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Carlo Righetti, alias Cletto Arrighi
Nanà a Milano

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  • XIV.
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XIV.

 

L'anima appassionata ha le sue rivoluzioni come la storia dei popoli. Lo spirito sotto l'aculeo dei tormenti morali si trasforma a poco a poco, accogliendo consigli e propositi dianzi sconosciuti.

Elisa all'annuncio della partenza di Enrico con Nanà, sentì d'essere stata scossa nel più profondo di tutte le sue convinzioni. Ogni sentimento ne fu stravolto. L'amore così confidente e puro, la speranza che le freddezze di Enrico fossero passaggere, quella stessa sua verginale indifferenza intorno al motivo sensuale, che allontanava da lei il suo giovine amante, e la stima immensa che essa gli conservava pur sempre, malgrado tutto, furono rovinati in un punto solo nel di lei cuore. Non le restava più dubbio. Enrico le aveva mentito.

Come fosse violento lo strazio della povera fanciulla, che pure, per istinto di orgoglio e per delicatezza verso sua madre, lo comprimeva dentro di sè, sarà chiaro a coloro che avranno capito bene quale fosse il carattere di Elisa. Forse ad altri parrebbe esagerazione. Essa non aveva neppure come le anime credenti un rifugio al dolore nella preghiera. Enrico le aveva insegnato che la preghiera verso lassù è un non senso, perchè nessuno nel cielo imaginario dei credenti può star ad ascoltare le querimonie degli afflitti, ed essa gli aveva creduto. La poverina sentiva dentro di sè qualche cosa che moriva. Essa comprendeva che forse, ancorchè Enrico fosse tornato a lei subito, non lo avrebbe più amato come prima, non gli avrebbe più creduto, non si sarebbe più, come moglie, data a lui con trasporto.

Elisa non aveva precisamente le nozioni, che danno lo schifo alle donne sapute, che sdegnano di accogliere un uomo che esce colle labbra roride dei baci d'altra donna. Ma capiva quasi per intuizione questo vero, e si disperava di sentire in cuore che il suo amore, così bello, era stato spezzato forse per sempre. Nondimeno, di quando in quando, in Elisa ardeva una fiamma intensa di sentimento, che si esaltava e che si ostinava a non voler credere il suo Enrico un traditore. La sua voce era tanto sincera quand'egli le aveva detto di amarla lei sola! Ella non l'odiava ancora. Essa voleva riudire le sue espressioni, avere da lui una spiegazione di quella sua mancanza di fede, essere da lui convinta che aveva mutato. E allora si sarebbe decisa sulla propria sorte.

Verso la metà d'ottobre, la famiglia Martelli ritornò a Milano. Di Enrico nessuna notizia.

Un giovedì, nel salotto stavano radunate quattro persone; era una brutta giornata, piovosa e buia. La signora Martelli, la Elisa presso al camino, parlavano fra loro sottovoce. Il marchese d'Arco in piedi addossato al focolare colle mani raccolte dietro la schiena, tacendo pensava. Egli era arrivato da poco e non aveva ancora parlato; don Ignazio passeggiava borbottando in su ed in giù.

- Mancherebbe anche questa - sclamò egli a un tratto - che mi facesse aspettare questo brigante d'un sor Marliani.

E diede un'occhiata al pendolo confrontandolo col proprio orologio.

- Tre e mezza - disse - e io gli aveva dato appuntamento alle tre.

- Si potrebbe sapere - domandò il marchese - quale sia il suo progetto, don Ignazio?

- Proporgli la transazione del cinquanta percento.

- Posso mettere anch'io una parola? - soggiunse donna Eugenia.

- Sì, la dica lei - sclamò il marchese - che sono certo non potrà essere che per bene.

- Volevo dire a mio marito che la transazione col... con quell'uomo che verrà tra poco è impossibile.

- Perchè impossibile? - sclamò don Ignazio fermandosi sulle gambe aperte. - Chi lo dice? Io ne ho messi al dovere di quelli peggiori del signor Marliani, io.

- Non parlo di costui - rispose la signora Eugenia con dolcezza - io parlo del tuo pupillo, il quale mi ha dichiarato molte volte di voler pagare i suoi debiti fino all'ultimo centesimo.

- Quand'è che ha dichiarato questo?

- Molte volte.

- Ma è matto da legare - gridava questi. - Egli vorrebbe fare anche quest' ultima castroneria per giunta?

- Caro il mio cavaliere - disse il marchese con quella sua pacatezza aristocratica, che non si smentiva mai. - A me pare che le sue donne abbiano perfettamente ragione.

- Ma va bene! Anche lei adesso, insieme alle donne. Tutti addosso a me. La casa abbrucia, diamoci il fuoco. C'è da perderne la testa!

- Andiamo, andiamo - osservò il marchese ridendo non la si riscaldi per così poco.

- È vero o non è vero, che queste cambiali furono da lui firmate, mentre non aveva ancora il diritto di firmarle, secondo il testamento di suo padre?

- E così? - domandò il marchese.

- Come, e così? Vuol dire che la sua firma vale quanto quella d'un minorenne o d'un interdetto, che per legge non valgono nulla.

