Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Libro ascetico
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Il sasso contro l’eroe

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Il sasso contro l’eroe

[1898]

Fiorenza! E tu avesti la tua ora di perfezione, come il tuo giglio verace, non il bianco, non il rosso, ma il pavonazzo nel primo fiorire su pe’ tuoi cigli, su pe’ tuoi muri a secco, quando sola ti dimostravi erede del sangue romano contro gli avanzi e le tradizioni del sangue teutonico, quando tu costituivi l’esemplar tipo del Comune italico, il più robusto e sincero ordinamento destinato a favorire lo sviluppo di tutte le generose energie umane e le raggianti apparizioni dell’arte, della poesia, della sapienza, di ogni spirital bellezza. Avesti in quell’ora, sotto l’arco del tuo cielo sereno come il ciel di Dante prima dell’esilio, avesti in quell’ora i più alti miracoli dello spirito rivelato: Giotto e il Tosco che s’avvia alla città del foco, la Comedia e il Duomo, la nova lingua e la nova libertà. Incipit...

Narra il più antico cronista fiorentino, il Sanzanome, che, al tempo in cui gli ultimi nobili feudali raccolti nella rocca di Fiesole devastavano la terra, si levò un eroe in mezzo al popolo e gridò: «Se siete veramente i figli di Roma, questo è il momento di mostrarlo.» I Consoli dichiararono la guerra.

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Or ecco, impressa per sempre nella mia memoria, la figura d’un’altra guerra, d’una bassa guerra, muta d’ogni luce come il secondo cerchio. Per me Fiorenza ha la midolla del cuore non nel Palagio ma sì nella Loggia grande di piazza, per partito de’ Signori e del Comune alzata sopra i fondamenti fatti al tempo del duca d’Atene e tirata innanzi «con molta diligenza di pietre quadre benissimo commesseBene quadrar pietre e benissimo commetterle era necessario in Fiorenza allora; non necessario era edificare la gloria dei capi maestri. Andrea Orcagna? Benci di Cione? Simone di Francesco Talenti? Non monta un dado, direbbe Antonio Pucci; e dico io stesso. Tal sia di me.

Non mai dimenticherò lo spettacolo ripugnante. Non mai mi si dileguerà dagli occhi del dispregio e dell’abominio la vista dei tre archi «girati in mezzi tondi con tanta grazia e bellezza di tanta fabbrica», la vista delle creature allora allora fatte immote nel marmo e nel bronzo ad un lume crepuscolare, di dal tumultuoso flutto plebeo che batteva la base dei pilastri con una furia iterata volgendo il suo sforzo massimo verso l’arduo bronzo di Benvenuto.

«Patria mia dolceparlava in me quel maestro di stile inimitabile com’è il mio stile. E più soffrivo nel risentir quella rara vena di dolcezza rigare il suo vigor sanguigno. «E’ bisognava fare molto maggiore la fornace...» E più soffrivo nel risentire il fuoco montare alla sua fronte, prima che alla testa di Perseo e a quella della Medusa. Or le cataste di legno di pino, venute di Monte Lupo, stavano per iscrosciare e divampare un’altra volta?

A me medesimo io chiesi perché quell’ira bestiale, tra quel popolo di statue, avesse eletto all’abbattimento l’uccisore di Medusa protetto dall’elmo di Ade.

Certo, perché pareva quella fra tutte la figura più altera più eroica e più dominatrice, esprimendo intiera l’energia appassionata, intiero esprimendo lo sfrenato orgoglio, che facean formidabile lo spirito dell’artefice fiorentino e crudele il suo «piccol pungente pugnaletto». Quell’affermazione trionfale di potenza e di dominio eccitava l’ottusa rabbia plebea. Il piede robusto premuto sul corpo mutilato della Gorgone, la branca invitta sostenente il teschio spaventoso, non promettevan forse il castigo agli schiavi ribelli?

La mia furia lirica s’attendeva, con Benvenuto, che «una saetta si fussi creata quivi alla presenza nostra».

Respinti dai cavalieri – e non mai mi fu imbelle la mia lancia di lanciere bianco – gli assalitori piegarono urlando imprecando tendendo i pugni verso le statue alte e sdegnose. Le pietre volarono, spesse e veementi, come lanciate dalle fionde. Il mio spirito, lo spirito degli antichi miei pari, lo spirito di Michelangelo ritrovava il verso michelangiolesco: «Davide co’ la fionda et io con l’arco.» La sassaiuola non avea per fionde se non tutte le viltà. L’antica anima della Repubblica, compresa dai puri e fieri archi come dalle coste del suo gran petto, fu lapidata, rinnegata, svergognata.

Un di que’ sassi colpì l’eroe Perseo in un ginocchio, risonò, si scheggiò, rimbalzò. Lasciò nel bronzodove nella notte sublime s’erano strutti il vasellame e l’angoscia di Benvenutolasciò nel bronzo un segno lucido, una sorta di ferita splendente.

«O Eroe sempiterno, tra gli uomini il più insigne, come ti chiamava Omeropensò il poeta, ferito anch’egli, vilipeso anch’egli, straniato anch’egli «non farai tu le vendette allegre? La tua spada falcata e pesante, la tua gran coltella in forma di falce, la tua arpe, o Eroe, non decapiterà un giorno anche il novello mostro? Il tuo calzare alato non premerà il corpo della bestia doma

Autor ego audendi soggiunse il suo dèmone, con quel soffio che non è se non l’apice del brivido; perché il chiuso coraggio in sé ripetesse le tre parole senza suono.




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