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Pietro Metastasio
Lettere

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CXXI

 

A FRANCESCO SINIBALDI - ROMA

 

Vienna 15 giugno 1769.

 

Nel drammatico componimento della Reggia di Nettuno e nelle due lettere di cui è piaciuto a V. S. illustrissima di onorarmi ho io pienamente scoperte, gentilissimo signor abate, tutte le stimabili insieme ed amabili qualità del suo cuore e della sua mente. Ho conosciuto nella chiara e nobile egualmente fluidità del suo stile la parzialità con la quale è stato dalla vostra natura favorito il suo ingegno e dall'affettuosa e viva espressione de' suoi per me favorevoli sentimenti son così rimasto persuaso del sincero amor suo, che rendendogliene il dovuto inevitabile contraccambio, io amo i suoi talenti, il suo carattere, la sua cetra, ed ogni persona a cui

 

Reca diletto, e vie maggior lo prova

quanto l'ascolta più.

 

Volesse il Cielo, mio caro signor abate, che la mia sufficienza stesse in equilibrio col desiderio ch'io sento di convincerla di questa verità; ma per mia disavventura l'esecuzione del primo suo discretissimo comando incontra un ostacolo ben malagevole a superarsi. Le strepitose continue vicende di questa Corte han fornite da qualche anno in qua tante occasioni a' poeti di cantare or nozze, or coronazioni, or funerali, ed ultimamente il viaggio del nostro Cesare, che da Napoli, da Roma, da tutta la Toscana, da Bologna, da Mantova e da ogni cantone d'Italia si è trovata inondata questa reggia da torrenti di componimenti poetici, e (seguendo la condizione delle cose umane) molto più cattivi che buoni. Onde la povera sovrana, altronde già eccessivamente occupata, vedendosi senza intermissione ogni giorno più assediata ed oppressa da' tributi poetici, ha finalmente esclamato: «Io sono gratissima a tanta parzialità, ma per amor del Cielo non mi presentate più poesie». Dopo un divieto così positivo s'immagini se vi possa esser fra noi chi ardisca avventurarsi a violarlo. Ciò non ostante l'ingegnosa amicizia mi ha suggerito un innocente stratagemma che, secondato dalla fortuna, potrebbe senza lesione dell'ubbidienza procurarne in qualche maniera l'intento. De' quattro esemplari della Reggia di Nettuno, de' quali è piaciuto a V. S. illustrissima di farmi dono, ho per me ritenuto un solo, e distribuiti gli altri nell'augusta famiglia, cioè alla serenissima maggiore arciduchessa Marianna ed agli arciduchi Ferdinando e Massimiliano. Nelle frequenti visite che l'imperatrice regina suol fare a' suoi figliuoli non è impossibile ch'ella vegga e dimandi conto del nuovo libretto, e che, rallentando con la sua interrogazione il freno al rispetto, li autorizzi a parlargliene. Se l'artificio non sarà fortunato, varrà almeno appresso di lei per argomento della mia premura.

Da ciò che V. S. illustrissima asserisce e dal carattere del suo stile io son purtroppo convinto d'aver gran parte di colpa nell'eccessiva passione che la trasporta violentemente in Parnaso e le rende intollerabile qualunque altro cammino. Ah, mio caro signor abate, non mi lasci il rimorso d'aver cooperato involontariamente alla sua infelicità. Non si danno, è vero, più deliziose, più ridenti, più amene contrade di quella del Parnaso per chi favorito (come ella è) dalle Muse può a suo talento passeggiarvi a diporto, ma il Ciel la guardi, dilettissimo mio signor abate, di stabilirvi il suo perpetuo domicilio. Ne troverà sterile ed ingrato il terreno, infeconde tutte le piante, pericolosi i concittadini; e dopo aver corsi mille rischi e sparsi inutilmente i suoi sudori, non si vedrà finalmente al fianco che la miseria ed il pentimento. Le parla in questa guisa un uomo che ha corsa e terminata ormai questa carriera, e con fortuna molto superiore al suo merito; ma non però tale che lo sciolga dall'obbligo d'avvertire i suoi simili di non ingolfarsi in un mare infame per tanti naufragi. Non pretendo io già ch'ella faccia inimicizia con le Muse: io troppo ci perderei, essendomi esse mallevadrici dell'amor suo, ma vorrei ch'ella si fissasse in mente questa conosciuta incontrastabile verità che son le Muse tanto pestifere mogli, quanto adorabili amiche. Dalla mia premura per la sua prosperità spero ch'ella comprenderà e la giusta stima ed il sincero contraccambio d'affetto col quale io sono.