- Ma che c'entra qui la legge, caro cavaliere? Dall'avere ventitre anni e trecentosessantaquattro giorni, all'averne ventitre e trecentosessantacinque, che è come a dire ventiquattro, non scorre che un giorno, anzi, che dico, un'ora, un minuto. E vorrebbe lei che un uomo d'onore credesse di non essere un minuto prima quello che la legge gli concede di essere un minuto dopo?

- Oh, caro marchese - ribattè il notaio - le chiacchere son chiacchere e i danari son danari. Io sono un uomo positivo, io. Io guardo in faccia alla legge, alla maestà della legge, e non vado a cercare cinque ruote in un carro.

- La legge, caro cavaliere, è stata fatta per coloro che non ne hanno un'altra assai più bella e più forte a questo posto - rispose con molta nobiltà il marchese, ponendo una mano sulla sinistra del petto. - I galantuomini a Milano e dovunque hanno una legge che vale più di tutti i Codici di questa terra, e più di qualunque timore dell'altro mondo e che si chiama il punto d'onore.

- Sì, il punto d'onore non lo nego è una bella cosa, - disse don Ignazio. - Ma se questi briganti di strozzini si accontentano di pigliar la metà dovremo dar loro il tutto?

- Si accontentano è un modo di dire. Ma la questione non è lì. Non sono gli usurai che devono essere contenti, è l'Enrico.

- Dunque egli dovrà proprio esser rovinato di rami e di radici? Venduto che sia il podere e questa casa all'Enrico non restano più di trenta o quaranta mila lire.

- C'è stato un re di Francia - disse il marchese - che dopo la battaglia di Pavia ebbe a dire: tutto è perduto fuor che l'onore.

- Oh ma l'Enrico non è re di Francia e noi non siamo a Pavia - sclamò il notaio con un certo disprezzo. - Se a Milano si saprà che O'Stiary ha pagato fino all'ultimo centesimo mentre avrebbe potuto farne di meno faranno tutto quanti una figura di cioccolattiere.

 

*

* *

 

Nel frattempo la povera Elisa, restava là presso sua madre immobile, incerta e senza parola.

Quando udì da suo padre il nome del suo Enrico sentì il dolore sgrupparsi nel petto e si mise a lagrimare sommessa.

Sua madre se ne accorse.

- Non far così Elisa - le disse sottovoce - tu finirai coll'ammalarti, cara la mia figliuola, se continui ad accorarti in questo modo.

- Oh, magari mi ammalassi, che almeno non sentirei più nulla, non vedrei più nulla, non mi direbbero più nulla. Io non desidero che di morire.

- Ma che cosa dici Elisa? Non far così dunque, te ne scongiuro.

- Che cosa mi resta a fare a me a questo mondo?

- Oh, ti resta di voler bene a me, che morirei subito se tu mi avessi a mancare. Vorresti tu forse far morire tua madre?

- Oh, no, mamma - rispose la Elisa abbracciandola con affetto. - Ebbene, io mi farò suora.

- Ma che suora? - sclamò don Ignazio che aveva colta a volo la frase di sua figlia. - Ho da sentir di peggio? Non si usa più adesso ad andar monaca. Non troveresti neppur il monastero.

- Oh, non è vero! Mi sono già informata.

- Bella risorsa! Suora di carità! La prima carità comincia da casa sua. Non mancherebbe altro che di dover perdere l'unica figlia per quel bel mobile d'un signor conte.

Il babbo, sbirciava la sua figliuola, come chi sente compassione, e pur non vorrebbe mostrarla.

- Ma chi doveva andar a pensare una cosa simile? - ripigliò - Anch'io dico il vero m'ero lusingato che tu saresti diventata la signora contessa, e che poi colla vostra influenza avrei potuto... basta, castelli in aria!... tutte cose andate a monte.... Ma io lo so di chi è la colpa.

E così dicendo strisciò un'occhiata rapida sul marchese e sua moglie.

- Lo dici forse per me? - domandò questa.

- No, lo dico per me!

- Scusa, ma avresti torto.

- Lo dico per te, lo dico per il marchese, e lo dico perfino per quella vecchia minchiona d'una balia, che andò a prestargli i danari che aveva messi da parte. Tutti quanti contro di me. Pareva fossi io quello che gettava i danari dalla finestra.

Il marchese s'accontentò di sorridere e di crollare il capo.

La signora Eugenia invece non stette zitta:

- No, no, per te non c'è questo pericolo! Io non ti dicevo altro se non che non bisognava lasciarlo andar in mano degli strozzini.

- Brava! Perchè non dici addirittura che sono stato io a metterlo in mano degli strozzini?

- Già è inutile parlare con te - disse come rassegnata la signora Eugenia. - Io dico soltanto che se tu l'avessi preso colle buone quando è venuto la prima volta a contarti quello che gli era capitato, e se tu gli avessi pagati i primi debiti egli avessi...

- Brava, benone! I primi debiti erano debiti di giuoco. - Chi gli ha detto di pagarli?

- Oh ma che dici?

- La legge non li contempla - proseguì il notaio imperterrito.

- Tu sei riuscito perfino a rimproverarlo perchè faceva delle carità - disse la signora Eugenia.

