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«IL NOSTRO CONDOTTIERO»
Soldati d’Italia, miei compagni di lotta e di gloria, cade oggi il trigesimo della nostra faustissima impresa di Zara. Conviene celebrarlo con le nostre più belle canzoni e con le nostre più larghe acclamazioni.
Santa era chiamata nelle nostre litanie di guerra la città che al suo patrono scolpito diede l’armatura di cavaliere romano. E in quel mattino di novembre respirammo la sua santità come nella leggenda aurea, come nei luoghi mistici del consumato amore. La città intera, con le sue mura e con le sue creature, era come un inno religioso. Eravamo preparati anche a combattere, e non potevamo se non inginocchiarci. Le dicemmo: «Se l’Italia bella, se l’Italia vera, se l’Italia illuminata dal giovine sangue dei martiri chiedesse una pietra pel suo novo altare, Zara potrebbe offrire tutte le sue pietre.» Anche dicemmo al popolo che era tutto un clamore e tutto un ardore: «Fratelli, veniamo da Fiume dove si giura: “Italia o morte”. Veniamo a Zara dove si giura: “Italia o morte”. A Fiume i combattenti gridano: “Fiume o morte”. A Zara i combattenti gridano: “Dalmazia o morte”. La Città Olocausta e la città santificata sono le due braccia della preghiera e le due braccia della lotta. Qui si risolleva la preghiera e qui si riconforta la lotta.»
La nostra parola non passerà, compagni. Non possiamo ricordare senza tremito il momento in cui tutto il popolo s’inginocchiò nella piazza davanti alla grande Bandiera dei Fanti, spiegata su la ringhiera del Podestà il 14 di novembre, come su quella del Palazzo il 12 di settembre tra le armi dei legionarii di Ronchi.
Rimettiamo oggi lo scarpello nelle due date gloriose per inciderle più profondamente.
E, come dal ponte della nave inghirlandata, risalutiamo i compagni rimasti laggiù tra la Porta Marina e la Porta di Terraferma, risalutiamo il bel nostro Battaglione del Carnaro, che è laggiù il buon seme fiumano, l’assiduo levame di fede e di libertà, la chiara malleveria della nostra promessa.
Dal ponte della nave carica di ghirlande come quella degli antichi riti vittoriali, noi dicemmo al popolo addensato: «Ieri, davanti alla sacra bandiera di Giovanni Randaccio, v’inginocchiaste con un movimento sublime. Per sollevarci fino a voi, o Dalmati, bisognerebbe che ora c’inginocchiassimo. Ma sul ponte di una nave da guerra non si può non restare in piedi. In piedi vi gridiamo la nostra gratitudine senza fine, il nostro amore senza misura, la nostra promessa senza mancamento.»
Compagni, la florida nave del ritorno portava tuttavia su la prora lo Spirito di sacrifizio che è il fratello alato della Vittoria, come l’Amore è il fratello della Morte.
Il destino è oggi su noi sospeso come una nube che sia per balenare. Nessuna fronte si curvi e nessun cuore vacilli. Lo Spirito di sacrifizio è in mezzo a noi, e ci guarda. Fu il nostro condottiero silenzioso nella notte di Ronchi. È oggi il nostro condottiero. La sua parola d’ordine è quella delle grandi religioni fondate nel sangue puro: «Salva l’anima tua.»
Egli la ripete oggi a noi, alla città, alla Patria.
Se saremo pronti sempre al suo appello e al suo comando, non ci potremo smarrire né perdere.
E tutto il resto, o miei compagni invitti, noi l’abbiamo in dispregio.