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Alberto Boccardi
Il peccato di Loreta

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  • VII.
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VII.

 

Erano passati quasi due mesi dalla morte della signora Chiara. Ma la calma non era peranco rientrata nello spirito del professore. Indarno aveva egli cercato di darsi con febbrile foga a nuovi lavori. Dopo breve tempo si sentiva stanco. Ed a certi momenti, colto da un'improvvisa sfiducia del proprio ingegno, provava dinanzi alle opere sue quel profondo inesplicabile sgomento, che nelle ore dell'amarezza fa sembrare misera illusione tutto ciò che poco prima, al raggio della felicità, appariva circondato dagli incanti della gloria e della vittoria.

Quante sere, solo, chiuso nel suo studio, aveva lasciato sfuggirsi dalle dita la penna, abbandonando il capo sul dorso della sua seggiola, sopraffatto da un ardente bisogno di pensare al passato. Ed era sempre la stessa lugubre apparizione che lo tormentava: di un corteo funebre, il quale, sotto un freddo cielo d'ottobre, s'avviava frettoloso giù per la lunga strada fangosa, mentre l'aria umida della sera faceva oscillare le fiamme gialle de ceri e sperdeva le preghiere de' preti e de' contadini. Egli si vedeva ancor là, su quella fossa aperta, dove gli pareva che stessero per seppellire ogni suo affetto. E per quanto facesse, non sapeva liberare il suo cuore da quel senso di gelida mestizia onde fu vinto nel rientrare poi nella sua vecchia casa, priva ormai dell'angelo buono che gliela rendeva così cara.

Il professore dopo quella disgrazia aveva provato quasi una voluttà nel cercare la solitudine. Si alzava all'alba ed entrava nel suo studio, uscendone di rado, pregando perfino talvolta Loreta che gli facesse recare il pranzo colà. Verso il tramonto andava a fare una passeggiata in mezzo ai campi, evitando di passare per i villaggi, salutando appena i conoscenti in cui s'avveniva. Poi rientrava, mandava giù un boccone svogliatamente e si ritirava nelle sue camere.

Gli amici di Tricesimo, che sulle prime eran venuti replicate volte a prendere sue notizie, a poco a poco, dinanzi al contegno freddissimo del professore, avevan cessato dalle visite, convinti di riuscirgli molesti. Taluno di essi non mancò neppure di aversene a male, e tra questi specialmente il conte Leonardo Mangilli, che s'arrabbiava di veder riuscire inutili sull'animo dell'amico tutti i conforti ch'egli procurava di recargli con i suoi predicozzi altisonanti di uomo spregiudicato.

Tolto a' suoi studî, il professore non aveva la testa a nulla. Degli interessi di casa non s'occupava punto: di tutto quanto riguardava l'azienda economica de' suoi poderi, non voleva udire a parlare. Quando i coloni venivano o per pagare gli affitti o per ricevere qualche disposizione, e la Vige, piena di titubanza, recavasi a bussare alla porta dello studio per avvertirne il padrone, questi si sentiva profondamente contrariato, e talora lasciavasi andare a vive parole d'impazienza.

La Vige tutta intimorita scusavasi del suo meglio: non sapeva come fare, vi era forzata.

Allora il professore si levava, e ponendo la mano sulla spalla della fedele domestica:

- Abbiate pazienza se sono così! - diceva. - Che volete? Penso sempre a quella poveretta. Faceva lei tutto così bene: faceva lei tutto sempre. Ora non c'è più!

Aveva nel dir così la voce ingroppata, e alla Vige, ohe adorava la vecchia padrona, si riempivano pure gli occhi di pianto.

- Pregate la signorina, che vegga lei... - concludeva il professore.

E la serva usciva quanto più presto poteva per celare la sua commozione.

Così, adesso avveniva sempre. In casa, Loreta era tutto. Come obbedendo alla forza delle circostanze, e senza mai mostrare di accorgersi dei servigi ch'ella rendeva, s'era assunta tacitamente tutti gli uffici ai quali altra volta attendeva di persona la signora Chiara. Al professore evitava di parlare di qualsifosse interesse, a meno di non esservi costretta da qualche imprescindibile necessità. E solo alla fine di ciascun mese gli faceva trovare sulla scrivania, tutti raccolti in un fascio, i conti ed i registri, sui quali egli gittava appena e per pura forma un fuggevole sguardo. Fu un giorno, ch'ella veniva appunto a riprendere alcuni di cotesti conti - otto o dieci mesi dopo la morte della signora - ch'egli per la prima volta la trattenne presso di sè più lungamente:

- Loreta, è assai bello e gentile tutto quello che voi avete fatto e fate per la mia casa. Voi dovete compatirmi se io non vi dico mai nulla della mia gratitudine. Se sapeste però quante volte ci penso! e come vorrei trovare il modo per esprimervi quanto si passa nel mio cuore....

Ella, udendo quelle parole, s'era fatta un po' rossa in viso; con manifesto imbarazzo, girando fra le mani il fascio delle carte, mormorò qualche frase evasiva e subito fece l'atto di andarsene.