- Sicuro, e me ne vanto! E lui, che crede di essere un liberale, dovrebbe sapere che i suoi filosofi, i suoi progressisti, dicono che la carità fatta in quel modo è una cattiva cosa, perchè fomenta l'ozio che è il padre dei vizi. Non sono io che ha inventata questa dottrina... E poi se il far la carità è una soddisfazione dell'amor proprio che si prova, bisogna saper fare un sagrifizio e privarsene!

Entrò il servo recando una lettera.

Era Aldo Rubieri che annunciava al notaio di aver parlato al sindaco per quella tal concessione, e d'esser pieno di buone speranze. La lettera terminava pregando il padre a volergli dire qualche cosa circa la risoluzione della signorina Elisa a suo riguardo.

«Proviamo un poco» pensò il notaio avvicinandosi alla fanciulla.

E cominciò:

- Senti un poco, Ida. Tu sai che il signor Rubieri, già da qualche tempo aspetta che tu gli dica che non lo rifiuti per sposo.

La Elisa ebbe come un sobbalzo.

- Non te lo dico - continuò suo padre - per forzare la tua volontà; ma siccome egli amerebbe sapere da te qualche cosa in proposito, mi volgo a te.

«Se accettassi?» - pensava intanto la Elisa. - «Ah, Enrico credeva forse di non esserci che lui a questo mondo?»

- Ormai - continuava suo padre - hai avuto tempo abbastanza di pensarci sopra, e questa volta se tu persisti a non volerne sapere sarà certo l'ultima volta che egli rinnoverà la domanda.

«Potrei vendicarmi in questo modo» - continuava nella sua testolina la fanciulla. - «Potrei fargli vedere che ci sono degli altri che mi cercano e che mi amano.»

- Che ne dici? Tu sai che sarebbe un eccellente partito.

- Ebbene sì, babbo - disse a un tratto la Elisa balzando in piedi. - Lo accetto.

«È piena di talento!» - pensò il babbo dal canto suo.

La madre invece le susurrava sottovoce:

- Ah, Elisa, non precipitare, pensaci sopra.

- Ecco là! - sclamò stizzosamente il notaio. - Appena a sua figlia viene una buona ispirazione lei fa di tutto per cacciargliela indietro.

- Guarda quello che fai - ripetè donna Eugenia. - Guarda a non pentirti più tardi.

- Oh, mamma, basta che io possa uscire da questa posizione orribile, ti giuro, sono pronta a qualunque sagrificio. Io non voglio che l'Enrico creda che io mi dispero per lui. Ormai l'ho atteso abbastanza.

- Brava! Che fermezza! Tutta suo padre!

- Sarebbe dunque più un puntiglio che altro? - le domandò sua madre.

- Ma lascia fare a lei una buona volta, o benedetta donna! - gridò il padre.

Poi rivoltosi alla Elisa:

- Tu sei disposta?

- Sono decisa.

- Per carità, Ignazio, non precipitare....

- Oh, che donna! Ha più giudizio lei che tu. Si potrebbe desiderare forse un migliore partito? È un artista, è vero, ma che artista! Bell'uomo! Ricco... assessore municipale....

- Va bene; ma non fa bisogno di rispondergli subito.

- Ebbene, faremo così - disse don Ignazio. - Lo inviterò a pranzo e intanto la Elisa avrà tempo di decidersi; e in fin di tavola gli parlerò io, secondo che ella avrà deciso.

- E poi se...?

- Oh Dio, e poi e poi, se la Elisa non vorrà assolutamente lo avremo invitato a pranzo per... pulirgli la bocca...

- No, sono decisa - ripetè la fanciulla. - È necessario ch'io esca da questo stato umiliante.

- Va benissimo - sclamò il padre. - Tu, Eugenia, pensa a mandarlo ad invitare a pranzo.

Entrò in questo il servo ed annunciò il signor Marliani.

- S'è degnato, se Dio vuole! - sclamò don Ignazio. - Fallo entrare lì nel gabinetto e digli che vengo subito.

 

*

* *

 

- Io l'ho mandata a chiamare - disse poi quando l'ebbe raggiunto - per vedere di aggiustarci per le cambiali del mio pupillo il conte O'Stiary.

- Lei è il procuratore della signora Bibiana Martorelli, n'è vero?

- Per servirla.

- Io spero che anche lei sarà del mio parere, che sia necessario trovare un mezzo di non lasciare che si venda la possessione e questa casa.

- Ma io credo - osservò il Marliani - che tanto una che l'altra siano già state vendute stamattina.

- So ben ch'ella mi burla. Io, tutore del conte dovrei saperlo prima di chiunque.

- Il conte O'Stiary è tornato a Milano oggi stesso, e da due giorni ha compiti i ventiquattro anni.

- Tutto questo lo so benissimo, ma le assicuro che la vendita delle sue proprietà non può essere stata fatta senza che io ne sappia nulla, e spero che lei sarà d'avviso che al giorno d'oggi chi vende si rovina e chi compera non sa mai neppur lui di aver fatto un buon affare. Dunque la creditrice sarà più contenta di vedersi pagata alla scadenza con uno sconto regolare, ma con moneta più o meno sonante.

