[I due legati giongono in Trento;
giongono anco l'ambasciator cesareo e gli ambasciatori del re de' Romani]
[A'] 13 marzo gionsero in Trento il
cardinale del Monte et il cardinale Santa Croce, raccolti dal cardinal di
Trento, fecero entrata publica in quel giorno e concessero tre anni et altre
tante quarantene d'indulgenza a quelli che si ritrovarono presenti, se ben non
avevano questa autorità dal papa, ma con speranza che egli ratificarebbe il
fatto. Non trovarono prelato alcuno venuto, se ben il pontefice aveva fatto
partire da Roma alcuni, acciò si ritrovassero là al tempo prefisso.
La prima cosa che i legati fecero fu
considerare la continenza della bolla delle facoltà dategli, e deliberarono
tenerla occulta, et avvisarono a Roma che la condizione di procedere con
consenso del concilio gli teneva troppo ligati e gli rendeva pari ad ogni
minimo prelato, et averebbe difficoltato grandemente il governo, quando avesse
bisognato communicare ogni particolare a tutti; aggiongendo anco che era un
dare troppo libertà, anzi licenza alla moltitudine. Fu conosciuto in Roma che
le raggioni erano buone e la bolla fu corretta secondo l'aviso, concedendo
l'autorità assoluta. Ma i legati, mentre aspettavano risposta, dissegnarono
nella chiesa catedrale il luogo della sessione capace di 400 persone.
Dieci giorni dopo li legati, gionse a
Trento don Diego di Mendozza, ambasciatore cesareo appresso la republica di
Venezia, per intervenire al concilio con amplissimo mandato datogli il 20
febraro da Bruselles, e fu ricevuto da' legati con l'assistenza del cardinale
Madruccio e di tre vescovi, che tanti sino allora erano arrivati, quali, per
essere stati i primi, è bene non tralasciare i nomi loro: e furono Tomaso
Campeggio vescovo di Feltre, nepote del cardinale, Tomaso di San Felicio, vescovo
della Cava, fra' Cornelio Musso franciscano, vescovo di Bitonto, il piú
eloquente predicatore di quei tempi. Quattro giorni dopo fece don Diego la sua
proposta in scritto: conteneva la buona disposizione della Maestà Cesarea circa
la celebrazione del concilio e l'ordine dato a' prelati di Spagna per
ritrovarvisi, quali pensava che oramai fossero in camino; fece scusa di non
essere venuto prima per le indisposizioni; ricercò che s'incomminciassero le
azzioni conciliari e la riforma de' costumi, come due anni prima in quel luogo
medesimo era stato proposto da monsignore Granvela e da lui. I legati in
scritto gli risposero, lodando l'imperatore, ricevendo la scusa della sua
persona, e mostrando il desiderio della venuta de' prelati. E la proposta e la
risposta furono dalla parte a chi apparteneva ricevute ne' capi non
pregiudiciali alle raggioni del suo prencipe rispettivamente: cautela che rende
indizio manifesto con qual carità e confidenza si trattava in proposta e
risposta, dove non erano parole che di puro complemento, fuori che nella
menzione di riforma.
I legati, incerti ancora qual dovesse
esser il modo di trattare, facevano dimostrazione di dovere giontamente
procedere con l'ambasciatore e prelati, e di communicare loro l'intiero de'
pensieri: onde all'arrivo delle lettere da Roma o di Germania convocavano tutti
per leggerle. Ma avvedendosi che don Diego si parteggiava a loro et i vescovi
si presumevano piú del costumato a Roma, e temendo che, accresciuto il numero,
non nascesse qualche inconveniente, avisarono a Roma, consegliando che ogni
spacio gli fosse scritto una lettera da potere mostrare, e le cose secrete a
parte, perché delle lettere sino a quel tempo ricevute gli era convenuto
servirsi con ingegno. Dimandarono anco una cifra per poter communicare le cose
di maggior momento. Le qual particolarità, insieme con molte altre che si
diranno, avendole tratte dal registro delle lettere del cardinale del Monte e
servendo molto per penetrare l'intimo delle trattazioni, non ho voluto tacerle.
Essendo già passato il mese di marzo e
spirato di tanti giorni il prefisso nella bolla del papa per dar principio al
concilio, i legati consegliandosi tra loro sopra l'aprirlo, risolsero
d'aspettar aviso da Fabio Mignanello, noncio appresso Ferdinando, di quello che
in Vormazia si trattava, et anco ordine da Roma, dopo che il papa avesse inteso
la venuta et esposizione di don Diego; massime che gli pareva vergogna dar un
tanto principio con tre vescovi solamente. Alli 8 d'aprile gionsero
ambasciatori del re de' Romani, per ricevere i quali fu fatta solenne
congregazione. In quella don Diego voleva precedere il cardinale di Trento e
sedere appresso i legati, dicendo che, rappresentando l'imperatore, doveva
sedere dove averebbe seduta Sua Maestà. Ma per non impedire le azzioni fu
trovato modo di stare che non appariva quale di loro precedesse. Gli
ambasciatori del re presentarono solo una lettera del suo prencipe; a bocca
esplicarono l'osservanza regia verso la Sede apostolica et il pontefice,
l'animo pronto a favorire il concilio et ample offerte: soggionsero che
mandarebbe il mandato in forma e persone piú instrutte.
Dopo questo arrivò a Trento et a Roma
l'aspettato aviso della proposta fatta in dieta il dí 24 marzo dal re
Ferdinando, che vi presedeva per nome dell'imperatore, e della negoziazione
sopra di quella seguita: e fu la proposta del re che l'imperatore aveva fatta
la pace col re di Francia per attendere a comporre i dissidii della religione e
proseguire la guerra contra turchi; dal quale aveva avuto promessa d'aiuti e
dell'approbazione del concilio di Trento, con risoluzione d'intervenirvi o in
persona o per suoi ambasciatori. Per questo stesso fine aveva operato col
pontefice che l'intimasse di nuovo essendo stato per inanzi prorogato, e
sollecitatolo anco a contribuire aiuti contra i turchi. Che dalla Santità Sua
aveva ottenuto l'intimazione e già essere in Trento gl'ambasciatori mandati
dall'imperatore e da lui. Che era noto ad ogni uno quanta fatica avesse usato
Cesare per fare celebrare il concilio, prima con Clemente in Bologna, poi con
Paolo in Roma, in Genova, in Nizza, in Lucca et in Busseto. Che secondo il
decreto di Spira, aveva dato ordine ad uomini dotti e di buona conscienza che
componessero una riforma; la qual anco era stata ordinata. Ma essendo cosa di
molta deliberazione et il tempo breve, soprastando la guerra turchesca, avere
Cesare deliberato che, tralasciato di parlare piú oltre di questo, s'aspettasse
di veder prima qual fosse esser il progresso del concilio e che cosa si poteva
da quello sperare, dovendosi comminciare presto; che, quando non apparisse
frutto alcuno, si potrebbe inanzi il fine di quella dieta intimare un'altra per
trattare tutto 'l negozio della religione, attendendo adesso a quello che piú
importa, cioè alla guerra de' turchi.
|