Ma il professore ne la impedì:

- No, Loreta, aspettate ancora un momento, non andate via così. Voglio che voi mi assicuriate che non mi tenete carico se io apparisco talvolta così chiuso in me stesso. Non è colpa mia se son fatto a questo modo. Vi ricordate che anche la mamma me ne rimproverava sempre....

E prendendo con mano tremante una delle mani di lei:

- Mi perdonate, non è vero? - le dimandò.

- Mattia.... Io, io che debbo tutto a voi.... che cosa mai dovrei perdonarvi?...

E ritirando la mano, senza aggiungere altro, uscì in fretta, con la faccia invasa da un vivo rossore.

Quando l'uscio si chiuse dietro a lei, il professore tornò lentamente al suo posto presso la scrivania e, trattosi dinanzi un grosso quaderno tutto coperto di appunti e di note, parve accingersi a riprendere il lavoro.

Ma dopo pochi momenti, sfogliate appena alcune pagine, egli raccolse il capo fra le palme, meditabondo, cogli occhi assorti verso l'uscio dal quale la giovane donna era partita.

Nè codesto poteva più dirsi per lui un fatto anormale.

Nella cupa freddezza della sua vita, in mezzo al fervore de' suoi lavori e quando più grave gli pesava sull'animo la melanconia de' ricordi, era sempre la figura serena di questa giovane povera e buona che gli si elevava dinanzi come una mite visione riconfortante. In tutto ciò che lo circondava, in tutta la sua casa, egli sentiva l'opera salutare di lei: la sentiva costante, in cento minute e previdenti cure, disposte sempre tacitamente, col sottile delicatissimo studio che l'intenzione non ne trasparisse.

"Voi dovete compatirmi se io non vi dico mai nulla della mia gratitudine. Se sapeste però quante volte ci penso!..." Mattia in queste parole era stato veritiero. Avrebbe cercato invano di dire a Loreta quale influenza benefica ella esercitasse sopra il suo cuore; sapeva il proprio labbro impotente a trovare ed a pronunciare delle frasi che corrispondessero a questo suo sentimento. Ma se il labbro taceva, non restava muta l'anima sua. Il pensiero, che non s'era peranco tradotto in un accento vivo, gli rinasceva ora con frequenza ognor più rapida, lo riafferrava sempre più insistente temperandogli nelle ore tristi l'acerbità de' suoi dolori e troncandogli anche sovente la lena al lavoro.

Talvolta udendo il passo di lei, sommesso e lieve, nelle stanze vicine, gli avveniva senza sapere il perchè di tendere l'orecchio, ascoltando ansioso finchè il rumore si allontanava, sentendo un palpito accelerato nel petto quando il passo pareva più prossimo all'uscio dello studio. Altre volte gli avveniva di staccarsi, come colto da un'estrema stanchezza, dalla sua scrivania e di approssimarsi alla finestra, d'onde indugiavasi lungamente a guardar giù nel cortile, dove al solito posto, sotto al porticato inghirlandato dai festoni dell'edera, la giovane attendeva a qualche lavoro: ora tutta sola, seria e pensierosa col viso bianco chinato sull'opera di cucito, ora scambiando qualche parola con la Vige, che sempre laboriosa andava e veniva dall'uscio della sua cucina al pozzo, ora col ragazzo Agnul, che accudiva alle proprie incombenze dinanzi alla rimessa, ora infine coi coloni che giungevano a recar le derrate od a prendere qualche comando.

I contadini l'amavano tutti per l'affabilità sua, per quella dolcezza che aveva nella voce e nei lineamenti. Anche quand'era costretta per l'interesse domestico di movere a taluno qualche rimprovero o di mostrarsi insoddisfatta di qualche prestazione, trovava sempre per farlo quella parola che, pur essendo severa, non irrita e persuadendo non lascia traccia alcuna d'amarezza. Pietosa coi poveri, aveva ottenuto dal professore il permesso di continuare in tutti quegli atti di beneficenza, per i quali la signora Chiara aveva lasciato di sè memoria così benedetta. E li compiva religiosamente, con una soddisfazione intensa, facendosi un carico di rammentare a' suoi poverelli il nome della loro antica benefattrice.

Così una volta il professore Mattìa provò una emozione ineffabile potendo cogliere, inosservato, alcune parole con le quali la vecchia Mariute, venuta a prendersi un fardelletto di biancheria, ringraziava la giovane, usando le frasi ed i titoli che i contadini friulani hanno sempre per i signori del loro paese:

- Siete buona anche voi, contessina: tanto, tanto, come la vecchia contessa..., che Dio abbia in gloria!...