- Ah, certo. Meno seccature.

- Allora non ci resta che fissare d'amore e d'accordo la cifra del debito del conte per poter ritirare tutte le sue cambiali.

- Eccola - disse il Marliani - e cavato di tasca il portafogli rimise a don Ignazio una carta su cui c'era la distinta delle scadenze del figliuol prodigo.

Don Ignazio ne fu spaventato. E sapeva che Marliani non era il solo creditore.

- Cosa facciamo? - domandò egli dopo alquante geremiadi, che trovarono un impassibile ascoltatore nel Marliani.

- Come dice? - sclamò egli allungando il collo e fingendo di non aver capita la domanda del notaio.

- Dico che qui bisogna tagliare, tagliare e accontentarsi.

- Ah, non credo che la mia cliente ci voglia sentire da questo orecchio. Ella non può assolutamente rinunciare ai proprii diritti.

- Ah, quando lei parla di diritti - sclamò il notaio riscaldandosi - io le farò memoria che le cambiali del conte sono valevoli quanto quelle di un minorenne.

- Domando scusa - ribattè freddamente il Marliani. - Noi sapevamo, del resto, che il conte, minorenne o maggiorenne che fosse, non avrebbe fatto disonore alla propria firma.

- Qui non si tratta di onore o di disonore - gridò il notaio - si tratta di diritto, e io ho la legge per me e potrei, volendo, rifiutarmi di pagare.

- La scusi, non la si riscaldi. Le osservo che oggi il conte è uscito dall'interdetto e lei non è più suo tutore.

- Ma lei non pensa che io ho il mezzo di far causa e di vincerla sicuramente?

- Mi dorrebbe assai per il signor marchese Sappia, il quale è garante, e a cui toccherebbe di pagare lo stesso. Del resto lei sa bene che noi potremmo in caso intaccare il signor conte di truffa, giacchè avrebbe tacciuto di essere interdetto.

- Ah, malandrini! - gridò il notaio. - Intaccarlo di truffa dopo di averlo così ridotto alla perdizione?

L'accento e la sprezzante espressione del gesto che accompagnarono quella frase furono tali che Marliani balzò in piedi:

- Ehi, dico, signor notaio stimatissimo, la stia nei termini, o ch'io.... Le ripeto che non si vuol perdere un centesimo, e basta così.

- Ah canaglia - mormorò fra i denti don Ignazio. - E fu preso da un accesso di rabbia. - Io non so chi mi tenga.... Vada fuori, vada fuori subito da questo luogo se non vuol ch'io faccia uno sproposito... fuori, fuori...

Così dicendo, rovesciando una sedia, quasi per salvar sè stesso dal commetterlo davvero, uscì dalla sala maledicendo gli usurai, il pupillo, le cambiali e un poco anche il proprio carattere tanto opposto alla sua professione.

 

*

* *

 

La Elisa, intanto che suo padre usciva infuriato da un uscio, entrava in quel gabinetto dall'altro colla balia, che aveva trovata in anticamera, e che udendo la voce stizzosa e alta del notaio, accorreva per sapere che cosa fosse accaduto. Ambedue intesero le ultime ingiurie.

Trovarono il Marliani lì ritto in piedi colla testa un po' reclinata verso l'uscio d'onde era sparito don Ignazio, come un uomo che mastica fra sè una ingiuria segreta.

- Mio padre forse l'ha offeso - disse la Elisa a occhi bassi. - Io sono sua figlia e sono quì pronta a domandarle scusa per lui, se ella vorrà promettermi....

- Prometterle che cosa? - domandò il Marliani un poco sorpreso e molto lusingato dalle parole di quella soave bellezza.

- Lei è venuto per aggiustare la faccenda del signor conte O'Stiary mio cugino, non è vero?

- Per servirla.

- Ebbene io le prometto che lei non perderà niente e sarà pagato fino all'ultimo centesimo. Mia zia mi ha lasciato trecentomila lire e io sono anche pronta a cederle a lei, se lei mi promette di non far del male a... mio cugino....

«Ho capito!» pensò fra sè Marliani. «Qui c'è da trafficare il soldo.»

Poi soggiunse.

- Lei però la mi pare ben giovine.

- Ho diciott'anni.

- Bella età! - sclamò il Marliani. - Ma più bella assai per lei che per me.

- In che modo?

- Vede. Per essere padrone di disporre del fatto proprio le mancano ancora tre anni.

- Lo so - rispose la Elisa stringendosi alla balia come per chiederle aiuto e consiglio... - Lo so. Ma per esempio, se io potessi ottenere il consenso di chi dovesse diventare mio marito... mi pare.

In questo, Enrico O'Stiary, era comparso sull'uscio aperto non veduto da alcuno, e si era fermato ritto sulla soglia.

- È necessario allora di provvedere molto presto - disse il Marliani - giacchè domani scade la cambiale più grossa, e il creditore, se non fosse pagato, sarebbe costretto di fare i suoi passi.

- Domani io credo che si potrà trovare chi si assume di pagarla - disse Elisa.

Enrico mosse un passo innanzi.

Tutti e tre gli altri si volsero a lui.

