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Ugo Foscolo
Sesto tomo dell'io

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III

         Ora lasciati pregare e persuadere anche tu, mia fanciulla. Il bello è sì raro! Tu saresti ingrata con la natura, se non ne distribuissi a que’mortali, che, piacendoti, acquistano il diritto di possederlo.

         A questo proposito mi ricordo che Temira mi diceva sovente: – Io faccio felici gli uomini per quattro motivi:

         per bisogno,
         per dovere,
         per capriccio,
         per compassione. –

         Ma a quest’ora il regno di Temira è finito. Il tempo ha sfogliato le rose della bellezza. Ella, o Psiche, ti cede il loco.

         Temira! il tuo regno è finito; ma io… e non so di che amore… ma io t’amo ancora.
         Il mio amore non è certo platonico.

         Non è l’amore dei baci.
         Non è sentimentale.
         Non è di desiderio.
         Non è di speranza.
         Non è di gelosia.
         Non è di ambizione.
         Non per costume.
         Non è per puntiglio.
         Non è per progetto.
         Non per cavalleria.
         Non è… non è…
         Chi può dirlo? Ma io so che spargerei tutto il mio sangue per te.
         Che importa se il tempo ha sfogliate le rose? La fragranza rimane ancora, e l’amicizia la respira.
         Le passioni, più che l’età, hanno oscurato nel mio sembiante il raggio della giovinezza: eccomi sventurato e filosofo. Sorridono le mie labbra, ma non il sorriso della gioia. E, se talvolta rido pazzamente, rido di me, che ho compianto la perfidia degli uomini senza avvedermi che non si può cambiar la natura.
         Se dunque, o Psiche, io ti addito il loco di Temira, non è ch’io lo faccia per me: io non ti vedrò forse più. A me basta se tu conforti con un sospiro la memoria di quest’esule sfortunato. Che la sacra amicizia te ne ricompensi! Ella renderà serena la tua vecchiezza, come adesso l’amore fa gaio il tuo aprile.
         Io scrivo… e ogni lettera ch’io traccio m’avvisa che la vita segue con pari rapidità la mia penna. Il tempo vola e divora il creato. Passano l’ore simili alle nuvole cacciate dagli aquiloni… Tutto cangia, tutto si perde quaggiù… tutto! Quelle trecce, che tu con tanta cura conservivedi vedi! ti biancheggiano fra le dita. Ogni bacio, ogni addio è il preludio di quella eterna separazione che ci aspetta!… Presto!… copriti gli occhi, fino che io chiuda di nuovo le cortine del futuro, aperte dalla mia mano indiscreta.

         Che lunga lettera! Per me vorrei che non finisse mai. Io vivo ancora con te… almen come posso. Non so che intenzioni possa avere il destino su la magra e malinconica persona del povero Lorenzo. Lasciamo dunque scrivere… Forse, chi sa, questa lettera ti porterà il mio ultimo addio.
         T’assista la fortuna , mia buona e cara fanciulla! Tu lo meriti, perché hai il cuore ben fatto. Ma… che il tuo cuore appunto non ti tradisca! Non piegarti ai primi sospiri di un amante: lo perderai per sempre! Innanzi di svelare tutti i tuoi vezzi, fa’ come la madre d’Amore, che, prima di scendere fra gli abitanti di Tempe si lasciava adorare avvolta dentro una nuvola, facendosi conoscere all’aura de’ suoi capelli profumati d’ambrosia.
         I numi festeggiavano un giorno in un convito celeste il ritorno di Venere dagli oracoli d’Amatunta. Per onorare la dea, ciascuna delle altre dive ornò le Grazie del proprio pregio. La Grazia, cui Diana concesse il pudore, fu adorata dai mortali come la primogenita e la più bella.

