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Salterò a piè pari due giorni durante i quali le visite e gli accordi furono più frequenti che mai. In quei giorni, Garibaldi s’era fatto alquanto taciturno, e, conversando, pareva astratto; noi cercavamo di leggergli negli occhi, ed avremmo dato un anno di vita per una sola parola... Una volta, mentre mi dettava una lettera, mi arrischiai a dirgli:
– Ieri fui a Genova, generale...
– Ebbene?
– Trovai tanta gente che mi disse: «Si parte o non si parte?».
– Partiremo partiremo – rispose – ma certe faccende vanno prima meditate assai... Non bisogna dimenticare ciò che accadde ai fratelli Bandiera, e quel che accadde al povero Pisacane...
Frattanto, fra la gente che capitava alla villa Spinola, mi accòrsi non esser piccolo il numero di coloro, i quali venivano a sconsigliare Garibaldi della partenza e a mostrargli le difficoltà immense d’una impresa, a parer loro, più che temeraria.
Uno dei più calorosi nell’intento di smuovere Garibaldi dal suo disegno, era Giacomo Medici, il quale udendo me ed altri mormorare fieramente contro i guastamestieri che venivano a seminar dubbiezze nell’animo del generale, mi tirò bruscamente nel vano di una finestra e mi disse:
– Lo so pur troppo che Garibaldi ha intorno della gente che vuol fargli commettere delle pazzie e rovinar lui e il Paese... Ora, finché certi ragionamenti li sento fare da persone che non capiscono nulla, non ne faccio caso; ma a lei che capisce o dovrebbe capire, fa proprio torto l’unirsi a que’ furibondi per sacrificare quell’uomo...
Risposi al Medici un po’ vivamente ed egli rincarò la dose, ed uscì tutto indispettito.
Entrò, in quel punto, Nino Bixio.
– Senti, Bixio – gli dissi – c’è anche Medici tra quelli che non vogliono che partiamo.
Bixio schizzò fuoco dagli occhi e schiacciò un gran perdio, e insieme a Francesco Crispi volle che lo annunziassi al generale, che, in quel momento, era solo.
*
* *
Ero da quattro giorni nella villa Spinola e non si risolveva nulla.
Si parte domani? Dopo domani? Questa era la dimanda che si faceva da tutti; nessuno però si trovava in caso di poter rispondere, ed invano invocavano dalle labbra di Garibaldi una parola di consolazione. Il viavai della gente continuava più frequente ancora, il La Farina era tornato a farsi vedere, era comparso il Bertani, era venuta la signora Adelaide Cairoli con due figli, e qualche cassa di fucili veniva chiusa nelle stanze terrene della casa; nello studio del generale c’era una bella cassa di revolvers, e sulla scrivania c’era un grosso sacchetto di napoleoni d’oro.
Il giorno 26, Vecchi mi disse: «Il generale sembra che voglia partire domani».
E per vero, i volontari avean cominciato a radunarsi in Genova, ma non passavano i cinquecento. Se quel numero parve allora magnifico ai più fiduciosi, e specialmente al La Masa e agli altri siciliani, che, a traverso le illusioni del desiderio, vedevano l’isola tutta in fuoco e fiamme, i fatti che di poi avvennero mostrarono a chiare note quanto s’ingannassero.
Per la qual cosa, dico adesso che fu proprio la mano di Dio che mandò per la gloria di Garibaldi e per la salute d’Italia quell’impensato accidente, da cui fu tardata la partenza e fu dato agio di provvedere a’ casi nostri in modo più conforme alla necessità.
La mattina del 27 aprile, giorno che si riteneva generalmente esser vigilia della partenza, giunse una lettera del Fabrizi, il quale annunziava da Malta essere spenta del tutto l’insurrezione siciliana; e non rimanerne alcun vestigio, tranne qualche banda di fuggiaschi, che s’aggiravano raminghi per le montagne. Soggiungeva quella lettera che sarebbe stata impresa temeraria e funesta il voler tentare uno sbarco nell’isola, che atterrita dalla ferocia dei borbonici vittoriosi, non avrebbe secondato gagliardamente l’audacia di pochi arrisicati.
Bastarono quelle notizie, senza dubbio veridiche e schiette, perché l’animo di Garibaldi fosse distolto da un tentativo, che si veniva rivelando destituito d’ogni ragionevole probabilità di successo.
– Sarebbe follia! – esclamava egli, asciugando una lacrima generosa. – Pazienza! Verrà ancora la nostra volta. L’Italia deve essere e sarà.
Indarno preghiere e conforti s’adoprarono, indarno fu detto che i volontari eran giunti e chiedevano imbarcarsi ad ogni costo; indarno, il La Masa, il Crispi e gli altri siciliani gli furono attorno, scongiurandolo a non disperare e a non abbandonarli. Li vedo ancora; escirono pallidi e scorati dalla stanza, e solo rimase col generale l’ostinato Bixio, che dopo aver vuotato il sacco delle preghiere e degli scongiuri, e dopo aver detto tutto quanto la passione infocata gli suggeriva, escì anche egli, ma cogli occhi biechi, e con le mani tra i capelli, e dato un urtone al primo che si fece innanzi per interrogarlo, escì a corsa dall’anticamera, gridando: «All’inferno! all’inferno!».
Le dolorose parole non si parte più bastarono a spopolare in brevi istanti la villa Spinola, che si ridusse un camposanto. Della grande impresa che si preparava, non rimanevano altri segni, tranne le casse dei fucili, giacenti per le stanze disabitate del pianterreno.
