In paese lo chiamavano il «Gufo»,
perchè abitava una vecchia torre diroccata, spersa fra le sabbie, dalla quale
non usciva, a compiere le sue solitarie passeggiate, se non quando le tenebre
calavano sulla terra e sul mare. Di lui si sapeva soltanto ch'era scultore e
che veniva da una città lontana lontana. Qualche pescatore, incontrandolo sulla
spiaggia nelle notti lunari, ne aveva osservato il volto bruno, nascosto nella
fitta barba e sotto lo spiovere dei capelli ed ancor più rabbuiato da
un'espressione indefinibile di scoramento. Un doganiere dal rifugio del suo
casotto in una sera di tempesta lo aveva scorto, al bagliore dei lampi, alzare
le braccia verso il cielo in un gesto di minaccia e d'odio.<
Una mattina il «Gufo» uscì dalla
sua torre, meravigliando i rari viandanti, per lo più donne, in cui
s'imbatteva. Aveva il viso acceso e il passo affrettato, come di chi insegua
qualche chimera, o sia da questa incalzato. Infatti nel suo cervello era
germogliata un'idea ancora indistinta, che lo incitava e gli dava la febbre
della creazione. Da mesi e mesi assiduo aveva nutrito quel suo immenso dolore,
che gli altri vagamente intuivano. Adesso, ad un tratto, gli era sorta
nell'animo la speranza, se non di una liberazione, almeno di un momentaneo
sollievo. Un po' di quell'ardore di artista, che un tempo infiammava il suo
pensiero sempre in cerca di una raffigurazione estetica, era rimasto in lui.
Nella notte e nel sogno egli aveva visto appunto sorgere innanzi a sè una
figura, non ancora precisa, eppure reale, e l'aveva pensata contratta come la
sua anima nello spasimo del ricordo, raccapricciante di terrore, minacciosa e
timida a un tempo. Era quella, appunto quella la visione, che lo tormentava,
adesso, e lo spingeva a volgere i passi in ora insolita per l'ampia distesa di
sabbia. Pure non sentiva ancora lo stimolo acuto del lavoro, poichè l'immagine
gli appariva annebbiata ed incerta. La speranza, più che altro, alitava nella
sua anima, illudendola di trovare un po' di pace, di sfogo in quella plastica
raffigurazione della sua ambascia. Oh, se l'avesse vista innanzi a sè,
realizzata con tutta la potenza della verità e la forza della passione,
quell'interna amarezza, che gli inaspriva la vita, forse si sarebbe potuto
rialzare, avrebbe potuto guardare più sicuro nell'avvenire; chi sa, avrebbe
ricominciata l'esistenza di un tempo.
Tornò verso casa, scoraggiato.
Malgrado il sogno, malgrado il lavorio lungo e acuto dell'immaginazione, la
figura rimaneva sempre nella nebbia, come una cosa inafferrabile. Camminava
meccanicamente con gli occhi bassi e il volto contratto nello sforzo della
ricerca. A un tratto alzò il viso. Innanzi a lui si drizzava la torre, che gli
faceva da asilo, rigida fra le sabbie e contro il cielo, con i suoi merli rotti
e le profonde fessure dei muri rossastri. Sulla soglia c'era una forma umana,
seduta, raggomitolata, con i cubiti sulle ginocchia e il viso nascosto fra le
mani, le spalle coperte da un viluppo di capelli lunghi e arruffati. Il «Gufo»
si fermò, meravigliato. Allo scricchiolio dei suoi passi sulla rena quella creatura
aveva alzato un visetto di ragazza, magro, appuntito, sul quale gli occhi
scintillavano con un'espressione di timidezza feroce. Così, così egli aveva
sognato il proprio dolore, pauroso e selvaggio, timido verso la gente, ma
armato di un odio profondo. Quella fanciulla che gli si drizzava dinanzi nel
momento, in cui egli stava per perdere ogni speranza, chi era, da dove veniva?
Lo scultore s'avvicinò:
— Che fai, qui?; chiese.
La ragazza chinò gli occhi a
terra, poi li rialzò a fissare chi l'interrogava, atteggiando il corpo alla
fuga.