         Con tutto ciò, non mi so dar pace nell’idea di andare ognora vagabondo come un arabo, portandomi tutto quello che ho sulle spalle. L’ora del mio ritorno è la più bella ch’io segni sempre nel mio giornale. Conoscendo la mia e la universale scelleratezza, ho d’uopo, per guardarmi, di sapere le leggi che mi condannano e mi proteggono e di avere alcune migliaia d’uomini interessate a difendermi dall’avidità e dall’orgoglio del mio vicino. Ogni sventura che mi succede in un paese straniero mi […] gli antichi amici, le benedizioni e gli addio della mia povera madre e il pacifico piacere di temprare, come suol dirsi, il verno al proprio foco. Chi è quell’italiano che, tornando a casa, non senta, scendendo dalle alpi, l’aria piena di vita e di salute, e non dica con lacrime di gioia: – Beato colui che possiede in questa terra un riso, un amico, una sposa e un raggio di fortuna!
         Pare che la natura ci abbia costruito il corpo fisico per vivere solamente dove siamo nati.
         Mi sovviene del povero svizzero.

         I numi festeggiavano un giorno in un convito celeste il ritorno di Venere dagli oracoli d’Amatunta. Per onorare la dea, ciascuna dell’altre dive ornò le Grazie del proprio pregio.

         [Lettore, se vuoi terminare la lettera, salta questo paragrafo che non c’entra.
         “Immergendomi in quel laghetto, io cantava un inno alla natura ed invocava le ninfe, amabili custodi delle fontane. – Illusioni! – grida il filosofo. E non è tutto illusione? Tutto! Beati gli antichi che si credevano degni degli abbracciamenti delle dive, che sacrificavano alla bellezza e alle Grazie, che diffondevano lo splendore della divinità su le imperfezioni dell’uomo, e che, accarezzando gl’idoli della lor fantasia, trovavano il bello ed il vero”.
         Parole dello sfortunato amico mio Jacopo Ortis. Siegue la lettera.]
         E n’abbiamo ragionato sovente, io e l’amico mio Diogene; il quale non è poi, come si pretende, l’uomo il più villano del mondo. Né tutta la sua eloquenza, né il suo esempio, che vale assai più, mi hanno potuto mai fare cosmopolita nel cuore… non posso. La mia ragione, presa alle strette dagli argomenti e dalla trista verità dell’esperienza, ha detto, scotendo appena la testa, di sì; ma il cuore (e Diogene, che lo sa, ve ne attesti) è restato da quel malinconico, e non ha risposto neppure un et.
         Ho dormito più volte i miei sonni pacifici su la paglia, e ho cenato allegramente sul desco della povertà. Nelle mie meditazioni ho congedato la vita col disdegnoso sorriso di tutti gli antichi e moderni sprezzatori di morte; non eccettuato il buon Seneca, che (sia detto fra noi) si accarezzava, tremando, un fiato di vita con l’acqua ora di uno ora di un altro ruscello, e coi legumi piantati sospettosamente dalla propria mano ne’ suoi lussureggianti giardini. Ma la patria?… Il cielo non me ne ha conceduto; anzi ordinò alla fortuna di gettarmi nel mondo come un dado.
         Dai precedenti tomi dell’IO che voi, madama, avete già letto, o leggerete, o sarete per non leggerli mai (non sono ancora scritti), sapete ch’io nacqui in Grecia, che io trascorsi l’infanzia fra gli egiziani, la fanciullezza nell’Illiria, la giovinezza su e giù per l’Italia, la prima virilità in Francia, come vedete, e il resto di vitaDio sa!
         Aggiungete che mio padre mi lasciò erede del suo genio ambulatorio, ed io mi struggo di cercar nuove terre per anatomizzare sempre più gli uomini, ed adorare la madre natura… Ma se voi, madama, leggendo sin qui le poche pagine del mio libro vi siete affezionata all’autore, che…

 

         Mi son trovato rinchiuso fra due montagne nere, aride, circondate in tutta la loro altezza da orribili precipizi e da abissi profondi. Presso le loro vette le nuvole erravano lentamente fra alberi funebri… Due stavano sospese sui loro sterili rami.
         O conquistatori, qui qui contemplate lo spettacolo dei stermini di cui affliggete la terra
         Le brighe della mala fede mercantile.

