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4- …alla luce del mistero trinitario

Nel nostro titolo c’è una specificazione importante: si vuole analizzare il problema dell’EA non solo in generale, ma sullo sfondo della realtà trinitaria. Ed è il terzo livello di comprensione dell’EA. Finora abbiamo analizzato la cosa a livello psicologico, che ci ha condotti fino alle soglie del mistero, del mistero della vita umana; ora l’analisi continua penetrando dentro il mistero.

In questo sfondo misterioso della Trinità santissima troviamo che

·         anche all’interno della Trinità c’è un EA fondato sulla relazione, per cui ogni Persona si apre all’altra e si riceve dall’altra;

·         ma è una relazione in cui l’equilibrio è assoluto, proprio perché l’apertura è totale, le Persone si ritrovano l’una nell’altra, in una relazione che è comunione di volti che si riconoscono e rispecchiano l’uno nell’altro, comunione di relazioni e d’amore che non chiude il cerchio, ma che s’estende all’esterno e alla quale l’uomo stesso è invitato e ammesso già fin d’ora;

·         addirittura le tre Persone si qualificano nei termini e secondo i dinamismi coi quali abbiamo prima tentato di concettualizzare l’EA dell’uomo: il Padre è l’amore che si dona, il Figlio l’amore che si riceve, lo Spirito è l’amore che viene dai due, amore donante-ricevente, grato-gratuito, così forte e ricco d’energia da divenire persona.

Chiariamo meglio.

4.1- Il Padre: la èk-stasis1

L’EA nei rapporti interpersonali è componente della maturità adulta. Dell’adulto che ha raggiunto una certa solidità e autonomia strutturale, ed è in grado di generare, di far dono di sé e della vita, di uscire da sé per fare posto all’altro. Il Padre è simbolo di tutto ciò: soprattutto simbolo di trasparenza, di gratuità totale, di assenza di secondi fini nel dono di sé, di desiderio autentico del bene dell’altro e della sua crescita, di energia prorompente nel dare vita. Il Padre è l’èk-stasis di sé, l’esodo dell’io da se stesso, è l’altruismo d’un amore assoluto e puro.

Ci ricorda, dunque, che c’è equilibrio solo quando si esce da se stessi, e c’è EA solo quando si tratta di vera uscita da sé (la èk-stasis), ovvero quando il donum non è contaminato dal dolum, e non nasconde, come il cavallo di Troia, intenti ingannevoli, non è un finto dono e una finta uscita dall’io, qualcosa di virtuale e apparente, e pure di ossessivo e ripetitivo, l’eterno ritorno su di sé.

4.2- Il Figlio: la kénosis

Il Figlio ci ricorda che non è divino solo il dare, ma anche il ricevere, perché da tutta l’eternità il Figlio si riceve dal Padre. È l’avvento del dono, quale compimento dell’esodo paterno. E la sua gratitudine (o la certezza d’essere amato) è tale che il Figlio può decidere, a sua volta, di dare completamente se stesso, senza alcuna gelosia e senz’alcun limite, fino all’annullamento di sé e alla morte, la kènosis, appunto. Che non è da intendere, però, solo nella sua accezione negativa, ma anche come libertà di abbassarsi al livello dell’altro, di gustare la nobiltà del servizio, di adattarsi a lui con creatività, di assumere il suo linguaggio, la sua natura, il suo peccato…, per partecipare a lui la propria ricchezza, i propri beni, la propria vita.

Il Figlio, da questo punto di vista, è colui che ci ricorda che l’equilibrio, paradossalmente, lo si trova nel perderlo o nel perdersi per gli altri, ma ciò che equilibrio al dono, al prodigarsi per gli altri, è esattamente la certezza dell’amore ricevuto che consistenza al gesto liberando da ogni avarizia e gelosia, da ogni tristezza e autosvilimento. Straordinario e insuperabile esempio di EA possiamo considerare l’inno cristologico di Fil 2,6-11, con la perfetta corrispondenza tra la fase dell’umiliazione e quella dell’esaltazione.

