XII.
L’attentato e la morte.
Una bella mattina di maggio, fra Pasquale, stando nel suo
laboratorio, vide scendere per la china che conduceva nella piccola valle, una
formosa fanciulla trilustre, precocemente sviluppata. Il turgido seno le
torreggiava sotto la bianca camiciuola, la vita agile e sottile, stretta dal busto
sovrapposto, faceva spiccare maggiormente le sue anche poderose, ondeggianti
nell’incedere; il breve gonnellino lasciava scorgere il profilo di una gamba
nervosa e ben modellata.
Fra Pasquale ne fu colpito; i suoi occhi mandavano fiamme;
il sangue gli martellava le tempie; le sue labbra fremevano di desideri
voluttuosi.
— Ov’è diretta, quella gallinella? — chiese a se stesso
osservandola — Venisse da me?
E per non darle soggezione non si mosse, e cessò dal
guardarla fissamente, come dapprima aveva fatto.
La fanciulla continuava a scendere pian piano pel sentiero
serpeggiante; ma ad ogni tratto si fermava, ora volgendo gli occhi in alto
dalla parte donde era calata, ora al basso della valletta, ove era diretta. Si
vedeva dalle sue esitanze che aveva ancora degli scrupoli a superare.
Forse il suo angelo custode a destra le mormorava
all’orecchio: «Torna indietro.» Allora rimaneva per un istante sul pendio col
pie’ sospeso. Ma il diavolo da mancina era pronto ad incoraggiarla e le diceva:
«Che temi, sciocca? Vuoi o non vuoi esser certa che Felicino ti ama e che ti
sposerà? Tira innanzi». E allora la fanciulla moveva parecchi passi affrettati
giù per la china.
Ma ad un certo punto parve che il suo buon angelo avesse
ripreso il sopravvento. Era ormai giunta a tre quarti della discesa: vedeva
distintamente l’interno della capanna e fra Pasquale, che fingendosi intento
alle faccende del suo laboratorio, non tralasciava di sorvegliarla. D’un tratto
si voltò e riprese a risalire per la stradicciuola con gran furia.
Evidentemente non voleva lasciar tempo al suo cattivo consigliere di
sospingerla alla meta peccaminosa.
Disgraziatamente pose un piede in fallo, incespicò in un
sasso sporgente ed acuminato che la ferì alla clavicola e cadde rotoloni per
buon tratto di strada, finché le sue vesti impigliatesi ne’ pruni la
sostennero.
Fra Pasquale accorse tosto in suo aiuto.
Quando le fu vicino s’accorse che era svenuta e si fermò ad
ammirare le stupende forme, dalle carni rosee e vellutate, che rimanevano
scoperte, essendosene il guarnellino rimboccato, per effetto delle spine che lo
trattenevano.
Invaso dal furore erotico, il lubrico eremita, stava per
approfittare brutalmente di quella innocente creatura, nella stessa posizione
in cui si trovava. Ma un barlume di ragione ne lo trattenne.
Staccò pian piano le vesti della fanciulla dai pruni, quindi
recatasela sulle braccia, la trasportò nella capanna, e la depose sullo
splendido letto a baldacchino del compartimento segreto.
La giovinetta era in preda ad un deliquio, cagionatole dallo
spavento della caduta e dal dolore acuto prodottole dalla ferita, che aveva
fatto sangue.
Fra Pasquale le tolse innanzitutto gli stivaletti e le
calze, le lavò le ferite coll’acqua di fonte, le applicò dell’arnica fresca,
che andò a cogliere a pochi passi dalla capanna, ove la coltivava, trapiantata.
Quindi le levò il candido pannolino che le copriva il capo:
la ricca capigliatura, sciolta così da ogni ceppo le cadde lungo le spalle
incorniciandole il bellissimo volto ovale, pallido, ma pur sempre fiorente di
giovinezza.
La fanciulla non si svegliava: fra Pasquale prima di
spruzzarle il volto, o di darle ad odorare dei sali, che l’avrebbero richiamata
in sensi, volle svestirla completamente: le slacciò il busto, con ansia
febbrile, e le strappò i bottoni della bianca camiciuola la quale cadde,
offrendo alla vista del libertino eremita i tesori d’un bel seno virginale.
