Anelavano ai boschi dell’altura,
Arsi, felini. Il vento dell’aurora
Agitava i lor velli irti e le chiome.
I cavalli, già vinti dalle some
Inique, procedean stanchi. Era l’ora
Dell’adunata e della partitura.
E con loro era Liba, il mandrïano
Di molte greggi, Liba, il domatore
Di giovenchi e poledri. Ora non più:
Ché già sulla sua forte gioventù
Scendeva l’ombra; e aveva rotto il cuore
E bianco il viso e debole la mano.
Li avea seguiti a lungo. Or su per l’erta
Mal reggeva al cavallo il duro freno,
E invan chiedeva balsami alle fonti.
Or si moriva. E, in sogno, udìa dai monti
Un tinnir di campani al ciel sereno…
Ahi! forse era la sua mandria diserta.
Ma sul monte al ferito, a pié degli elci,
Ecco i giovani stesero il giaciglio
Di molli fronde; mentre gli anzïani
Sceglieano i tronchi e, con le accorte mani
E col ferro, destavano il vermiglio
Seme del fuoco dalle acute selci.
E brillarono i fuochi. Ed: O fratelli,
— Disse il più vecchio — io spartirò le prede,
E ognun se l’abbia come vuol la sorte.
Faremo come quando, posti a morte
I cervi che la caccia ilare diede,
E le carni si spartono e le pelli. —
Tacquero e si segnarono. E dai sacchi
Caprini ei tolse le orerie, tesori
Ignoti, e molti calici e boccali
Di argento, e gli otri e i roridi fïali
E le pelli, conforto ai tuoi pastori,
O Barbagia, nei gelidi bivacchi.
Tolse i rasi e i damaschi, e con le mani
Sanguinose li svolse. Eran giardini
Di gigli d’oro, fiori di malìa…
Li avean portati all’arsa Baronia
Sulle devote barche i levantini,
In tempi antichi, da lidi lontani.
Mostrò i broccati, simbolo di gloria
Alle aspettanti vergini, ed i freni
E l’armi ed i monili ed i coralli.
E monete istoriate di cavalli
Non mai visti: cavalli saraceni,
Lievi, chiomati, cari alla Vittoria.
Or guardavano intenti e avean nei tetri
Cuori l’empia follia dello sparviero
Selvaggio. Era tra l’erbe un lucer d’astri.
Non mai quelle lor mani, che i vincastri
Stendevan dolcemente sull’impero
Delle greggie errabonde, come scetri,
Non mai — né pur nei sogni — avean ghermito
Cose sì belle. Trassero le sorti,
E spartiron le prede. E nei boccali
E nei calici voller gli augurali
Vini mescere: i giovani ai più forti
Davan le tazze, come in un convito.
Beveano in cerchio. E a Liba anche, in quel loro
Gaudio, porsero il calice di argento,
Augurando. Egli bevve con un riso
Estremo. Erano i cieli di narciso;
Bianche mandre di nubi sopra il vento
Migravano al lontano Logudoro.
— Liba, mio piccol cuore, — parlò allora
Un antico, che degli Evangelisti
Aveva il grave eloquio — o Liba, noi
Sovra un letto di quercia ai luoghi tuoi
Ti porterem stanotte, e là, non visti,
Ne verranno i tuoi vecchi sull’aurora.
Or prendi, intanto: è tuo questo dipinto
Freno e quest’armi, che ti pongo a lato;
Tuo questo miele; tuo questo boccale;
Tuo questo drappo che non ha l’uguale:
È a palme d’oro, un palio di broccato,
Il più bello di quanti tu ne hai vinto. —
— Oh! disse lui, non l’armi e non il freno,
E null’altro io più voglio. Già minaccia
L’astore e il nido plora su la frasca!
O piccol zio, voi solo date a Paska
Quel drappo d’oro, e, come le mie braccia,
Quelle palme le avvolgano il bel seno. —
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