4.3- Lo Spirito: èk-stasis e kénosis

Lo Spirito è il vincolo tra il Padre e il Figlio, il legame perenne tra i due, colui che crea sintesi ed equilibrio tra èk-stasis e kénosis, tra il movimento che porta il soggetto fuori di sé e la radicalità del gesto, tra il fare posto all’altro e il caricarsi il suo peso o tra l’umiliazione del Figlio e l’esaltazione da parte del Padre, come abbiamo già accennato, o, infine, tra il generare del Padre e la consegna di sé del Figlio che porta alla croce e alla morte. Se l’identità del Padre e del Figlio, come l’abbiamo considerate ora, ci indicano le condizioni basilari, le premesse dell’EA, lo Spirito in qualche modo ci detta la sintesi, ci propone in se stesso l’equilibrio in atto, la sua dinamica. Lo Spirito è l’equilibrio, e l’equilibrio dell’amore, anche se equilibrio estremamente dinamico e creativo, mobile e fantasioso.

E ci spiega e fa capire che l’EA non si gioca più sull’ambiguo rapporto tra dare e avere, e neppure solo sulla logica dell’asimmetria della vita, ma sul coraggio di uscire da se stessi che porta al sacrificio di sé; non è più equilibrio statico, ma dinamico; non tende né al pareggio (tra dare e avere) né a un vagamente illimitato darsi all’altro, ma mira precisamente a riprodurre nel soggetto quello “squilibrio” che lo conduce ad anteporre l’altro ai suoi bisogni, a caricarsi sulle proprie spalle il suo peso, a porger l’altra guancia se si è percossi, a godere d’esser servi… É lo squilibrio o la follia della croce.

Paradossalmente il concetto di equilibrio è qui superato. Non è più concetto solo psicologico, ma anche teologico. E proprio la prospettiva misterico-trinitaria ci ammonisce che non dobbiamo esser …troppo equilibrati. Estasi non è stasi, e kenosi non è morte o quiete cadaverica! Per questo lo Spirito è anche la fantasia scapigliatissima, e pure pacata, di Dio. Anche perché i due elementi della sintesi (ék-stasis e kènosis) rappresentano qualcosa d’inesauribile, in se stessi e nella sintesi cui danno origine. È molto espressiva, in tal senso, l’affermazione di fra Cristiano, il monaco trappista ucciso dal terrorismo islamico in Algeria nel maggio ’96, a proposito dell’azione mondana dello Spirito, “la cui gioia segreta -secondo il monaco martire- sarà sempre quella di stabilire la comunione e di ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze”. L’equilibrio è proprio nel gioco, che è originalità, imprevedibilità, capacità di adattarsi alle variazioni della realtà e delle persone, ricerca dell’essenziale e, a partire da questo, libertà di sorridere di se stessi e di ciò che si ama e continuare ad amarlo ancora.

Più in concreto l’EA che viene dallo Spirito determinerà una libertà interiore nei rapporti interpersonali di cui possiamo tracciare qualche segno. Ci riferiamo, in particolare, alla situazione del consacrato/a, vergine per il regno e chiamato per questo a stabilire molti rapporti per annunciare Colui che è al centro della sua vita.

4.3.1- “Tirarsi in disparte

Il vergine ama e stabilisce rapporti e instaura amicizie con uno stile tutto caratteristico, uno stile che lo porta a non mettersi mai al centro, perché il centro è di Dio, appartiene solo a lui. E dunque sta attento perché nel suo modo di relazionarsi nulla possa esser inteso come equivoco, da questo punto di vista, come pretesa, da parte sua, di voler invadere uno spazio che non è suo. Lo stile del “tirarsi in disparte” è gesto kenotico, poiché implica una rinuncia, una negazione e mortificazione d’una certa pretesa personale; ma ha lo scopo di far risaltare la componente estatica, ovvero l’obiettivo di far risaltare nitido e inequivocabile, al centro d’ogni amore umano, l’amore dell’Eterno, anzi, il voler dire con tutta la voce che solo Dio può appagare profondamente il cuore umano, senza alcun miraggio soggettivo.

Così, per esemplificare, a chi lo ama e vorrebbe porlo al centro della propria vita, egli ricorda: “Non sono io il centro della tua vita, ma Dio”. E si tira in disparte, ma non primariamente per non far peccati, ma perché chi gli vuol bene si volga a Dio. E se qualcuno/a vuole inserirsi al centro della sua vita, quasi vantando una priorità nel suo amore, anche a costui/costei egli rammenta, con tatto ancor più che con fermezza: “Non sei tu il centro della mia vita, ma Dio”. E si tira in disparte, ancora una volta non per non far peccati, ma perché anche l’altra persona scopra la centralità di Dio nella sua storia, o scopra che nel suo cuore c’è qualcosa che solo Dio potrà pienamente appagare.

