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Alberto partì la sera stessa per
Milano, e andò a cadere come una bomba dalla Selene.
«Non è in casa» gli dissero.
Era il tocco della mezzanotte;
egli andò al Circolo, e vi passò il resto della notte.
Il giorno dopo s'era levato da
poco, allorquando Selene entrò come una spiritata, sbattendo gli usci, e
cantarellando.
«To! eri tu, biondino? Sei venuto
a cercarmi iersera? Sei tornato? Scusami se non mi hai trovata in casa; ero
andata al Carcano.»
«Al tocco?»
«Sì, dopo s'era andati a cena
colla Irma, sai, l'Irma, la bruna, la conosci? ci pagava una cena scicche perché
era il giorno della sua festa. Come stai?»
«Sto benissimo, grazie.»
«Vieni dal lago? Cosa m'hai
portato dal lago?»
«T'ho portato un braccialetto.»
«Bello? Fammelo vedere. Dov'è?»
«Da Bigatti. Se hai furia puoi
andare a prenderlo.»
Scrisse su un bigliettino di
visita due righe pel gioielliere che la conosceva benissimo, e glielo diede.
Ella volle gettargli le braccia al collo.
«Grazie, non occorre...»
diss'egli scostandola.
La povera Selene se n'andò mogia
mogia. Alberti ordinò al cameriere di dir sempre che non era in casa tutte le
volte che ella venisse a cercarlo.
Andò al Corso, alla sala d'armi,
al Circolo; giuocò, rivide i suoi amici, e prese parte alle loro cene e a tutti
i loro passatempi. Frelli, il nestore emerito della brigata, l'avea preso sotto
la sua protezione. «È di buona razza e di buona tempra» diceva. Il nestore
aveva quarantasette anni, due gran dame che se lo disputavano, ed un'amante per
la quale gettava il denaro a due mani. Gli amici di Alberto erano tutti bravi
giovanotti - borsa aperta, cuore a prova di spada, e scilinguagnolo un po'
sciolto. Nella loro allegria, nella loro conversazione, nei loro bagordi, c'era
un profumo di gaiezza, di spirito, e di cordialità giovanile che inebbriava i
più sobri.
Una delle più belle sere di
luglio Alberti era uscito dal Circolo, insieme a due amici coi quali avea
desinato; avea la pupilla alquanto dilatata, è vero, ma le gambe più ferme e la
lingua più sciolta degli altri. Andarono sui bastioni in carrozza, ciarlando,
fumando e ridendo ad alta voce. L'aria era rinfrescata da un lieve venticello
che veniva dalle Alpi; dai giardini venivano di tanto in tanto vigorosi
profumi, incontravasi solamente qualche coppia che passeggiava lentamente, discorrendo
sottovoce, e dileguavasi sotto gli alberi dei viali, o qualche brougham che
andava a piccolo trotto il cavallo fiutando la polvere e il cocchiere contando
le stelle nascenti. Alberti a poco a poco era divenuto silenzioso, s'era
buttato in fondo al legno, e avea lasciato spegnere il sigaro. Ad un tratto
fece fermare la carrozza, salutò gli amici, s'avviò a piedi pel corso, fermò il
primo fiacre che incontrò e si fece portare dalla Selene.
«Oh!» esclamò costei vedendoselo
comparire dinanzi, e rimanendo con una mano sul battente dell'uscio, con
grand'occhi attoniti. «Non t'aspettavo più.»
Ei si chinò sulla candela, e
accese un altro sigaro.
«T'hanno detto che sono venuta a
cercarti?»
«Sì.»
Selene andò in furia a prendere
il biglietto che Alberti le aveva dato per Bigatti, e lo stracciò in cento
pezzi.
«Allora ecco il tuo braccialetto!
Non lo voglio.»
«Come sei bella così in collera!»
rispose Alberti dopo averla fissata alcuni secondi senza batter ciglio.
«Sei innamorato? Cos'hai, sei
innamorato?»
Ei non rispose.
«Sei in collera con la tua bella,
di'?»
Alberto scrollò le spalle e disse
freddamente:
«Vuoi che me ne vada?»
«Sì, sì, vattene!» e poscia,
afferrandolo con impeto per un braccio: «No! non te ne andare!».
E rimase a guardarlo avidamente,
tenendolo sempre pel braccio, e gli occhi le si velarono.
«Come fa a non amarti, cotesta
superbiosa?»
Gli gettò le braccia al collo. Ei
che stava per partire tranquillamente, allorché sentì avvinghiarsi da quelle
braccia dimenticò la contessa.
Uscì dopo mezz'ora, fosco,
stralunato, dispettoso - la povera ragazza non ebbe il coraggio di trattenerlo.
Andò a Como col primo treno; passò la giornata sul lago, e la sera, a notte
fatta, s'avviò a piedi verso la villa. Tutto era buio, soltanto alla finestra
della camera della contessa c'era lume.
Quel lume l'accecava,
l'affascinava, gli trafiggeva il cuore come una punta di ferro arroventato. Ei
non avrebbe osato ridire tutti i pensieri che gli tempestavano in mente: c'era
una specie di gelosia acre, che avea un pudore singolare. Avrebbe ucciso la
contessa con le sue mani piuttosto che rimproverarle le torture che ella gli
faceva soffrire in quel momento - e stette ad assaporarle ad una ad una, sin
quando quel lume si spense. L'indomani le scrisse: «Mi volete a desinare oggi?»
Gli fu risposto con un invito del conte e della contessa Armandi.
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