"Come la vecchia contessa!" Povera signora Chiara quanto rideva lei di quell'epiteto nobiliare che tutti si ostinavano a darle secondo il costume del paese; e come il professore ne rideva cordialmente egli pure! Ma quel giorno non rise: le parole che la vecchia aveva pronunciate lentamente, colla sua voce roca, gli vibrarono nel cuore come una musica. Il ricordo delle virtù di sua madre, accoppiato così al nome di Loreta, assunse per lui - anche sulle labbra di quella misera donna, in cui pareva che la intelligenza non si risvegliasse che quando provava qualche grande gioia - un particolare significato, rispondente a pieno al pensiero che adesso più non lo abbandonava.

Di tutto ciò a Loreta non disse mai nulla. Ma ora - non più come una volta - piacevasi della sua presenza, la cercava, procurava di creare sempre qualche pretesto per prolungarne la durata. I discorsi si aggiravano per lo più su argomenti futili, sulle faccenduole domestiche; e il professore, che aveva sempre mostrato una grande avversione a preoccuparsi di tutto ciò che si riferiva agli oggotti dell'economia, ora sembrava trovasse il massimo interosse per tutte le cose onde Loreta sentivasi in debito di venirlo ad informare. Ascoltandola si distraeva, rimanendo talora come attonito in una muta contemplazione, imbarazzato quando si accorgeva che le risposte, da lui date alla giovane, corrispondevano assai male e spesso non corrispondevano affatto alle domande che quella gli rivolgeva.

Una sola volta egli stette per tradire il pensiero che gli martellava nel capo; una volta sola gli stette per fuggire dal labbro, aperta, franca, una confessione: la dolce confessione, alla quale la ingenita selvatiehezza, la ritrosìa a commettere un atto incompatibile con la sua età e forse il timore di una repulsa, facevano nel suo spirito un argine potente.

E fu alcuni mesi appresso, nell'anniversario della morte della signora Chiara.

In quel giorno - con l'ingenua pietà filiale, che era stata la religione sola della sua vita e ch'egli aveva conservata, forte e caro retaggio, mentre la testa gli si incanutiva e tante illusioni s'eran svanite intorno a lui, - in quel memore giorno egli era entrato dopo lunghissimo tempo nella camera ove la signora era morta e nella quale, per una mesta affettuosa superstizione, aveva voluto fosse mantenuta ogni cosa al suo posto.

Confinato per intere giornate nel suo studio, presso il quale aveva ora anche la sua stanza di riposo, egli saliva di raro assai nelle camere superiori; ed in quella già abitata da sua madre raramente egli metteva il piede, sentendo riaccendersi troppo vivo il proprio dolore tra quelle pareti dove tutto gli parlava di lei, dove tutto gli diceva con nuove lancinanti parole, quanto tesoro di bontà e di affetti egli avesse perduto.

Quel giorno egli vi entrò di buonissima mattina, uscito appena dalle sue stanze, volendo compiere quest'atto gentile di pietà quasi di soppiatto, con quel riserbo soave, onde i veri dolori sentono spesso la voluttà di circondarsi. La mattina era limpida. Sulle ampie invetriate del corridoio, ch'egli attraversava a passo frettoloso, il chiarore dell'alba pioveva come una luce d'oro. Intorno per le campagne tutto ancora taceva: solo tra le pergole dell'orto e negli alberi alti intorno alla casa era un sommesso gorgheggio di uccelletti: il saluto festoso al bel sole che rinasceva.

Il professore Mattia giunto all'uscio di quella camera, dove una volta ogni mattina egli soleva venire come un ragazzo a prendere il bacio, il caro bacio della sua santa vecchietta, si arrestò un momento con uno stringimento al cuore. Poi girata lentamente la maniglia, dischiuse pianamente l'imposta, come avesse temuto di risvegliare una persona dormente.

Ma ristette perplesso dinanzi alla visione che gli apparve.

Genuflessa sull'inginocchiatoio di noce nero, dove sua madre era abituata a dire le proprie orazioni, una donna stava assorta a pregare. Sotto il quadretto sacro - una vecchia litografia ingiallita, che era una memoria di famiglia, - due grossi fasci di rose eran posati: rose grandi, gialle, dalla fragranza delicata, che la povera signora Chiara aveva particolarmente amato.

Al rumore del passo la donna balzò in piedi volgendosi come atterrita.

- Loreta! - mormorò il professore, avanzandosi lentamente, con gli occhi lucenti.

Ella lo guardò, senza poter dire una parola, colle guance fatte vermiglie, restando immobile al suo posto.

La stanza ora era inondata di luce. Dalle finestre spalancate l'aria mattinale entrava con una fragranza balsamica di campagna. Le tende un po' ingiallite del vecchio letto in fondo all'alcova si agitavano lievemente.

Dall'alto della parete il volto placido di Giovanni Sant'Angelo pareva sorridere con melanconia nella sua cornice d'oro.

- Loreta, quanto siete buona! - disse il professore con la voce che gli tremava. - Quanto è bello tutto ciò che voi sapete fare! E come sento di volervi bene per la vostra bontà!

E rapidamente, come per un impulso naturale e castissimo, si portò la mano di lei alle labbra, posandovi un bacio con tenerezza infinita.

 

 

 




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