Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
L'allegoria dell'autunno
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Orazione agli ateniesi

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Nell’ottobre del 1895, chiudendosi la prima

«Esposizione internazionale d’Arte»

in Venezia.

Orazione agli Ateniesi
[ix febbraio mdcccxcix]

O Ateniesi, io parlerò la lingua della mia patria, per sciogliere il mio vóto alla santità della Madre Ellade che un bel dio scolpì nella roccia smisurata obbedendo a quel medesimo ritmo cui obbedirono alzando i templi e foggiando le statue gli artefici umani.

È dolce cosa, è grande gioia per me poter parlare la lingua natale oltremare, ed esser compreso e quasi direi riconosciuto nella regione sublime ove il mio spirito visse la sua vita più libera e più pura. La melodia italica suona ininterrottamente nel cerchio delle isole favolose: dove l’ode di Saffo dal crin di viola sorvolava su le prore delle triremi come un messaggio della primavera, quasi non sembra estraneo l’accento che si eterna nella canzone del Petrarca; e all’olivo di Corcira e al mirto di Zacinto sembra intrecciarsi in corone ideali il lauro fiorentino.

Un’aspirazione ardente e continua inclina il genio della nostra stirpe verso la Madre dei marmi perfetti, dei pensieri armoniosi e degli invitti eroi. Un desiderio infinito volge l’anima nostra, come il vento la fiamma, verso il chiaro Ionio ove sembra ella debba ultimamente acquietarsi in una suprema felicità. Ogni volta che in questo suolo sacro la ricerca assidua degli adoratori discopre una nuova statua, un altro vestigio della vita giovine, un altro prodigio della grande Arte, v’è in Italia un poeta religioso che palpita d’una indicibile ansietà e pensa ogni volta: «Fu dunque ritrovato nel grembo della Madre Ellade un dio calmo e possente, il quale dormì nei secoli un lucido sonno, ed ora si sveglia per dirci alfine la parola della Risurrezione

Tanto, o Ateniesi, io sentii pur ieri dinanzi all’Auriga di Delfo, a questo ultimo venuto da un popolo sotterraneo di vincitori incoronati. A colui che lo guardò pur una volta, egli sarà presente per sempre, sino alla morte. Egli è qui vivo e presente, nel suo silenzio eloquente come il silenzio della selva, del fiume, della montagna, delle vergini stelle. Nelle linee semplici e vaste del suo corpo è chiusa una virtù che è forte come la virtù onde sono animati gli elementi primordiali dell’Universo. Le pieghe simmetriche e ferme della sua tunica simulano la robustezza delle colonne che sostengono i frontoni dei templi abitati dai numi. Il suo braccio proteso, che reggeva le redini con un gesto sicuro, sembra ora capace di reggere il mondo. I suoi occhi, fissi alla mèta agonistica con la certezza della vittoria, sembrano ora intenti a quel vertice di luce ove s’appuntano le speranze immortali che diede il Titano Prometeo alle stirpi terrene. Egli non è più il conduttore di un carro nel circo, ma l’Auriga solare, il duce del Giorno, il regolatore degli Astri, diritto sereno e immutabile come una legge della Natura.

Tanta è la possanza dell’antica arte vostra, o Ateniesi.

Colui che comunica con un tal capolavoro, comunica con l’universo. Pur questa mane io era dinanzi al pio bassorilievo di Eleusi, e sentivo indefinitamente ampliarsi il ritmo delle mie vene. Anche quivi un alto e misterioso officio si compie, a cui partecipa silenziosamente la vita universale. L’onda perpetua dei mari è nella chioma di Demetra; la calma dei cieli superni, nella sua fronte pura; l’alito delle foreste, nella sua bocca sinuosa; la curva dei monti, nel suo petto colmo; la rigidità delle colonne sacre, nelle pieghe del suo peplo; tutta la dolcezza del consentimento, nella reclinazione del suo volto; tutta la bontà del dono, nella sua destra semichiusa; tutta la sicurtà della tutela, nel suo braccio che si appoggia allo scettro.

Ella è la grande Madre terrestre, radicata nel suolo profondo che nutre la semenza sostanziale. Come i piedi dell’Auriga, ambo i suoi posano su la terra. Ambo i piedi di Trittolemo posano su la terra. L’adolescente è ignudo, la sua mano lascia cadere il lembo del vestimento. Egli svela la sua giovinezza e la sua forza a colei che dona. Nelle sue forme giovenili palpita già il presentimento della prossima fatica; nella sua mano levata ad accogliere, già si disegna il gesto del seminatore. Egli e la Madre premono la terra, ne sentono sotto i piedi ignudi la virtù inesausta. Ma l’un dei piedi di Persefone è levato come nell’atto di chi sia per giungere o sia per partirsi. Le pieghe delle sue vesti sono interrotte, sembrano respirare lo spirito volubile dei vènti. I suoi capelli di su le tempie si rivolgono verso l’occipite con il movimento della vampa che sale. La sua destra si leva sul capo del fanciullo, contenendo tutta l’ombra e tutta la luce del Destino. Dinanzi a lei è la visione del mondo mutevole sotto l’occhio del sole; dietro di lei è la tenebra del mondo sotterraneo ove le imagini delle cose terrene stanno immote nella bellezza immutabile della Morte. Tacciono le labbra divine e umane; ma un fiume immenso di armonia si diffonde generato da ogni segno, e s’odono cantare in una infinita lontananza le fonti della Vita.

Tale è il potere delle creature che sono sepolte nella vostra terra, o Ateniesi, e che di tratto in tratto risorgono alla luce primiera per meravigliare e per consolare gli uomini efimeri con lo splendore della Verità che in esse vive e si perpetua.

Un giorno – e sia domani! – taluna di loro dirà forse a un poeta e a un eroe la parola della Risurrezione; e il poeta e l’eroe la ripeteranno alle genti; e – dopo tanta sventura e dopo tanto eroismo – il fremito della novella primavera umana correrà per i mari sonori che già raggiarono all’apparizione di Afrodite e rosseggiarono già di tanto sangue barbarico.

Offriamo intanto le nostre più fresche corone al bronzo di Delfo, al marmo eleusino; e leviamo al cielo le preghiere e i vóti.

Nei vóti e nelle preghiereuditemi, o Ateniesi, o cittadini della Città sublime coronata di violette! – nessuno mai vincerà il fervore filiale di colui che deve al sole dell’Ellade, alla fiamma del vostro cielo, la maturità del suo spirito, la plenitudine della sua vita, la conquista della sua gioia.



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