Liberata così dall’oppressione, che il busto le cagionava, la respirazione
della giovinetta diventò regolare e poco a poco le sue labbruzze ripresero il
bel colore corallino e le gote le si rifecero vermiglie.
Fra Pasquale la contemplava estatico.
Nulla di più leggiadro si era mai offerto a’ suoi avidi
sguardi.
Egli tratteneva il respiro, per tema di destarla, e mentre
le sue pupille rutilanti la dardeggiavano, colle nari dilatate assorbiva le
fraganze soavi, emanate da quel corpo di Psiche.
La fanciulla sollevò lentamente, dopo breve istante le
lunghe ciglia, quindi le palpebre, de’ suoi grand’occhi morati, e così stette
per un momento immobile e silenziosa. Non aveva per anco ricuperato il pieno
esercizio delle facoltà mentali: il deliquio le incombeva ancora sul cervello.
Ma fu un affare di pochi secondi.
D’un tratto gettò un acutissimo grido dalla bocca socchiusa
e si alzò a sedere sul letto, incrociando le braccia sul seno per sottrarlo
pudicamente agli sguardi dell’eremita, che la bruciavano.
— Dove sono, mio Dio, dove sono? — domandò piangendo.
— Non temere, fanciulla, le rispose fra Pasquale, sei in
casa tua: qui sei padrona e regina.
— No, no. Lasciatemi — gridò la giovinetta invasa dallo
sgomento, e tentò di balzare dal letto..
Ma il frate la trattenne avvincendola solidamente fra le sue
braccia.
Allora incominciò una lotta formidabile, fra la fragile
creatura che difendeva il suo pudore, con energia disperata, e l’osceno
eremita, che dominato dalla passione bestiale, non aveva più nulla d’umano,
neppure il volto velloso e reso adusto dal sole.
Vinse il pudore.
Discinta, coi capelli sciolti sul capo e sul petto, col viso
madido di sudore e di lagrime, la giovinetta, riuscita a svincolarsi, s’era
messa a ginocchioni ed abbracciava le gambe dell’eremita, supplicando:
— Lasciatemi, padre, lasciatemi, o ne morrò.
E veramente il suo parossismo era giunto a tale, che faceva
temere, non foss’altro, per la sua ragione.
Fra Pasquale comprese, che quella fanciulla ridotta in così
disperate condizioni d’animo, non le avrebbe procurato alcun godimento, e,
siccome non intendeva di rinunciarvi, mutò tattica.
Si finse dolente dell’accaduto, pentito del suo eccesso e ne
chiese scusa alla giovinetta colle più dolci, più insinuanti, più umili parole.
Era stato un delirio momentaneo. Aveva voluto farla rinvenire e guarirla. La
vista di tanta bellezza l’aveva reso dissennato. Se non otteneva il suo perdono
sarebbe morto dannato. Tutto quel tanto di vita che gli rimaneva, non sarebbe
bastato, pur infliggendosi patimenti d’ogni genere, ad espiare.
La fanciulla rialzata, ricoperta co’ suoi vestiti, man mano
si rinfrancò e, ingenua com’era, credette alla mendace parola dell’astuto
eremita, il quale spinse l’ipocrisia fino a farla inginocchiare al suo fianco
sulla stuoia, dell’altro compartimento, innanzi al crocifisso e a dichiarare
che gli perdonava di cuore il suo trasporto.
Ricuperata la fiducia, la fanciulla non esitò a confessare
il motivo che l’aveva guidata colà. Aveva un amante che la doveva sposare. Era
partito da parecchio e ancora non le aveva dato nuova di lui. Desiderava di
sapere che cosa era accaduto; se il suo Felicino le volesse sempre bene, se
sarebbe tornato, se l’avrebbe sposata per davvero. Le avevano detto che quivi
si trovava un eremita, un sant’uomo che avrebbe potuto farle conoscere tutto
ciò, ed aiutarla, pure, a conseguire ciò che ardentemente bramava. Perciò era
venuta.
