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S. Alfonso Maria de Liguori
Dell'uso moderato dell'opinione probabile

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CAPITOLO VIII – SI RISPONDE AD ALCUNE DOTTRINE DI S. TOMASO CHE IRRAGIONEVOLMENTE CI SI OPPONGONO.

 

1. Il mio oppositore vuol confutare la nostra sentenza con alcune autorità del Maestro angelico, alle quali per altro già si è risposto mille volte e distesamente da me e da altri; ma per soddisfazione de' lettori si risponde qui brevemente. In primo luogo adduce la dottrina che il Santo scrive nella


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qu. 3 de malo, art. 7, ove dice: Non est absque præsumptione quod aliquis de ignoratis sententiam fert. Primieramente potremmo dire che questa dottrina è contro il p. lettore, mentre egli de ignoratis sententiam fert. Ma vediamo che cosa da questa autorità esso ne deduce: «Se taluno (dice) vuol celebrare un contratto il quale è probabile che sia proibito, come mai, non sapendo già che quello certamente sia lecito, può decidere che certamente è lecito? Per rispondere bisogna tornare di nuovo a ripetere quel che tante volte si è replicato di sopra. Bisogna distinguere il giudizio speculativo dal pratico. Speculativamente parlando, quel contratto sarà probabilmente ingiusto e probabilmente giusto; ma, per la sola probabilità che sia giusto, il contratto non può lecitamente celebrarsi. In pratica però, posto che il contratto è probabilmente giusto, può lecitamente farsi, non già per la sola probabilità della giustizia, ma per lo principio certo riflesso che in tal caso non v'è legge che obblighi a non celebrarlo; mentre, essendo ella dubbia, non è promulgata a segno che basti ad obbligare. Sicché allora non già decide il contraente, come dice il p. lettore, che quel contratto certamente non è proibito dalla legge, ma sta sicuro che allora la legge (se mai vi fosse) certamente


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non obbliga, e così lecitamente lo celebra; onde diciamo che in tal caso il contratto è dubbiamente giusto, speculativamente parlando, ma in pratica è certamente lecito.

 

2. In secondo luogo adduce la dottrina che scrive S. Tomaso nel quodlib. 8, all'art. 13, ove, parlando della questione se sia lecito avere più prebende, dice che quando taluno non habet conscientiam de contrario, sed tamen in quandam dubitationem inducitur a contrarietate opinionum et sic, si, manente tali dubitatione, plures præbendas habet, periculo se committit et sic procul dubio peccat: aut ex contrariis opinionibus in nullam dubitationem adducitur, et sic non committit se discrimini nec peccat. La seconda parte di questo testo non può intendersi come la spiega il p. lettore, dicendo che S. Tomaso qui parla di chi non è entrato mai in alcuna dubitazione; perché il Santo chiaramente dà antecedentemente ad intendere che parla di chi già ha dubitato dell'onestà di poter avere più prebende, col dire: non habet conscientiam de contrario, sed tamen in quandam dubitationem inducitur ex contrarietate opinionum et sic, si, manente tali dubitatione etc., con quel che seguita, come di sopra. Dicendo poi: aut ex contrariis opinionibus in nullam dubitationem adducitur etc., suppone certamente


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che il chierico dal dubbio speculativo che prima aveva è passato ad aver la certezza morale, per cui in pratica si forma il dettame certo di poter possedere più prebende. Onde bisogna intendere il testo dell'Angelico, come lo spiegano gli altri con Cristiano Lupo. Dice il Santo: Manente tali dubitatione, periculo se committit, et sic procul dubio peccat. Chi opera col dubbio pratico, senza aver motivo certo da poterlo deporre, certamente pecca, perché si espone al pericolo di peccare. Siccome dello stesso dubbio pratico parla S. Tomaso in quell'altro testo, riferito dal p. lettore: Qui aliquid committit vel omittit in quo dubitat esse peccatum mortale, peccat mortaliter discrimini se committens. 4 sent., dist. 2, q. 2, a. 3 ad 3. Ma se poi, dice il Santo nel primo testo addotto, ex contrariis opinionibus in nullam dubitationem adducitur, in modo che si formi il dettame certo in coscienza di poter tenere lecitamente più prebende, allora non si espone ad alcun pericolo né pecca. Quindi giustamente il p. fra Giovanni di S. Tomaso, vide in 1, 2, q. 90, adduce appunto questo testo dell'Angelico in favore della nostra sentenza. Ed in verità non può in altra maniera intendersi come chi dubita in mezzo a due opinioni contrarie possa formarsi il dettame certo di poter seguire l'opinione


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men sicura, se non col giudizio riflesso che gli rende certa l'onestà dell'azione.