         –   Non conoscete persona del mondo? – dicevano a un tavolino due galantuomini ad un uomo, che avea sembianza d’essere un viaggiatore.
         –   No.
         –   E che fate qui?
         –   Passo il verno.
         –   Bel clima questo!… ma non vi divertite.
         –   Ho giuocato e ho perduto.
         –   Che fate dunque?
         –   Passeggio.
         –   Tutto il giorno?
         –   Passeggio.
         –   Vi annoierete.
         –   Talvolta.
         –   E allora? – diss’io, che stava in piedi, levandomi con due mani il cappello di testa, e ponendolo dispettosamente sul tavolino
         –   E allora, fumo. –

         Scoteva intanto le ceneri della sua pipa, e s’apparecchiava a riempirla di tabacco… Egli aveva bisogno di fumare ed io di partire: i due genovesi restarono ad ammazzare il tempo sui loro sedili; il viaggiatore si pose a fumare ed io sono andato dove m’è piaciuto.

         Alla soave rugiada della laude la laude fiorisce come le piante alla rugiada del cielo.

         Ma spetta solo agli uomini dabbene il lodar l’uomo dabbene.

         La vita è un epigramma, di cui la morte è l’aculeo.

         Io cerco qui il mio cuore ma non lo trovo più. Oh! mia giovinezza!

         Onde, o mio confessore, io spero che questo libro ti desterà i pensieri destati da una lapida sepolcrale incontrata in un passeggio solitario.

         Filippo domandava alla fortuna di temperare la sua felicità con una disgrazia.

         Passeggiere, va’, e di’ a Sparta che noi riposiamo qui per avere obbedito alle sue sante leggi.

         Oserei definire, la civiltà: la perfetta arte di fingere.
         E la virtù: il secreto di mascherare tutti i volti.

         Ma, o tu pure che vinci, dove tu ti lusingassi di un vantaggio su l’umanità

         O mio figlio, la natura geme al nascere di un eroe, e sorride su la sua tomba.

         Ah! ora m’avvedo che il saggio vecchio mi ha riserbato questa illusione per non calarmi ad un tratto il sipario ed affrettare così la mia morte

         La venerabile povertà… I tuoi conoscenti t’incontreranno, e torceranno gli occhi per non riconoscerti.

         O dolci sponde, o sacre case, o feconde campagne di Italia echeggianti dei nostri gemiti e rosse del nostro sangue!

         Guai, se tu t’abbandoni alle prime occhiate d’un amante! lo perderai per sempre.

         Di coloro che spandono i loro tesori per disgustarsi di quanto v’ha di più bello nella natura

         Quelle piccole cose che son di tanto valore, la virtù e l’amore, son parole morte; ma le loro immagini piacciono.

         Ogni uomo pare che sia fatto per vivere nella sua patria ed io… per abbandonarla.

         La nostranima riceve dalla divinità, dalla quale è emanata, una debole conoscenza dell’avvenire.

         Ma io sono diffidente… lo giuro per le mie tante e sì crudeli sventure… ch’io in questo non ho altra colpa se non d’essere stato troppo ingenuo, e d’aver dato occasione agli uomini di darmi delle lezioni, sacrificandomi alla umana malignità e alla sociale furberia.

         Il male partecipa della natura dell’infinito, e il bene del finito.

         Io mi credo più savio di tutti poiché rispetto i misteri della natura.

         L’abbondanza di idee non è che penuria.

         Scienza, elezione e perseveranza, ecco la virtù e il delitto.

         Prudenza, ecco tutto.

         I filosofi hanno voluto gli uomini numi.

         La virtù unisce il cielo con la terra.

         La nostra vita partecipa de’ principi comici e tragici; l’intreccio sono le nostre follie, e lo scioglimento la nostra morte.

         Talete rispose a quei che gli domandò che ci vuole per esser felice: – Sanità, ingegno e fortuna. –

         L’eccesso de’ piaceri è l’unico ristoro ai popoli fatti vili e infelici dalla tirannide.

http://www.fausernet.novara.it/fauser/biblio/foscolo/fosco34.htm




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