4.3.2- La debolezza dell’amore

Ancora, altro segnale di EA che s’ispira alla “logica equilibratrice” dello Spirito tra estasi e kenosi è la debolezza dell’amore, perché l’amore vero non s’imponecostringe, vuole bene anche se l’altro lo rifiuta. L’amore di chi ama nella libertà dello Spiritoabbraccia la persona amata, ma allo stesso tempo non la trattiene, la lascia libera. L’Amore ama, ma l’amato può farne a meno; c’è, ma non s’impone. L’Amore può rimanere in attesa in eterno, anche se l’amato l’ignora e non l’accoglie mai” 2. E anche questo è sintesi tra estasi e kenosi, il cui simbolo massimo è la croce, segno dell’amore più altruista e più debole, grande proprio perché debole.

4.3.3- La mediazione del “terzo

EA alla luce del mistero trinitario significa l’abbandono della pretesa di arrivare immediatamente all’altro, senza mediazioni. Se c’è una mediazione nella relazione tra Padre e Figlio, tanto più questa è regola dei rapporti umani. C’è dunque EA nella misura in cui nel rapporto interpersonale l’io non pretende accedere direttamente al mistero del tu e accoglie la mediazione del “terzo divino”: la relazione umana ha bisogno d’un fondamento che funzioni da criterio di verifica, le garantisca fedeltà e solidità, e si ponga al suo centro come origine e fine d’essa, con tutte le conseguenze concrete comportamentali che ciò implica.

Ma la cosa forse più singolare, e che tocca da vicino il problema dell’EA a livello generale d’impostazione di vita, è che non possiamo pretendere di avere un accesso diretto e immediato nemmeno o tanto meno col divino, anche nel rapporto con Dio abbiamo bisogno d’una mediazione e d’una mediazione umana. É il “terzo umano” che è necessariamente presente, parte in causa nel più intimo rapporto della creatura col Creatore. Perché “rimanere soli con «dio» senza un Terzo che si possa invocare come Testimone è pericolosissimo3, e non solo come testimone, ma come verifica severa e conferma puntuale della verità di quel rapporto, come termine ultimo o punto d’arrivo d’esso, come mistero in cui si celano tracce del divino, e dunque come presenza, parola, luogo, evento in cui l’Eterno si nasconde e tramite il quale m’interpella.

In sintesi, come ben dice Giannoni, quel Dio che tutti noi pretenderemmo incontrare direttamente è colui “che si cela nella sua traccia, lascia il tu e si fa terza persona, perché appaia l’altro, gli altri: il Desiderabile sfugge al desiderio e rinvia agli altri, specie se indesiderabili4. Ecco il pieno EA, equilibrio ancora una volta tra estasi e kenosi, tra senso immediato della relazione e suo significato recondito, tra pretesa un po’ intimistica di vedere il volto del Padre e scoperta di questo volto in tante persone e vicende.

4.3.4- “Sfiorare per far fiorire

Un’altra delicatezza tutta giuocata sul filo tenue dell’EA tipico del vergine per il regno dei cieli. È quell’apertura all’altro che passa attraverso una kenosi particolare (quella del gesto e del contatto fisico) e diventa finezza di tratto, un modo di passare accanto all’altro “sfiorandolo”, perché fiorisca in lui il progetto di Dio. “Sfioraresignifica esser intensamente presente all’altro/a, accoglierlo profondamente dentro di sé, coglierne la bellezza e l’intrinseca amabilità, ma senza invaderne gli spazi, senza pretendere contatti immediati, come potrebbe essere un contatto fisico. Vuol dire scoprire un punto d’incontro, una tensione ideale con un’altra persona, e decidere di stabilire un rapporto, anche intenso, ripetiamo, attraverso questo punto d’incontro; che per il credente, poi, è lo stesso Spirito effuso nei nostri cuori, e non attraverso altri punti o motivi d’incontro o contatti (il corpo, la bellezza fisica, o altre attrazioni…). “Sfiorare per far fiorire” vuol dire non dominare la personalità altrui o stringerla a sé, usandola come un oggetto gratificatorio, ma cercare di farla fiorire perché giunga al suo pieno compimento.

