.

Dice di più il Barone che il suo padre, D. Angelo Sarnelli,

dispose che si facessero alcune opere pie in beneficio de' poveri,


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dalle rendite di alcuni territori incorporati alla vigna, e che noi non ci curiamo di sovvenire i poveri.

Rispondo che se in ciò si mancasse, la colpa non sarebbe nostra, ma del procuratore. Ma no, che in ciò il procuratore non colpa; perché leggo, ne' suoi conti dati, che l'obbligo di quest'opere pie ben si è soddisfatto. Del resto in Ciorani sono continue le limosine, che dalla nostra casa si fanno a' poveri della terra, come a tutti è noto. Chi vive di limosine, bisogna che faccia limosine.

Dice di più che noi facciamo negozî di vino e di altri generi, giungendo sino a far monopoli, mentre compriamo i frutti degli altri territori, per esser poi soli a venderli.

Veramente i miei compagni hanno gran danaro in cassa per far negozî e monopoli. Qual'è stato il negozio di vino che han fatto? E stato che si sono comprate alcune botti di vino, ma queste, parte han servito per la casa di Nocera, e parte per uso della stessa casa di Ciorani; e quello che si è venduto e stato dalla stessa vigna, dato loro in conto della limosina assegnata del tarì per ciascuno.

Del resto, la verità si è, che nella casa di Ciorani, come sanno tutti, i miei Fratelli stan pieni di debiti; e se non vi fossero i benefattori che soccorrono colle loro limosine, quei miei poveri compagni, non vi potrebbero vivere neppure due sacerdoti e due servienti, secondo le rendite della gran masseria che di sovra a V. M. ho rappresentate.

Dice per ultimo che noi, dopo tanti benefici che abbiamo ricevuti da lui e dalla Baronessa (che l'abbiamo spogliata), gli siamo stati così ingrati, dando consigli a suo danno e parlando contra di lui sin dal pulpito.

Dice che noi teniamo una congregazione di uomini, a fin di tenere tutta quella gente a nostra divozione e fare il sindaco a nostro arbitrio. Dice che ci siamo vantati di poterlo opprimere, tenendo sei mila ducati riserbati per fargli guerra, e più altre cose alle quali io non voglio rispondere; mi persuado però che non si troverà persona che le creda. Il vero è che tutte queste


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ingratitudini, ch'egli espone, nascono o dalla malevolenza di taluni che gli rapportano quello che non è, o pure dal poco affetto ch'egli ha per noi, che gli fa apprendere molte cose senza fondamento. Del resto, io ed i miei compagni siamo stati sempre attenti ad usargli tutte le convenienze dovute; e se mai vi è stato talvolta qualche difetto, è stato certamente più difetto d'intelletto che di volontà: difetti che neppure Iddio li punisce.

Ma finalmente vorrei sapere dal Barone, quando mai dovesse dismettersi la casa di Ciorani, con dichiararsi nulli, così l'istromento della donazione fatta da suo fratello all'Arcivescovo, come l'istromento di transazione, col quale ha ratificata la detta donazione, ed ha ceduto a tutte le sue ragioni sopra la vigna; come può egli pretendere che la vigna si restituisca a lui come erede di suo fratello? Quandoché, anche dismessa la casa di Ciorani e dichiarata nulla la donazione fatta all'Arcivescovo, la vigna spetta per giustizia a me ed a' miei successori, in virtù della prima donazione, fattami dal sacerdote D. Andrea, coll'istromento di sopra riferito, in cui volle che, non facendo esso altra disposizione, la vigna restasse intieramente a mio beneficio, per farne opere pie, secondo la sua intenzione comunicatami ad aures, in disgravio di sua coscienza.

Io per tanto ed i miei poveri compagni, che continuamente s'impiegano nelle missioni de' paesi del vostro Regno, imploriamo da V. M. La sua real protezione sulla nostra minima Adunanza; e specialmente nel tempo presente, in cui ci vediamo combattuti da più parti; mentre ho inteso che alcuni cittadini d'Iliceto, dove abbiamo l'altra casa, andando (come suppongo) di concerto col Barone Sarnelli, hanno appresso V. M. affacciate contra di noi quasi le stesse accuse, sperando, col rinforzare la guerra, di vederci distrutti.

Ma noi, confidati alla pietà di V. M., speriamo tutto il suo real patrocinio per quest'Opera delle missioni de' luoghi abbandonati della campagna, in cui vivono tante migliaia de' suoi


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vassalli che, rendendosi fedeli a Dio per mezzo delle missioni, saranno fedeli anche a Vostra Maestà. Prego Dio a colmare la M. S. di ogni felicità temporale ed eterna, ed innanzi al suo real Trono profondamente m'inchino.

Umo ed ossqmo vassallo di V. M. ALFONSO MARIA DE' LIGUORI vescovo di Sant'Agata de' Goti, e Rettor Maggiore dell'Adunanza de' Missionarî detti del SS. Redentore

Conforme all'originale stampato, che si conserva nel nostro archivio generalizio di Roma.




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