Dopo pochi minuti non restavamo nell’anticamera, che io e cinque o sei altri familiari del generale, il figlio Menotti, Antonio Mosto e tre o quattro capitani di mare, tra cui rammento il Rossi e l’Elia. Non avevamo più parole. Oh bel sogno svanito! Per Dio! Bisognava esser di sasso per pigliarsi in pace quel colpo.
Verso sera, chi era andato qua e chi là; nell’anticamera non eravamo se non io e un bel giovine di Camogli, con due grandi occhi azzurri spiranti un ineffabile senso di simpatia.
Garibaldi entrò col suo bravo sigaro in bocca, e pose gli occhi sopra una gran carta della Sicilia, spiegata sulla tavola. Schiaffino gli si avvicinò, dicendo con voce tremante:
– Addio. E... dove andate, Schiaffino?
– Da mia madre, che m’aspetta...
– No, non potrei mangiare... Addio generale.
E gli occhi gli si empirono di lacrime.
– Che cuore! – esclamò Garibaldi. – Vedete che cos’è l’amor di patria! Costui avrebbe preferito il farsi ammazzare alla gioia di rivedere la povera sua madre, che lo aspetterà piangendo. Bravo giovane! M’ha l’aria d’un eroe.
E Schiaffino un eroe fu davvero, e lo vedemmo a Calatafimi contendere pertinacemente a quattro cacciatori borbonici i brani della gran bandiera donata a Garibaldi dalla città di Valparaiso, finché rotto da più colpi mortali non spirò l’anima generosa tra le pieghe del disputato vessillo.
Partito che fu Schiaffino, entrarono Bertani, Mosto e Vecchi ed un signore che giudicai ungherese. Con questi escì Garibaldi a passeggiare per la villa; io gli tenni dietro, accompagnato con Elia, con Rossi e con Fruscianti; tutti con tanto di muso e con la desolazione nell’anima.
La serata era bella e serena; il mare scintillava sotto i nostri occhi, ripercosso dagli ultimi raggi del sole cadente. La veduta del mare ci ridestò più tormentosa nel cuore la poesia della romanzesca impresa che ci avea innamorati. Quel povero re inglese di Shakespeare offriva il suo regno per un cavallo; noi avremmo dato quanto di più caro avevamo al mondo per una nave! Ma che ci giovava una nave, se insieme a noi non era Garibaldi?...
Stornammo gli occhi da quella visione tentatrice e ci avviammo per un viale, che metteva capo ad una delle uscite della villa. Ragionavamo delle nostre tribolazioni e della coda del diavolo che avea guasti i nostri sogni leggiadri, quando il caso volle che sbucassero dietro a un gruppo d’arboscelli due preti. Que’ due preti ridevano.
– Ecco là quei due corvi del mal augurio, che gongolano della nostra mortificazione.
E, detto fatto, corse sopra certe brutte vestigie, lasciate per terra da certe vacche, e ne pigliò una gran manata; Rossi, indovinando il suo pensiero, fe’ altrettanto; e in un baleno, furono addosso ai malcapitati, e acciuffatili, sigillarono ad ambedue la bocca con un potente ceffone, che non ebbe delle rose né il colore né l’odore.
I reverendi rimasero per qualche minuto estatici, poi s’arrischiarono ad aprir bocca, e urlarono come ossessi, e fuggirono, togliendosi di sul volto, a pezzi e bocconi, la fetida maschera. Mezzo morto dal ridere, m’ero avvinghiato ad un colonnino, per non cascare in terra. Fruscianti rideva a più non posso. I due schiaffeggiatori forbivano le mani sull’erba. Quand’ecco Garibaldi, attratto dalle urla dei preti, comparire in fondo al viale e gridare:
Elia e Rossi, veduto il generale, sparirono come il vento; io e Fruscianti si rideva ancora a crepapelle, quand’egli fu a pochi passi da noi, e volle sapere l’accaduto.
– Veda, – dicevo io, accennando i due preti – son venuti a canzonarci, e li abbiamo puniti nella bocca...
Garibaldi mi squadrò con due occhi da far paura, e fece a tutti una gran bravata; poi, bofonchiando, andossene colla compagnia, e nol rividi che all’ora di cena.
Gran scalpore menarono del triste loro caso i due preti nel villaggio di Quarto, e giurarono che nella villa Spinola erano stati assaliti dai diavoli. E quando poi, dopo non molti giorni, seppero che Elia era rimasto ferito da una palla nella bocca, lodarono pubblicamente in chiesa il dito di Dio, che li aveva vendicati. Però, non poteron dire nel caso loro e d’Elia: Qui gladio ferit, gladio perit; perché Elia li colse collo sterco di vacca, e fu ferito dal piombo.
Ora, il lettore vorrà sapere come mai i detti preti s’arrischiassero a venir passeggiando per la villa, mentre sapevano che la villa era abitata da Garibaldi e vi bazzicava certa gente, più nemica assai delle chieriche che delle corna di Belzebù. Che debbo rispondere al lettore? Risponderò essere corsa voce, in quei tempi, che i reverendissimi fossero di voluta intesa col console borbonico in Genova, e venissero alla villa per raccoglier broccoli e portarglieli.
Se ciò è vero, bisogna pigliar nelle nostre le mani d’Elia e di Rossi, oggi ben lavate e purificate, e cantare in buona musica: «Benedette queste mani!».