Ma mentre scendeva dalla china una voce le diceva di non
farlo: aveva voluto tornare sopra i suoi passi, era caduta e da quel momento
non sapeva più nulla.
Fra Pasquale la confortò. Finse di consultare certi vecchi
libri che teneva nel laboratorio; poi trasse una boccia, la riempì d’acqua e
lasciandovi cadere goccia a goccia da una fialetta un liquore verdastro che
formava delle spire opaline e si scioglieva lentamente, le palesò ciò che
diceva aver tratto da’ suoi esperimenti.
Il suo amante l’avrebbe sposata, l’amava ancora, ma un’altra
donna voleva rapirle il suo affetto: era necessario neutralizzare gli sforzi di
quella donna.
— Mio Dio, come fare? chiedeva la povera creatura,
torcendosi le mani, addolorata e piangente.
— Rasserenati e confortati, bimba mia. Io ti darò un filtro,
bevendo il quale, il tuo amante prenderà in orrore la tua rivale.
— Costerà di molto? — domandò l’ingenua giovinetta,
portandosi le mani alle orecchie, per togliersi gli anelloni d’oro che le
adornavano.
— Costa di molto sicuramente — rispose l’eremita; ma io te
l’offro, senza spesa, in espiazione del mio fallo.
E tratta una boccetta, che teneva riposta, ne bevve una metà
e ne porse il resto alla fanciulla che, così rassicurata, la tracannò d’un
fiato; era un sonnifero potente, misto ad un afrodisiaco non meno gagliardo.
Poi la congedò, conducendola fin sul limitare della capanna. La fanciulla
attraversò la valletta, lesta come una gazzella, e s’inerpicò sul sentiero
fatale, d’ond’era caduta.
Intanto Fra Pasquale rientrato nel laboratorio s’affrettava
a prendere per antidoto del sonnifero alcune cucchiaiate di caffeina. Quanto
all’afrodisiaco, pensò che gli avrebbe giovato anzicché nociuto. Quindi si
avviò dietro alla giovinetta.
La trovò adagiata alla sommità della discesa, sopra un
tappeto di musco, e presala sulle bracia un’altra volta, senza che desse un
segno di vita, la riportò sul letto, dove aveva tentato poco prima di
violentarla.
La fanciulla non uscì dalla capanna che all’indomani
mattina. Era irriconoscibile. Pareva disfatta. Una rosa divelta dallo stelo
dall’imperversare della bufera, e calpestata, avrebbe solo potuto dar un’idea
di lei.
Era trascorso un mese circa dal misfatto compiuto da Fra
Pasquale, quando una mattina capitò alla capanna un giovanotto sui venticinque,
vestito alla campagnuola e mostrando uno scudo, chiese all’eremita una medicina
per guarire sua madre, da una forte colica che l’aveva presa.
Fra Pasquale pose a bollire alcune fronde secche, tolte
dall’erborario, in una ampolla di vetro. Ma, mentre soffiava sulle braci per
ravvivare il fuoco, si sentì afferrato per il collo e rovesciato al suolo.
Non ebbe campo di porsi sulle difese, perché sempre
serrandolo con una mano alla gola, il giovanotto, gli saltò sul petto con un
balzo da gatto selvatico, e premendoglielo colle ginocchia, per tenerlo fermo,
lo strozzò.
Compiuto l’assassinio, il giovanotto andò a consegnarsi al
bargello di Collevecchio. Confessò il suo delitto. Eretto il processo fu
condannato e, come dissi, il 7 luglio io l’impiccai.
Era Felice Rovina, l’amante della fanciulla stuprata, la
quale al suo ritorno l’aveva reso edotto dell’onta subita.
Informato della cosa, poco dopo l’arresto del Rovina,
Monsignor Fiscale, mandò da Roma a perquisire la capanna di fra Pasquale e per
tal modo giunse a cognizione di tutto, e colle dovizie trovatesi si pagò ad
usura e della taglia pagata pel Perilli e delle susseguenti elargizioni.
|