- Non fa bisogno che lei si rivolga a questa signorina per essere pagato - disse Enrico con un gesto di disprezzo a Marliani. - I miei fondi e questa casa furono venduti questa mattina istessa ad un procuratore di una persona da nominarsi, e lei sarà pagato fin all'ultima lira. E non ho più altro da dirle.

- Signor conte non ne dubitavo - disse Marliani. - Servo suo.

Ed uscì.

 

*

* *

 

Elisa teneva le palpebre abbassate. Aveva presa una mano della balia e la teneva stretta nella sua col braccio teso in giù. Pareva di marmo se la vita non si fosse rivelata dall'affannoso movimento del seno verginale.

La vecchia tremava e teneva i suoi piccoli occhi pieni di amore fissati nelle sembianze del suo Enrico.

- Ho udito - disse questi senza muoversi dal suo posto - quello che tu buona Elisa avresti voluto fare per me. Permettimi di ringraziartene e di domandarti perdono per quello che è passato.

E stette commosso ad aspettare che la fanciulla gli rispondesse una parola, facesse un atto, gli alzasse gli occhi in fronte.

Questa non disse che:

- La mamma è di là. Debbo andare da lei.

E fece atto di muoversi.

La balia, quasi senza volerlo, la trattenne.

- No - disse Enrico andando a lei e prendendole la mano che restava libera - per carità Elisa una parola sola di perdono, che non mi lasci partire così disperato. Fra poche ore io andrò a Firenze dove penso di arrolarmi nell'esercito. Forse non ci vedremo mai più. Ma per carità, non lasciarmi andar via così.

- Che cosa importa a te del mio perdono? - disse Elisa con un'aria di risoluzione tranquilla, ma con una voce in cui si sentivano le lagrime. - Sono forse io ancora qualche cosa per te? Va a cercare il perdono a quella donna che ha più diritto di me di concederlo.

- Elisa ti supplico, non parlami di quella donna. Io non so più che ella esista, te lo giuro. sì, lo confesso, fui un miserabile; ma ti giuro ancora per tutto ciò che ho di più sacro che io non l'ho amata mai. Ora lo sento con sicurezza....

- Oh, me l'avevi già detto un'altra volta! - sclamò Elisa. - E invece....

- È vero, ma quando ti dico che se mi guardo indietro ho vergogna di me stesso! E voi altre due potrete dire d'essere le sole a questo mondo che hanno potuto sentire da me parole simili. Io che non ho mai chiesto perdono neppur a mia madre. Si è vero. Io non so quel che sia accaduto di me. Ero pazzo! Era orgoglio! Ah, se credessi agli incantesimi, direi che la mi aveva stregato. Io la odiavo e pur non potevo staccarmi da lei. Elisa perdonami. Non ti chiedo più. Perchè dovrei ingannarti, ora che debbo partire per espiare i miei errori? Capisco che mi son reso indegno di te e non ti chiedo di più del perdono. Non ho più il diritto di dirti che io non amo, che non ho mai amata altra donna fuori di te. Oh, non lasciarmi partire in collera Elisa. E tu balia, pregala anche tu dunque....

- Ma perchè ora la vuol tornar via da Milano? - sclamò la buona vecchia scoppiando in lagrime.

- Povera balia! Oh vedo che tu mi vuoi più bene di lei. Che cosa vorresti tu che io facessi ancora a Milano? Vorresti forse che mi fermassi per vederla forse diventare la moglie d'un altro? Non vedi che la mi odia?

- Ah Enrico! - sclamò la Elisa con un gran sospiro.

- Mi perdoni? - domandò Enrico ansiosamente.

- No - rispose la fanciulla con un filo di voce - ormai io non ho più nulla a perdonarti. Io sono promessa ad altri.

- Addio. Tu non mi vedrai più. E se accadrà del male, ricordati Elisa, ora sarà per colpa tua.

Enrico si volse, e sull'uscio incontrò don Ignazio che entrava.

 

*

* *

 

Mentre questo colloquio accadeva nel gabinetto il domestico era rientrato in sala dove stavano donna Eugenia e il marchese d'Arco e le aveva detto sottovoce:

- C'è qui fuori un signore e una signora che domandano di parlare a lei.

- Chi sono?

- Sono forastieri; parlano fra loro in tedesco.

- Bene falli entrare.

- Chi mai saranno? - domandò il marchese.

- Ma; ora vedremo!

Poco stante, duri come stoccafissi, con un'aria fra la compunzione e la dignità, facevano il loro poco solenne ingresso nella sala il signor Rikherwenzel e sua figlia Leopoldina, di Vienna.

«Cosa vorranno mai da me questi signori» sì domandò fra sè donna Eugenia, mentre il marchese dopo averli salutati con un cenno di testa si disponeva ad andarsene.

- No, la si fermi - le disse la signora Eugenia sottovoce.

- Siniora - disse Leopoldina - lei deve scusare nostra venuta da lei. Noi venire per affare di suo e nostro vantaggio molto importante.

- Ah! - sclamò donna Eugenia - forse mi vogliono parlar in segreto?

- Oh no, siniora. Il siniore può benissimo ascoltare non essendoci niente di segreto.