— Nulla: aspettavo; rispose.
La sua voce era rauca,
tremolante. Gli occhi, ora, giravano istintivamente verso il paesello che si
profilava laggiù, in fondo alla distesa di sabbia.
Lo scultore continuò:
— Aspettavi me? Che volevi?
— Ecco. C'è la mamma, che ha
ricevuta una lettera lunga da mio fratello, che si trova in America. Ma non sa
leggere. E in paese gli uomini non ci sono: sono a pescare.
Le parole le uscivano smozzicate
dalle labbra, come per uno sforzo. Lo scultore le posò una mano sotto il mento,
a rialzarlo.
— E tu, chiese, non sai leggere?
— Poco.
Lo guardò ancora con i suoi
occhi ardenti e vivi, poi riprese frettolosa:
— Sono andata dal curato; non
c'era. Allora, sono venuta qui. Credevo di trovarla.
— Dammi!
Le tolse la lettera di mano,
disse:
— Verrò con te da tua madre.
La bambina gli passò rapida
innanzi, lo precedette fra mezzo alle sabbie. Ma lo scultore la richiamò subito
vicino. Voleva studiarne i lineamenti, sincerarsi se proprio quello fosse il modello
cercato.
— Come ti chiami?, chiese.
— Susetta.
Ricordava, ora. Avevano parlato
anche a lui di quella fanciulla cresciuta liberamente fra mezzo alle famiglie
di pescatori. Egli la vedeva raffigurata nel marino, nella posizione, in cui
l'aveva trovata sulla soglia della torre, ma col viso scoperto, sostenuto dalle
due mani. Quel corpo magro e nervoso, quell'arruffìo di capelli e sopra tutto
quei lineamenti, ch'esprimevano una paura selvaggia e il livore contro ogni
cosa, erano appunto ciò, ch'egli aveva presentito nella notte, cercato invano
nella corsa mattutina lungo la spiaggia. Non realizzavano forse la sua visione
quel viso angoloso, feroce e timido a un tempo, e quello sguardo irrequieto,
tormentato dall'ansia e scintillante di desideri? Le prese una mano,
dolcemente. La fanciulla alzò il viso, meravigliata.
— Vorresti venire da me, ogni
mattina?, chiese lo scultore. Ti darei molto denaro.
— Perchè?
Come era diffidente quello
sguardo di ragazza precoce!
— Forse comprenderai. Voglio
scolpire una statua, sai; e ti farei posare da modella. È cosa facile.
Susetta piegò la testa verso
terra, ma la sollevò subito e, guardando fisso lo scultore, interrogò:
— Una statua? Di quelle, come ce
ne sono alla Villa Grande?
— Sì. Cioè, non precisamente
come quelle, ma quasi.
— E ha bisogno di me?
— Sì. Ho bisogno di te.
La povera manina bruna tremava
fra le grosse dita del «Gufo». Pure, la voce della fanciulla suonò di nuovo,
sicura:
— Verrò.
*
* *
In che modo era accaduto tutto
questo? Adesso Susetta era diventata abbastanza docile e tranquilla, tanto da
far impensierire lo scultore, che invano ricercava nella modella l'espressione
selvaggia di un tempo. Anche negli abiti era accurata, nè li portava più a
brani a mostrare le carni brune delle gambette nervose e delle braccia. Quel
cuoricino tredicenne si era accorto ad un tratto di appartenere ad un essere
umano.