 

P. S. Oh quanto, mio caro signor abate, son lontane dal vero le ridenti e lusinghiere idee che l'amor de la poesia le va dipingendo nella mente! Ella si figura che questo genial mestiere produca a chi lo professa fama, onori, comodi e tranquillità. Cotesta fama o non si ottiene, o è tardissima e sempre contrastata, e vi si naviga eternamente fra l'invidia e il disprezzo. Il cammino della poesia non ha mai condotto ad alcun grado d'onore, anzi è un ostacolo insuperabile a sperarne. Quell'infelice condannato dalla maligna sua sorte all'infame mestiere di birro, spera divenir un giorno caporale, capitano o bargello: il poeta (sia pure Omero), privo dell'unico sollievo de' poveri viventi, che è la speranza, sa che dopo aver sudato tutta la vita, ei non morrà che poeta. Quanto ai comodi, trascorra ella tutte le antiche memorie, e troverà che i poeti hanno sempre avuta la povertà per indivisibile compagna, e quei pochissimi che si eccettuano come portenti sono reputati fortunatissimi, perché son giunti per miracolo ad evitar la miseria. — Ma (dirà ella) il vostro stato contrasta con le vostre massime. — No, caro signor Sinibaldi; è vero che la mia fortuna mi ha consegnato a così grandi e così benefici sovrani, ch'io sarei il più ingrato di tutti gli uomini se non confessassi che la lor munificenza ha superato e tuttavia supera di gran lunga il merito mio, e che sotto i fausti auspicii de' medesimi io non risento e non ho mai risentito il minimo effetto de' maligni influssi del mio mestiere; ma è vero altresì che sarebbe somma imprudenza il regolar sul fondamento d'un rarissimo esempio una scelta da cui dipende il destino di tutta la vita: ed un esempio nel quale ancora (se si vuol esaminar minutamente) si trovan le prove dello svantaggio che ha quello della poesia a fronte di qualunque altro mestiere: essendo certissimo che se io calzolaio o fornaio avessi goduto quel costante ed eccessivo favore della Fortuna, che ne ho goduto poeta, nuoterei ora fra quelle ricchezze che non desidero, ma non possiedo. Rispetto finalmente alla tranquillità, come può sperar mai di trovarne un infelice poeta drammatico obbligato a servir sempre agl'irragionevoli ed impertinenti capricci dell'eteroclita specie canora, per lo più ignorante, scostumata e superba e (per cagioni quanto meno oneste, tanto più efficaci) violentemente sostenuta? Ma, per venir più particolarmente al caso nostro, mi dica in cortesia, mio caro signor abate, dove mai la sua speranza potrebbe accennarle un asilo? Ne' falliti forse teatri d'Italia, a' quali sono soverchia spesa le vergognose ricompense che si danno a qualunque ciabattino poetico, atto a sfigurar un vecchio dramma a talento d'una eroina o d'un eroe teatrale che l'onora in contraccambio della sua protezione? Crede ella per avventura che la decadenza, anzi la ruina del nostro teatro, sia minore in Germania? S'inganna: corre ancora in queste contrade la medesima sorte. La Corte cesarea, e quella di Dresda ad imitazione di questa, hanno offerta, è vero, per lungo tempo una comoda e decente situazione ad un uomo di lettere esperto nella drammatica poesia, ma né l'una né l'altra è più a tal riguardo la stessa. La Sassonia, dopo l'ultima ruinosa guerra, ha totalmente rinunciato alla musica. La nostra adorabile padrona crede così poco convenevole al suo stato vedovile questo fasto voluttuoso che ha fatto demolire e rivolgere ad altro uso il teatro della Corte, e non ha altri musici se non se que' vecchi inabili che come antichi servitori generosamente conserva a riguardo del loro, non del bisogno di lei. Ed il nostro giovane prudentissimo Cesare non prenderà altro sistema, persuaso che la sua situazione esiga eserciti e non divertimenti.

Io credea che un quarto di foglio fosse troppo per una poscritta, ma la premura di remediare alle seduzioni che possono averle fatte i miei versi rende angusto anche il secondo. Imploro l'assistenza della benevola ascoltatrice della sua cetra affinché in difetto della mia inefficace eloquenza impieghi il suo ascendente a ritrarla da così pericoloso disegno. Oltre la stima già da me concepita, io conserverò eternamente per lei la riconoscenza dovuta a chi mi avrà liberato da' miei importuni rimorsi.

 

 




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