 

3. In terzo luogo oppone il p. lettore un altro testo di S. Tomaso, ove, parlando il Santo delle leggi umane, dice che non può operarsi contro le parole della legge, se non quando manifestum est per evidentiam nocumenti legislatorem aliud intendisse. Si enim dubium sit, debet vel secundum verba legis agere vel superiorem consulere. 1, 2, q. 96, art. 6 ad 2. E così va certamente, che quando le parole della legge sono espresse non può operarsi in contrario di quelle, se non è manifesto che in qualche caso il legislatore abbia inteso altrimenti di quel che ha espresso nella sua legge. Che se poi si dubita di questa intenzione diversa, allora o dee osservarsi la legge, o dee ricorrersi al superiore per sapere il suo sentimento: poiché quando le parole della legge son chiare ed espresse, dice il Santo che al solo superiore sta l'interpretar la legge. Ma che ha da fare questo caso col nostro, dove non si tratta di operare contro le parole espresse della legge, ma solo contro l'opinione che vi sia la legge, ossia contro una legge dubbia, la quale, non essendo abbastanza espressa e promulgata, certamente non obbliga? Rapporta ancora ivi il p. lettore in conferma del suo dire un passo del p. Suarez, de


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legib. lib. 6, cap. 8, n. 10. In quanto alla dottrina del p. Suarez, avrei già la risposta chiara, che si ricava dalle stesse parole del p. Suarez riferite dal p. Patuzzi; ma, per abbreviare, dico solo questo: come mai il p. Suarez può essere a suo favore, mentre il Suarez in altro luogo scrive chiaramente quel che noi difendiamo? Dicendo: Quamdiu est judicium probabile quod nulla lex sit prohibens actionem, talis lex non est sufficienter proposita homini; unde, cum obligatio legis sit ex se onerosa, non urget donec certius de illa constet. De consc. prob., d. 12, sect. 6.

 

4. In quarto luogo adduce un altro celebre testo di S. Tomaso nel quodlib. 9, all'art. 15, ove dice: Error quo non creditur esse mortale quod est mortale conscientiam non excusat a toto, licet a tanto. Questo testo già fu da me riferito ed esaminato di sovra e nella mia dissertazione, ed ivi già notai come spiega S. Antonino quelle parole non excusat a toto: dice il santo Arcivescovo: Sane intelligendum quando erraret ex crassa ignorantia; secus si ex probabili, cioè quando si controverte tra' savi, se un contratto sia o no usurario; del quale caso parla appunto ivi S. Antonino, soggiungendo ivi: cum sapientes contraria sibi invicem sentiant. Par. 2, tit. 1, c. 11, § 28.


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Poiché allora, dice il Santo, vi è l'ignoranza quasi invincibilis, quæ excusat a toto. Ed è chiaro dal contesto che S. Antonino intanto dice che l'ignoranza nel conflitto di due opinioni probabili scusa, in quanto allora v'è l'ignoranza invincibile della certezza della legge; e perciò, essendo ella incerta, non induce obbligazione certa. Lo stesso poi che dice S. Antonino spiegando il testo dell'Angelico - non excusat a toto - ho trovato che lo dice ancora il p. Gonet: Loquitur (S. Thomas) de errore crasso aut vincibili, qui oritur ex negligentia addiscendi. Man. to. 4, tract. 6 de leg., § 4. E così necessariamente dee intendersi: poiché (come abbiam veduto di sovra al cap. II, n. 4) il santo Dottore in tanti luoghi insegna darsi senza dubbio l'ignoranza invincibile anche de' precetti divini, parlando di quelli che son rimoti da' primi principj.

 

5. Non piace poi al p. Patuzzi la spiegazione da me data a questo testo nella mia dissertazione, cioè che il Santo non parla qui dell'onestà dell'azione ma della verità della cosa com'è in sé stessa. Scrive il p. Patuzzi che se io avessi veduto S. Tomaso angustiato nel decidere qualche dubbio morale, gli avrei detto: Ma che tante angustie e timori? non avete voi ricercata la verità? Se dunque dopo tal diligenza resta la cosa dubbiosa,


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lecitamente può farsi, giacché non v'è legge che la vieti. Ma mi permetta il p. lettore di dirgli parimente: e perché V.R. non avrebbe potuto ancora dire a S. Tomaso: Santo mio, a che tante angustie? benché la legge resta dubbiosa, nondimeno è certo l'obbligo di osservarla. Ma S. Tommaso risponderebbe ch'egli in quel luogo parla del giudizio diretto: ma in quanto al giudizio riflesso ed all'ultimo dettame, egli ha dato già il principio generale, insegnando che la legge non ha virtù di obbligare, se non è promulgata all'uomo colla di lei cognizione; onde l'uomo non è tenuto ad alcun precetto, se non dopo che di quello n'è certissimo e ne ha ottenuta la scienza.

 

6. Così rispondo a' testi di S. Tomaso che mi oppone il p. lettore nel suo libro; e credo che le risposte non sono inette e deridevoli, come esso le stima. Ma esaminiamo qui per ultimo un altro testo del santo Dottore ch'io ho addotto già così nella dissertazione come nell'apologia. Il p. Patuzzi già sempre vi ha risposto, ma vediamo se le sue risposte sono adequate o no.

 




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