Il «Gufo» non si lamentava della
trasformazione. Benchè la sua statua rimanesse indecisa, benchè di giorno in
giorno il modello si famigliarizzasse, perdendo l'asprezza di un tempo, lo
scultore ritrovava del pari la pace relativa, che il suo animo aveva sperata
dal compimento dell'opera d'arte. Il quotidiano contatto con quella creatura,
lo sforzo dell'educarla, la meraviglia continua nel vedere trasformarsi sotto i
propri sguardi la figlia selvaggia del mare, nel vederla riacquistare forma
umana ed umani pensieri, riempivano l'esistenza dello scultore e ne
solleticavano dolcemente l'orgoglio. Adesso egli non la faceva più posare, ma
le insegnava quel poco che poteva ricordare delle scuole fatte, o la conduceva
lungo la spiaggia svelandole con anima d'artista i tesori della vita e della
natura. Anche il sorriso tornava sulle sue labbra, come sul volto di Susetta
tornava la pace. Oh, non era opera buona l'educazione di quell'essere
disprezzato, abbandonato; non valeva la creazione di una statua quel rinnovarsi
di un'anima, quell'aprirsi di un cervello alla luce e alla gioia? E il «Gufo»,
soddisfatto di avere indovinato un cuore sotto il misero inviluppo di carne e
nell'intrico di quell'anima misteriosa, stanco della lunga solitudine sofferta,
alleviato nel proprio dolore dallo svago della compagnia e dell'educazione
intrapresa, si abbandonava alla piena della passione, raccontando il triste
passato e dilungandosi a confidarsi nel piccolo essere, che gli fremeva al
fianco.
Povera Susetta! Con quale
attenzione essa ascoltava il suo maestro e come sentiva battere il cuoricino al
racconto di quell'immenso dolore, che trovava in lei un conforto e uno sfogo!
Oh, la donna, che aveva torturata l'esistenza del suo buon amico, come la
odiava! Eppure, in fondo, malgrado lo strazio che aveva fatto dell'anima dello
scultore, malgrado il tradimento, che aveva costretto costui a rifugiarsi nella
solitudine di un angolo sperso del mondo, Susetta non poteva trattenersi dal
pensare che a quella creatura appunto doveva la compagnia del buon amico e la
nuova vita, che le ferveva nel sangue.
*
* *
Un giorno tutto cambiò per
Susetta. Quella donna, la nemica, era giunta improvvisa in paese, era corsa al
fianco della sua vittima in un risveglio di pentimento e di passione. Il «Gufo»
l'accolse a braccia aperte, dimenticando il passato, dimenticando Susetta, non
ricordando più che il proprio amore e la bellezza di lei.
Addio, dialoghi quotidiani,
lunghe confidenze nella solitudine della torre! La felicità era svanita per
Susetta e con essa era svanito ogni impulso a una nuova esistenza. Ormai
abbandonata a sè stessa, più selvaggia e più torva di prima, la fanciulla passava
ore e ore, nascosta fra i monticelli di sabbia, a spiare con gli occhi ardenti
la torre, ove il suo amico aveva ricevuta un'altra donna e dove non c'era più
posto per lei.
Che cosa sentiva Susetta? Nella
sua precocità essa aveva scatti solitari di gelosia e gesti di minaccia. No,
non così si rubava il cuore di un amico! Non si veniva come una ladra, di
soppiatto, a distruggere tutto un sogno di gioia! Quella donna che voleva
ancora da lui? Non lo aveva abbandonato, non lo aveva tormentato, costringendolo
a fuggirla Perchè era venuta di nuovo a prendere ciò, che non era più suo? La
vedeva spesso dal suo nascondiglio passarle accanto, con l'alta persona
esuberante di vita e di gaiezza, col viso acceso di desideri e la chioma fulva,
scintillante sotto i raggi del sole. Lo avrebbe di nuovo lasciato un giorno, di
certo. E lui, lui, il buon amico, che avrebbe fatto? Sarebbe riuscito a
dimenticarla per sempre? No, no; lo conosceva troppo. Egli sarebbe morto, con
l'odio e l'amore nel cuore; nè sarebbero valse le carezze di Susetta a
salvarlo.
Una sera Susetta sorprese la
nemica a parlare con un giovane del paese, Nanni, il più robusto dei pescatori.
Provò il desiderio di urlarle in faccia qualche ingiuria grossolana; ma si
trattenne. Sentiva istintivamente che quella scoperta le avrebbe dato il mezzo
di riacquistare il suo amico. Per sere e sere spiò i passi della donna fulva,
la seguì come un'ombra, finchè ottenne la prova della turpe tresca. Oh,
finalmente avrebbe potuto parlare al buon amico; gli avrebbe detto tutto, lo
avrebbe liberato per sempre dalla piovra! Ed egli sarebbe tornato a lei e si
sarebbe consolato di nuovo nella compagnia della fanciulla. Perchè non si
sarebbe messo il cuore in pace? Non era mostruoso ciò, che faceva per la
seconda volta quella creatura? Non dimostrava che ogni vincolo, fra i due,
doveva essere infranto?