- Tanto meglio. E a chi ho l'onore di parlare? - domandò la padrona di casa facendo ai due forestieri un cenno perchè si accomodassero.

- Questo è mio padre Leopoldo Rikherwenzel che non parla bella lingua italiana e io sono sua figlia Leopoldina.

Al marchese che si era messo a studiarli passò negli occhi un lampo umoristico.

«Se quello è suo padre - pensò - questa sarà probabilmente sua figlia.»

- S'accomodino - disse donna Eugenia.

- Noi essere venuti - ripigliò la Leopoldina - per scongiurare una sventura in questa casa. Noi avere saputo sua figlia essere promessa sposa al signor scultore Aldo Rubieri, non è vero?

La signora Eugenia inarcò le sopracciglia e non rispose subito.

«Cosa mai possono entrarci costoro nei fatti nostri?» pensò.

Ma poi rispose subito:

- A dire la verità nulla è combinato ancora, perchè egli non ha avuto ancora il nostro consenso.

- Pene, tanto meglio per tutti allora - sclamò la Leopoldina sorridendo come una scimmia - perchè noi poter mostrare documenti per provare che sinior Aldo Rubieri non può sposare sua figlia.

- Documenti! - sclamò un poco sorpresa donna Elena.

- Sissignora. Lei deve sapere che sinior Aldo è mio promesso sposo da dieci anni e che io ho amato sempre sempre lui e che ho aspettato sempre lui, e lui non poter mancare a suo promesso senza molto sagrificio di danaro per contratto in carto pollato, e anche per sua parola d'onore.

Così dicendo l'austriaca zitellona sporgeva alla signora Eugenia la lettera colla quale il Rubieri s'era impegnato a pagare quella somma, come è già noto ai lettori.

- Io non leggo il tedesco - disse la signora Eugenia dopo aver dato uno sguardo su quella lettera. - Ma non monta. Tant'è che la mi dica di che si tratta e in che cosa possa entrarci io, madre della Elisa.

- Lei sapere certamente - disse la Leopoldina - che sinior Rubieri è figlio di un generale austriaco al servizio di nostri Kaiser Ferdinando e Franz Joseph.

- Certo che lo so - rispose donna Eugenia. - Ed è anzi un vanto della vita di suo figlio l'esser fuggito dalla famiglia per venir a battersi co' suoi compatrioti.

Leopoldina leggermente imbarazzata a questo punto raccontò il resto della storia e terminò dicendo:

- Noi in tribunale siamo decisi di fare grosso scandalo perchè avere trovato finalmente bravo avvocato che farà la nostra causa senza fare spendere a noi troppi danari, e abbiamo pensato di venire a prevenire la siniora per suo regolamento.

Donna Eugenia a questo punto stava in forse tra il ridere e lo star seria. L'eteroclito stile dell'austriaca fanciulla le consigliava l'ilarità, ma la storiella a carico dell'uomo che ambiva alla mano della sua Elisa l'aveva un po' turbata.

Ringraziò la signora Leopoldina delle sue buone intenzioni e soggiunse che avrebbe comunicate quelle notizie a suo marito, il quale avrebbe presa quella determinazione che fosse del caso. Li congedò con quella cortesia fredda e cerimoniosa che è più eloquente talvolta di un'insolenza e che a buon intenditore vuol dire: mi facciano però la finezza di non venirmi più fra i piedi.

In fondo però la madre provava una segreta contentezza. Ella non s'era ancora persuasa che la sua Elisa non dovesse diventare la contessa O'Stiary. E quando aperse l'animo al marchese su questo punto trovò in lui un certo sorriso e un assentimento che le fu di buonissimo augurio.

- Andiamo dunque a vedere che cosa ne dice mio marito - fece ella dando il braccio al marchese.

E s'avviarono verso il gabinetto.

 

*

* *

 

- Io non ho più nulla a perdonarti. - Aveva detto la Elisa al conte. - Io sono promessa ad altri.

- Addio - le aveva risposto Enrico - e se accadrà del male ricordati Elisa che sarà per tua colpa.

In questo don Ignazio era comparso.

Egli era ancora un poco acceso in volto per la collera di dianzi.

- Come, è qui lei? - disse fermandosi e dando un'occhiata severa alla Elisa e alla balia.

- Sì, zio - rispose Enrico rimettendosi - non ho voluto andare al mio destino prima di venire a salutarvi tutti in casa.

- E... dove fai conto di tornare, se è lecito? - domandò il notaio con voce ironica e quasi stizzosa.

La risposta di Enrico fu interrotta appunto dal comparire di donna Eugenia e del marchese d'Arco.

Enrico salutò affettuosamente la signora poi mosse incontro al marchese e gli strinse la mano.

- Ah testolina, testolina! - disse questi metà severo metà sorridente. - Sentiamo un poco che cosa fai conto di fare dunque?

- Sì, vediamo questi progetti fioriti - soggiunse don Ignazio.

- Sono semplicissimi. Io partirò questa sera per Firenze dove mi arrolerò come volontario in qualche reggimento. Ho delle raccomandazioni pel ministro della guerra; sono già stato tenuto abile al servizio tre anni sono, e spero mi accetterà. Il mio amico Sappia è incaricato di venir da te, caro zio, per aggiustare tutte le mie faccende.

