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Iacobus Sannazarius Arcadia IntraText CT - Lettura del testo |
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Ecloga sesta - Serrano, Opico
SERRANO Quantunque, Opico mio, sii vecchio e carico di senno e di pensier che 'n te si covano, deh piangi or meco, e prendi il mio ramarico Nel mondo oggi gli amici non si trovano, la fede è morta e regnano le 'nvidie, e i mal costumi ognor più si rinovano. Regnan le voglie prave e le perfidie per la robba mal nata che gli stimula, tal che 'l figliuolo al padre par che insidie. Tal ride del mio ben, che 'l riso simula; tal piange del mio mal, che poi mi lacera dietro le spalle con acuta limula.
OPICO L'invidia, figliuol mio, se stessa macera, e si dilegua come agnel per fascino, ché non gli giova ombra di pino o d'acera.
SERRANO I' 'l pur dirò: così gli Dii mi lascino veder vendetta de chi tanto affondami prima che i metitor le biade affascino! E per l'ira sfogar c'al core abondami, così 'l veggia cader d'un olmo, e frangasi, tal ch'io di gioia e di pietà confondami! Tu sai la via che per le piogge affangasi; ivi s'ascose, quando a casa andàvamo, quel che tal viva, che lui stesso piangasi! Nessun vi riguardò, perché cantàvamo; ma 'nanzi cena venne un pastor sùbito al nostro albergo, quando al foco stàvamo, e disse a me: - Serran, vedi ch'io dubito che tue capre sian tutte -; ond'io per correre ne caddi sì, c'ancor mi dole il cubito. Deh, se qui fusse alcuno, a cui ricorrere per giustizia potesse! Or che giustizia? Sol Dio sel veda, che ne può soccorrere! Due capre e duo capretti per malizia quel ladro traditor dal gregge tolsemi; sì signoreggia al mondo l'avarizia! Io gliel direi; ma chi mel disse, volsemi legar per giuramento, ond'esser mutolo conviemmi; e pensa tu, se questo dolsemi! Del furto si vantò, poi ch'ebbe avutolo; ché sputando tre volte fu invisibile agli occhi nostri; ond'io saggio riputolo. Ché se 'l vedea, di certo era impossibile uscir vivo da' cani irati e calidi ove non val che l'uom richiami o sibile. Erbe e pietre mostrose e sughi palidi, ossa di morti e di sepolcri polvere, magichi versi assai possenti e validi portava indosso, che 'l facean risolvere in vento, in acqua, in picciol tubo o félice; tanto si può per arte il mondo involvere!
OPICO Questo è Protèo, che di cipresso in élice, e di serpente in tigre transformavasi, e feasi or bove or capra or fiume or selice.
SERRANO Or vedi, Opico mio, se 'l mondo aggravasi di male in peggio; e deiti pur compiangere, pensando al tempo buon che ognor depravasi.
OPICO Quand'io appena incominciava a tangere da terra i primi rami, et addestravami con l'asinel portando il grano a frangere, il vecchio padre mio, che tanto amavami, sovente all'ombra degli opachi suberi con amiche parole a sé chiamavami; e come fassi a quei che sono impuberi, il gregge m'insegnava di conducere, e di tonsar le lane e munger gli uberi. Tal volta nel parlar soleva inducere i tempi antichi, quando i buoi parlavano, ché 'l ciel più grazie allor solea producere. Allora i sommi Dii non si sdegnavano menar le pecorelle in selva a pascere; e, come or noi facemo, essi cantavano. Non si potea l'un uom vèr l'altro irascere; i campi eran commoni e senza termini, e Copia i frutti suoi sempre fea nascere. Non era ferro, il qual par c'oggi termini l'umana vita; e non eran zizanie, ond'avvien c'ogni guerra e mal si germini. Non si vedean queste rabbiose insanie; le genti litigar non si sentivano, per che convien che 'l mondo or si dilanie. I vecchi, quando al fin più non uscivano per boschi, o si prendean la morte intrepidi, o con erbe incantate ingiovenivano. Non foschi o freddi, ma lucenti e tepidi eran gli giorni; e non s'udivan ulule, ma vaghi ucelli dilettosi e lepidi. La terra che dal fondo par che pulule atri aconiti e piante aspre e mortifere, ond'oggi avvien che ciascun pianga et ulule, era allor piena d'erbe salutifere, e di balsamo e 'ncenso lacrimevole, di mirre preziose et odorifere. Ciascun mangiava all'ombra dilettevole or latte e ghiande, et or ginebri e morole. Oh dolce tempo, oh vita sollaccevole! Pensando a l'opre lor, non solo onorole con le parole; ancor con la memoria, chinato a terra, come sante adorole. Ov'è 'l valore, ov'è l'antica gloria? u' son or quelle genti? Oimè, son cenere, de le qual grida ogni famosa istoria. I lieti amanti e le fanciulle tenere givan di prato in prato ramentandosi il foco e l'arco del figliuol di Venere. Non era gelosia, ma sollacciandosi movean i dolci balli a suon di cetera, e 'n guisa di colombi ognor basciandosi. Oh pura fede, oh dolce usanza vetera! Or conosco ben io che 'l mondo instabile tanto peggiora più, quanto più invetera; tal che ogni volta, o dolce amico affabile, ch'io vi ripenso, sento il cor dividere di piaga avelenata et incurabile.
SERRANO Deh, per dio, non mel dir, deh non mi uccidere; ché s'io mostrasse quel che ho dentro l'anima, farei con le sue selve i monti stridere. Tacer vorrei; ma il gran dolor me inanima ch'io tel pur dica: or sai tu quel Lacinio? Oimè, c'a nominarlo il cor si esanima! Quel che la notte viglia, e 'l gallicinio gli è primo sonno, e tutti Cacco il chiamano, però che vive sol di latrocinio.
OPICO Oh oh, quel Cacco! oh quanti Cacchi bramano per questo bosco! ancor che i saggi dicano che per un falso mille buon s'infamano.
SERRANO Quanti ne l'altrui sangue si nutricano! I' 'l so, che 'l pruovo, e col mio danno intendolo, tal che i miei cani indarno s'affaticano.
OPICO Et io, per quel che veggio, ancor comprendolo, che son pur vecchio, et ho corvati gli omeri in comprar senno, e pur ancor non vendolo. Oh quanti intorno a queste selve nomeri pastori, in vista buon, che tutti furano rastri, zappe, sampogne, aratri e vomeri! D'oltraggio o di vergogna oggi non curano questi compagni del rapace gracculo; in sì malvagia vita i cuori indurano, pur c'abbian le man piene all'altrui sacculo.
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