Lo trovò un giorno, solo, che
aspettava nella torre il ritorno dell'amante.
— Sei tu, Susetta? egli chiese
indifferente. Da quanto tempo non ti si vede!
La fanciulla era rimasta dritta,
vicino alla porta. Le parole, che voleva pronunciare, le ingombravano la gola,
tumultuavano nel suo cervello. Infine, si decise a chiedere, con la voce
strozzata:
— Aspetta quella donna?
— Sì; perchè?
Lo scultore aveva alzato il
viso, meravigliato dall'inflessione di voce della fanciulla.
— Essa verrà qui, di
nuovo, a sporcare questa casa! No, no: non voglio! Non è possibile!
Lo scultore le si era
avvicinato, l'aveva presa per gli esili polsi e col caldo alito le sfiorava il
visino contratto.
— Perchè impossibile? Cos'è
accaduto? Parla!
Ora, Susetta singhiozzava
disperatamente. Lo scultore la guardò con pietà, poi la trasse a sè,
carezzandole i capelli.
— Via, via; mormorò: sei
cattiva. Sei sempre la Susetta selvaggia di un tempo. Perchè non sei più venuta?
Io ti aspettavo. Anche lei t'aspettava. Le avevo parlato tanto di te! Essa ha
promesso di considerarti come una figlia.
Come una figlia, quella donna!
Oh, troppo: bisognava parlare, e subito!
— Mai, mai, proruppe Susetta.
Insieme a lei, mai!
— Perchè? Sei gelosa? Bambina!
La carezzava dolcemente,
tentando di alzarle il viso bagnato di lagrime. Ma Susetta si sciolse
dall'abbraccio, si drizzò, scuotendo indietro i capelli arruffati e, appuntando
gli occhi in quelli dello scultore, urlò:
— È con Nanni, col suo amante,
capisce!
— Chi? Chi? proruppe lo
scultore. Per un momento il suo volto si atteggiò al dubbio. Ma subito si
sconvolse, divenne terribile: le braccia si contorsero nello spasimo, il corpo
rovinò in fascio per terra. Un silenzio di morte regnò nella stanza. A un
tratto suonò triste la voce della fanciulla:
— Ho mentito! Ho mentito! L'ho
detto per gelosia, per cattiveria! Perdono!
Un singhiozzo le ruppe la gola.
Essa guardò ancora una volta la stanza e l'uomo, che giaceva per terra, poi si
slanciò dalla porta, dandosi a una corsa disperata sul sabbione, bruciato dal
sole.
*
* *
Qualche giorno dopo lo scultore
e la sua amante videro, al ritorno da una passeggiata, un gruppo di donne e
paesani, che s'avviavano verso la città.
— Chi sono?, chiese la donna.
Emigranti, che abbandonano il
paese per recarsi lontano, in America, a cercare fortuna.
Una forma di fanciulla si staccò
per un istante dal gruppo, venne vicino ai due. Una bocca scottante si posò sulla
mano dello scultore, qualche lagrima venne a bagnarla. Poi, suonò una voce
rassegnata:
— Addio, buon amico!
— Susetta! esclamò lo scultore.
Volle stendere le dita, fermare
quella creaturina. Ma essa si era già allontanata di corsa, aveva raggiunto i paesani,
si dilungava con questi.
Il «Gufo» stette lì, irresoluto,
a fissare il gruppo, fra mezzo al quale spiccava un volto livido di fanciulla e
due occhi scintillavano tra l'arruffio dei capelli. Ancora una volta una
piccola mano si stese ad accennare un saluto; poi tutto scomparve dietro uno
svolto della strada. Lo scultore riprese a camminare a capo chino, a fianco
della donna fulva, che rideva tuffando il viso in un mazzo di rose purpuree.
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