- E dire che gli ho già pagato il cambio! - sclamò il notaio. - Tu vorresti dunque andar a far il soldato semplice?

- Certo. Non potrei pretendere di più per ora.

- Bel mestiere! Mangiar nella gamella e scopar i cessi.

- Far il soldato per il proprio paese - rispose Enrico - è l'unico mestiere che convenga a chi ha fatta la vita che ho fatto io finora.

- Eppure - riprese don Ignazio - se tu promettessi di far proprio giudizio una buona volta, ci sarebbe ancora la speranza di accomodare i tuoi imbrogli salvandoti parte di sostanza. Io mi impegnerei di risparmiare un centinaio e più di mille lire.

- Via, non parlarne, caro zio - rispose Enrico con dolcezza. - Ho detto poc'anzi all'usuraio che i creditori saranno pagati tutti fino all'ultimo centesimo. Io rispetto troppo la mia firma.

- Insomma non c'è verso di fargli mettere il capo a partito - borbottò il notaio ponendosi a sedere come sfiduciato. - È una testa falsa... e addio patria!

Mentre don Ignazio pronunciava questo giudizio sul suo pupillo il marchese d'Arco, che come il suo solito non aveva ancora aperto bocca, avvicinatosi a Enrico e messogli una mano sulla spalla gli diceva:

- Bravo Enrico. Hai fatto il tuo dovere d'uomo d'onore e questo deve essere sempre dinanzi ad ogni cosa.

- Ma sì, ma bravo, ma benone! - sclamava il notaio dimenandosi ne' panni.

- Cara zia - disse Enrico a donna Eugenia prendendole una mano - io ti ringrazio ancora di tutte le bontà che avesti per me e spero mi perdonerai se per causa mia hai dovute subir delle... seccature....

- Oh caro Enrico... io vorrei soltanto vederti un po' a posto.

Enrico si valse alla Elisa.

- Addio Elisa... e ricordati qualche volta del tuo compagno d'infanzia....

E siccome sentiva venir un fiume di lagrime agli occhi si volse alla balia.

- E anche tu, povera balia, addio e perdona se qualche volta....

Non potè proseguire. Si sentiva strozzare dal pianto. Stava per fuggir via.

- Enrico vieni qua - disse il marchese. - Io sono il tuo padrino e ora voglio mettere di esser tuo padre. Se tuo padre fosse qui... forse non sarebbe accaduto ciò che è accaduto... ma in caso ti direbbe: sì, va a far il soldato pel tuo paese, giacchè quella scuola di abnegazioni e di sagrifici la ti farà diventare un uomo come si deve. Ma io non ho il coraggio di lasciarti partire così; e poi non posso neanche vedere quella cara fanciulla e quella povera vecchia piangere in quel modo... e poi... e poi, ti dico la santa verità, non vorrei io stesso....

E per non piangere tentò di ridere.

- La ringrazio marchese di queste buone parole - disse Enrico stringendogli affettuosamente la mano. - Ma ora tutto è impossibile; non potrei più stare a Milano lo stesso....

- Andiamo dunque lei, don Ignazio, signor burbero benefico, faccia la pace col suo pupillo e gli perdoni ogni cosa. Siamo stati giovani anche noi... che diavolo!

- Oh per il male che ha fatto a me - rispose don Ignazio tirando una presa di tabacco - io gli ho già bell'è perdonato. Mi duole soltanto che ora sia troppo tardi in quanto alla morale, e che il mio perdono non gli possa più fare nè caldo nè freddo a quest'ora.

- La guardi quella sua povera Elisa com'è addolorata - riprese sottovoce il marchese.

- La Elisa? Ah so bene poi che la mi burla, caro marchese - ripigliò don Ignazio levandosi. - No, no, no. Ha voluto lui essere uno spiantato? Tal sia di lui! Io non potrei in coscienza rompere il collo a mia figlia col pretesto che si vogliono bene. Il mal d'amore passa in fretta, ma i matrimoni sono eterni.

- Vediamo, vediamo - ripigliò il marchese tirando don Ignazio in disparte. - Bisogna che non lo lasciamo andar a soldato. Io non voglio. Mi secca di vederlo partire.

- Faccia lei! Trovi lei il mezzo. Che cosa vuol mai che io le dica? Io, se anche lei m'avesse lasciato fare, m'impegnavo di salvargli una parte di sostanza. Non ha voluto? Peggio per lui! E non fu anche lei a lodarlo?

- Enrico - ripigliò il marchese volgendosi al giovine - prometti tu sul tuo onore di far giudizio, di non metter mai più il piede in una bisca e di essere degno insomma della Elisa?

- Ma che cosa dice, marchese, che cosa dice? - sclamò il notaio con la voce d'un uomo che è risoluto a farsi intendere seriamente. - Lei dice delle cose impossibili; a questa cosa non c'è più da pensarci e da un pezzo. Sono suo padre o non sono suo padre? Benedetto uomo! Vuol dir tutto lui!

