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T’onori Giove, o re de’ forti.
A Dio
Mal s’obbedisce e al re. Dall’alba indissi
La pugna. Or so che il popolo paventa
Vani presagi. E a che tardate a indurlo
A obbedienza ed a timor piú sano
Del vostro scettro? o pari al volgo i duci
Credono spento col Pelide in noi
Ogni valor?
Vive in noi sempre. E il campo
Riede a fidanza. Delle danae genti
E de’ celesti messaggero io vengo.
E le fatali chieggio armi d’Achille
Per Ajace.
Non ei. D’Achille ancor siede al sepolcro
Presso l’onda Sigea. Quivi gli piacque
Dimorar solo, e piangere l’amico
Da cui disgiunto mal suo grado ei visse.
Or lo chiama e lo placa, e a lui sotterra
Manda gemendo omai l’ultimo addio.
Tu, dunque, o Teucro, (e generoso amore
Ti sprona) estimi delle sacre spoglie
Universal de’ popoli le stima.
Già il terror concitava ed il desio
Del patrio suol gli Argivi a dar le navi
All’oceano ed alla fuga. I soli
Mirmidoni anelavano alla pugna
Per immolar trojane vite all’ombra
Del lor signore: e prosternati, intorno
Tutti giacean ferocemente muti.
Or quando udiro del ritorno, un grido
Dier terribile, e mille aste brandendo
Tutti ad un tempo sursero da terra.
E prorompean nel vallo che circonda
De’ prigioni le tende. Uscí Tecmessa
Dal padiglion del padre: «Io son, dicea,
Moglie d’Ajace; de’ figli d’Ajace
Madre son io: sorella io sono, e figlia
De’ prenci inermi che volete al rogo
Sacrificar». — Pudor li vinse e il nome
Del forte; e incerti, immobili sul vallo
Ristettero. Fremendo indi dier volta
E la minaccia ritorcean sull’oste
A impedirgli la fuga. Ira al terrore
Sottentrava ne’ popoli. Ma in mezzo
Calcante apparve, e rivolgendo gli occhi
La riverenza per gli Dei diffuse.
«Ilio cadrà, gridò il profeta; i numi
Lo edificaro: alle armi, opra de’ numi,
Il sacro Ilio cadrà». Levò le palme
Febo adorando e il cenno alto del Dio:
E il pugno intanto degli Achei piú lente
Brandia le spade che volgeansi a terra.
Chiamano Ajace a un grido solo, Ajace
Degno dell’armi e domator di Troja.
Giovine, ardita inchiesta movi. In mente
De’ numi è ancor di chi fien l’armi. E tale
È il scettro mio, che a me serbarle io sdegno.
Ma se Ajace o se duce altro le merti
Forse udirò? Nell’assemblea de’ regi
Starà l’arbitrio o in me. — Me primo elesse
Esecutor de’ suoi consigli il cielo.
Turbato parli, o re; che Ajace l’armi
Al par di te forse non curi estimo;
Non però so che viva altro mortale
Voli, e lo sdegno del suo re gl’intimi.