È arte finissima, che s’acquista lentamente con un lungo e faticoso controllo e affinamento dello spirito e della psiche, dei sensi e degli atteggiamenti. È arte che vuol dire rispetto dell’altro; conoscenza della sensibilità e vulnerabilità propria e altrui, come pure della sessualità e delle sue leggi; sincerità con se stessi e trasparenza nel rapporto; capacità di trasmettere affetto in modo adulto e intelligente, senza lanciare messaggi ambigui, né dover ricorrere necessariamente (o ossessivamente) alla gestualità fisica; vuol dire ancora senso di responsabilità per la crescita e la libertà altrui e ...buon senso e buon gusto.

In fondo è quanto fa Dio, con le debite proporzioni, con l’uomo: il Creatoretocca sfiorando”, attraverso il suo santo Spirito, con la delicatezza del tocco più reale e creativo, libero e liberante, il cuore dell’uomo, dandogli di esistere aperto a lui, capace d’amare alla sua maniera, in maniera umanamente squilibrata e divinamente equilibrata. In una società come la nostra che spesso banalizza ed enfatizza il rapporto fisico, quasi non conoscesse altre forme di relazione, o in cui sovente non si rispetta lo spazio o la sensibilità dell’altro, il consacrato è chiamato a esser segno di quell’eleganza e finezza d’animo, di quella discrezione e sobrietà che è dono dello Spirito (=EA), e che nell’apparente povertà dei gesti o kenosi dell’espressione manifesta la signorilità e fantasia e pure l’intensità e verità dello Spirito, amore che viene dall’armonia divina.

4.3.5- Baciare il lebbroso

Infine, a sottolineare la tipicità dell’EA del vergine come qualcosa di apparentemente squilibrato prendiamo lo spunto dal famoso episodio della vita di Francesco d’Assisi quando bacia e abbraccia il lebbroso. È un gesto umanamente assurdo, apparentemente non c’è alcuna corrispondenza tra dare e avere, nessuna simmetria della vita che in qualche modo “imponga” a Francesco quell’atto; qui scatta una logica superiore e altra, però importantissima da cogliere, perché qui è nascosto quell’equilibrio strategico e prezioso che rende sana e salutare la rinuncia, la rinuncia del vergine in particolare.

Egli rinuncia a qualcosa di bello (umanamente parlando) per esser libero di provare attrazione per qualcosa che umanamente non è attraente; detto diversamente, il vergine rinuncia al viso più bello per esser libero di abbracciare il viso più brutto; o di allontanarsi da qualcuno/a solo per avvicinarsi più intensamente a qualche altro o a tutti; o, ancora, di dire di no a quell’amore umano che usa un certo tipo di criteri, elettivi-selettivi, per amare alla maniera di Dio, che non usa quei criteri, ma fa sorgere il sole sui giusti e gli ingiusti, e ama in particolare il povero e il debole. La rinuncia implicita nella castità perfetta è sana quando c’è questo equilibrio; anzi, solo allora la rinuncia è possibile, quando è mirata e ben finalizzata, pur se costosa, poiché apre, dinanzi al cuore del vergine, uno spazio inedito di libertà, la libertà di amare tutti, fino a voler bene e provare attrazione per chi umanamente sembra meno amabile o addirittura repellente, o è più tentato dalla disperazione di scoprirsi poco amato5.

È, ancora una volta, kenosi ed estasi, in una sintesi che dice la sostanza della verginità per il regno dei cieli quale progetto di grande EA, come scelta di amare Dio al di sopra di tutte le creature (=con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze), per voler bene con il cuore e la libertà di Dio a ogni creatura (=senza legarsi a nessuna in particolare, che sarebbe il matrimonio, né rifiutandone alcuna).




1 Mi ispiro, in questa sezione, ad alcune riflessioni già elaborate nel mio Come fuoco che divampa. Il consacrato aperto al dono dello Spirito, Cinisello B. 1998, pp.23-34.


2 M.I.Rupnik, Nel fuoco del roveto ardente. Iniziazione alla vita spirituale, Roma 1996, p.39.


3 P.Sequeri, Obbedienzxa come consegna alla volontà de “Il terzo”, in AA.VV., L’obbedienza torna virtù, Fossano 2000, p.142.


4 P.Giannoni, Prete e monaco diocesano, in “Il Regno. Attualità”, 10(1997), 320.


5 Per una analisi più puntuale dei criteri della maturità affettiva del celibe consacrato cf A.Cencini, I sentimenti del Figlio. IL cammino formativo nella vita consacrata, Bologna 1999, pp.208-213.




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