- Non dubitare, caro zio - disse l'Enrico con dolcezza malinconica. - Tu sei esaudito lo stesso. Capisco anch'io che ora non potrei più accettare quello che avrebbe dovuto essere la mia... quello che dice il marchese. Spero di riuscire a farmi onore e a cercarmi una posizione indipendente e degna di un gentiluomo.... E allora... se la Elisa mi avrà perdonato... se non avrà sposato un altr'uomo....

- Ah questo è un altro paio di maniche! - sclamò don Ignazio.

- Quanto a lei, marchese - ripigliò il giovine conte volgendosi al d'Arco - la mi permetta di ringraziarla, delle sue buone parole. Oh io sento che la Elisa sarebbe stata la sola donna al mondo che avrebbe potuto farmi felice, ma non ho saputo meritarmela ed è giusto che succeda ciò che deve succedere. Adesso non potrei, dovessi morire di dolore, aspirare a lei....

- Naturalmente! - osservò don Ignazio.

- Non vorrei si dicesse che dopo avere sprecato in tre anni tutto il mio avere sono andato ad attaccare il cappello in casa di mia moglie.

- Oh per questo sarebbe il minor male! - sclamò don Ignazio.

- Ho piacere di sentirti a parlare così - disse allora il marchese alzandosi, d'ond'era seduto, con una specie di risoluzione di buon augurio.

La Elisa, che con le gote irrigate di lagrime stava stretta a sua madre, alzò gli occhi roridi in faccia al marchese, e vide sulla di lui fisonomia uno di que' buoni sorrisi arguti, che il d'Arco possedeva quando stava per dire qualche cosa di molto bello e di molto buono.

- Dunque allora se non è che questo - disse egli con voce posata e chiara - dovete sapere cari miei, che quella persona da nominarsi, la quale ha trattato questa mattina la compera della possessione di Enrico e di questo palazzo, sono proprio io. Io non potevo permettere naturalmente, che la casa O'Stiary e la campagna, dove passai tanti bei giorni de' miei anni giovanili, andasse in mano di cani e boriani. La somma fu già rimessa al marchese Sappia, che è garante anche pei debiti di Enrico, e che penserà a pagare ogni cosa. Io sono dunque il nuovo proprietario e credo di aver fatto un discreto contratto. Siccome però io sono solo al mondo e non so davvero che farne del superfluo, così tu, Enrico, mi permetterai di dirti, che tanto la tenuta quanto questa casa, sono ancora cosa tua.

- Ah, questo è troppo, marchese! - sclamò Enrico.

E rimase interdetto, e non pensò di buttarglisi al collo, come avrebbe fatto chiunque altri, che non avesse avuto il di lui orgoglio nelle vene.

Il marchese era, lo sappiamo già, un vero filosofo, e non si lasciava mai influenzare dall'amor proprio.

Anche quella titubanza dignitosa, anzi superba, di Enrico, gli piacque; egli non s'adontò che il giovine conte fosse restìo ad accettare la sua donazione. Gli si avvicinò e gli disse:

- Sei tutto tuo padre! Ma pensa che la Elisa ti ama....

E additò la cara fanciulla che stava presso donna Eugenia.

I di lei occhi, maravigliati, pieni di riconoscenza, intenti, inondati da una gioia che non lasciava più luogo a dubbio, stavano fissi in quelli del marchese.

Ella si spiccò da sua madre, si slanciò con subitaneo moto verso di lui, gli prese la mano e sclamò:

- Ah, come l'adoro lei, marchese. Come è buono! E questo valse all'Enrico come cento perdoni.

 

*

* *

 

Io ho fiducia che il lettore mi dispensi volentieri dal riferire la storia retrospettiva del viaggetto affannoso di Enrico verso Parigi, in cerca di Nanà, che viaggiava invece verso la Piccola Russia, col principe Kuvaloff; come pure che egli non desideri ch'io gli debba descrivere la delusione di Rubieri, quando venne a pranzo e si trovò pulita la bocca. Nè come sia andata a finir la faccenda - che restò incruentissima del resto - fra Marliani e Cantis - nè a raccontargli del fallimento della Romea, inezie tutte che facilmente si sciolgono coll'imaginazione.

 

*

* *

 

Quanto a Nanà, non stette più di un mese col principe Kuvaloff. Quand'egli cominciò a trattarla a furia di knout, essa cercò in Kiew un suo compatriota parrucchiere, che tornava in occidente, e si fece rapire da lui.

 

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* *

 

La sua fine è nota.

Zola ci racconta, che essa morì di vaiuolo al Grand Hôtel a Parigi, in quei giorni in cui i Francesi, ebbri di certezze gloriose, che dovevano mutarsi in disastri incredibili, passavano in folla sui boulevards gridando in cadenza: à Berlin, à Berlin!

 

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* *

 

Molti lettori hanno il difetto di venir qui in fondo a cercare come vada a finire la panzana.

Qui panzana vera non c'è stata. In ogni modo mi permettano di non accontentare questa loro illegittima curiosità.

La contessa O'Stiary è oggi viva ancora? È dessa felice? È infelice?

Chi lo sa?

Mettiamo ch'ella sia infelice.

L'è questa un'ipotesi che sbaglia di rado.

Un ultima preghiera al lettore: Se non l'ha ancora letta, legga l'Entratura. Mi farà un gran piacere.

 

FINE.

 




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