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Dell’India ciò che più amava era la lontananza. Le piogge
frequenti o la paura di una malattia sconosciuta o la disperazione che non di
rado incontrava per le strade lo lasciavano, se non indifferente, quanto meno
assente. Non era un uomo insensibile, Thomas Francis Myles, questo no: anzi,
gli amici lo dipingono come persona devota e generosa. Ma nella sua mente e nel
suo modo di comportarsi l’India faceva scattare un meccanismo sconosciuto, un
dispositivo ignoto. Essere lontano (da casa, dagli amici, in fondo dalla vita)
lo trasportava in una dimensione inaccessibile a chiunque: per questo l’India
gli piaceva. Arrivò a Bombay quand’era poco più di un ragazzo. S’era imbarcato
a Liverpool su una nave mercantile comandata dal cugino perché, come molti ragazzi,
cercava l’avventura e forse sognava la gloria. In India trovò la lontananza, e
se ne beò. Rimase a Bombay per qualche mese, poi si spostò a Calcutta e forse
ci sarebbe rimasto per tutta la vita. Non ebbe mai la tentazione di apprendere
e conoscere gli usi, la lingua, la religione di quel luogo intatto e delicato;
con l’India mantenne sempre, per dir così, una relazione platonica. Nessuno
saprebbe spiegare perché un giorno se ne partì con l’intenzione di non farvi
mai più ritorno. È come se un altro dispositivo, nascosto quanto inesorabile,
fosse scattato d’improvviso. Thomas Francis Myles s’imbarcò per gli Stati Uniti
e quando toccò terra a Boston aveva con sé una sterlina e niente altro. La vita
contemplativa era ormai alle sue spalle. Quando – gli anni passano in fretta –
morì nel naufragio, era uno stimato proprietario terriero.
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